Intervista a cura di Nando Santonastaso, pubblicata sul quotidiano il Mattino, 8 settembre 2010
Lo aveva previsto, Pietro Ichino, giuslavorista e senatore Pd: nel suo libro «A cosa serve il sindacato» del 2005: aveva descritto con una precisione impressionante la deriva delle relazioni industriali italiane di questi ultimi mesi e il nuovo scenario che di fatto, da ieri, sembra essersi materializzato.
Professore, è solo simbolica la decisione di Federmeccanica o si apre veramente una nuova stagione per le relazioni industriali?
«Mi sembra difficile non vedere in questo atto di Federmeccanica una svolta di enorme rilievo: esso segna ufficialmente l’apertura della crisi del nostro sistema di relazioni industriali centrato sul contratto nazionale».
L’approdo sarà solo il nuovo contratto per l’auto?
«È possibile che questo sia lo sbocco. Ma non è affatto chiaro quale sarà il campo di applicazione di questo nuovo contratto. Se sarà definito in modo estensivo, e comprenderà anche la produzione di motocicli e l’indotto, si aprirà un problema di equilibri tra numerose imprese, alcune delle quali hanno anche interessi e comportamenti sindacali diversi da quelli della Fiat: per esempio la Piaggio di Colaninno. E sarà interessante vedere come verrà regolato il rapporto tra questo nuovo contratto nazionale e i contratti aziendali».
Se invece sarà definito in modo restrittivo, comprensivo cioè solo dell’industria automobilistica in senso stretto?
«Allora sarà di fatto un contratto aziendale Fiat. E alla Fiat si applicherà solo quello: sarà la fine, almeno in questa impresa, del sistema della contrattazione articolato su due livelli».
La svolta impressa da Marchionne e il boom dell’industria tedesca favorita dalle riforme del governo: c’è una correlazione, a suo giudizio?
«Certo, quel che sta accadendo in Germania contribuisce alla crisi del nostro sistema. Innanzitutto perché in Germania le parti negoziano la distribuzione dei frutti della produzione sulla base di una visione condivisa del contesto in cui le imprese operano, dei vincoli da rispettare e del modo per aumentare al massimo la torta da spartire: questo è ciò che dobbiamo imparare a fare anche noi. Poi, perché lì il decentramento della contrattazione collettiva in Germania è stato attuato molto prima che da noi, e in modo molto più fluido di quanto non sia stato fatto da noi con l’Accordo interconfederale dell’anno scorso.».
Vuol dire che anche quel nostro ultimo accordo è stato troppo timido?
«Sì. Lo dimostra il fatto che alla prima prova importante, cioè nella vicenda di Pomigliano, il nuovo regime si è rivelato inadeguato rispetto alle esigenze di un piano industriale innovativo. L’accordo aziendale di Pomigliano è per due aspetti incompatibile anche con l’accordo interconfederale del 2009. Se vogliamo aprirci all’innovazione nell’organizzazione del lavoro, nella struttura delle retribuzioni, negli orari di lavoro, occorre una svolta più incisiva».
Quale svolta?
«Il contratto nazionale deve valere come rete di sicurezza, come disciplina che si applica per default, in tutti i casi in cui non c’è un contratto più vicino al luogo di lavoro stipulato da una coalizione sindacale che abbia il requisito di rappresentatività per farlo. Solo così il contratto aziendale può diventare davvero lo strumento della scommessa comune tra imprenditore e lavoratori su di un piano industriale innovativo».
La Fiom parla di scontro sociale: è preoccupato?
«Sono più preoccupato per l’inerzia del Governo e del Parlamento su questo terreno: dove il sistema di relazioni industriali mostra di non essere in grado di darsi da solo le regole necessarie, deve essere il legislatore a farlo, sia pure soltanto in via provvisoria e sussidiaria».