QUALE FUTURO PER IL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE

COME LA VICENDA FIAT STA CAMBIANDO LE RELAZIONI INDUSTRIALI IN ITALIA, NONOSTANTE LE INERZIE DELLA CGIL E DEL GOVERNO

Intervista a cura di Ulisse Spinnato Vega, pubblicata su polisblog.it il 3 settembre 2010

Il processo riformatore della contrattazione e delle relazioni industriali non si avvia in modo ordinato e organico? Ci ha pensato l’ad Fiat Sergio Marchionne a ’strattonare’ il sistema, a forzare la mano. Dapprima con la newco per Pomigliano e poi minacciando l’uscita da Federmeccanica per affrancarsi dal giogo del contratto nazionale e per dare vita a un contratto dell’auto ad hoc.
A quel punto è partita la mediazione di Confindustria. Il presidente Emma Marcegaglia vuole infatti salvare capra e cavoli, per cui adesso si discute di deroghe allo stesso contratto nazionale in favore di aziende che compiono grossi investimenti con ambiziosi obiettivi di mercato e produttività.
Martedì si riunisce il direttivo di Federmeccanica per valutare la situazione. Il 15 settembre, invece, l’organizzazione datoriale aprirà il tavolo con i sindacati di categoria che sottoscrissero la riforma della contrattazione nel gennaio 2009. Mancheranno, dunque, i ‘duri’ della Fiom che hanno già parlato di appuntamento pensato per “cancellare il contratto nazionale”. Il celebre giuslavorista e senatore del Pd, Pietro Ichino, ha da sempre idee molto chiare su come modificare il funzionamento della cinghia di trasmissione lavoratore-rappresentanza sindacale-proprietà. E in un’intervista a Polisblog.it dice: “Il contratto nazionale va applicato dove manca quello aziendale”.
Professor Ichino, prima il caso di Pomigliano, ora esplode la vicenda Indesit. L’esempio considerato all’inizio eccezionale non sarà dunque tale. E imporrà una rivoluzione nel processo della contrattazione e nelle relazioni industriali. Cosa sta accadendo?
Quello che sta accadendo a Pomigliano e alla Indesit è descritto in modo preciso nel libro ‘A che cosa serve il sindacato’, che ho pubblicato nel 2005. Entrambe le vicende mettono in luce un grave difetto del nostro sistema di relazioni industriali: manca il criterio di verifica della rappresentatività effettiva dei sindacati, manca la regola che stabilisca condizioni e requisiti per la validità della deroga al contratto nazionale negoziata al livello aziendale, manca una disciplina della clausola di tregua coerente con gli standard della maggior parte dei Paesi occidentali industrializzati”.
Il principio delle deroghe di cui tanto si parla non contrasta con la flessibilità legata alla contrattazione di secondo livello, flessibilità rafforzata dall’accordo del 2009? Non basterebbe quest’ultima?
Nonostante il modo in cui esso è stato presentato dai suoi protagonisti e dai suoi antagonisti, in perfetta sintonia tra loro, l’accordo del gennaio 2009 risponde ancora a un modello di contrattazione molto centralizzato. Tanto è vero che alla prima occasione di qualche importanza – quella di Pomigliano – esso si è rivelato inadeguato rispetto alla necessità di un piano industriale innovativo”.
Vede favorevolmente l’addio al contratto nazionale? Oppure basta rafforzare la contrattazione decentrata? E laddove la contrattazione decentrata non è applicabile, che si fa?
La mia tesi è che il contratto collettivo nazionale deve porre la disciplina ‘di default’, cioè quella che si deve applicare in tutti i casi in cui manchi un contratto aziendale stipulato da una coalizione sindacale sufficientemente rappresentativa. Altrimenti, si applica il contratto aziendale. Questo consentirebbe uno spostamento del baricentro del sistema delle relazioni industriali verso i luoghi di lavoro, senza però lasciare prive di una disciplina contrattuale le aziende dove la contrattazione collettiva non arriva”.
La Fiom non sembra contraria in modo pregiudiziale a turni più flessibili, pause ridotte e a un aumento degli straordinari decisi unilateralmente. Però, un’organizzazione del lavoro più efficace deve passare per forza dalla revisione del diritto costituzionale (e individuale) di sciopero?
La Fiom è contraria alla deroga al contratto nazionale contenuta nell’accordo di Pomigliano per quel che riguarda le punte anomale di assenza per malattia. A mio parere sbaglia, perché la disposizione contenuta nell’accordo è molto ragionevole e non contrasta con alcune norma legislativa. L’altro punto di grave dissenso riguarda la clausola di tregua: la Fiom ritiene che essa non possa vincolare il singolo lavoratore a cui il contratto che la contiene si applica. Questa tesi, che prevale tra i giuslavoristi italiani ed è funzionale a un sistema di relazioni industriali che consente la conflittualità permanente, non ha fondamento in alcuna legge e neppure nella Costituzione. In quasi tutti gli altri Paesi europei maggiori la clausola di tregua vincola anche i lavoratori a cui il contratto si applica. A me sembra che anche l’Italia farebbe bene ad allinearsi a questo standard: anche nell’interesse dello stesso sindacato, il quale ha bisogno di una moneta di scambio credibile al tavolo delle trattative”.
Come si recupera la produttività del Paese? Non si sta dando troppo peso, nel dibattito attuale, all’organizzazione del lavoro e al rapporto col sindacato rispetto a temi tipo infrastrutture, burocrazia, ricerca, innovazione e qualità dei prodotti (per esempio le auto) da proporre al mercato? Per intenderci, le vendite Fiat crollano ancora, ma forse non per colpa delle turbolenze con i lavoratori.
Non c’è dubbio che a determinare la pessima performance italiana in materia di produttività e di capacità di attrarre gli investimenti stranieri contribuiscano anche altre cause: soprattutto i gravi difetti di funzionamento delle nostre amministrazioni pubbliche e delle nostre infrastrutture. Ma vi contribuiscono anche un diritto del lavoro ipertrofico, complicatissimo, illeggibile per gli stessi specialisti italiani, e un sistema di relazioni industriali inconcludente, che attribuisce di fatto alle formazioni sindacali minoritarie un potere di veto sui piani industriali innovativi”.
Cesare Romiti, l’altro giorno, invitava Marchionne a star calmo, visto che Melfi è una fabbrica tranquilla, “nulla a che vedere con la Mirafiori degli anni ‘70″, diceva. E soprattutto smontava l’assunto molto in voga secondo cui ci vuole un “patto tra produttori”, l’identità di interessi tra capitale e lavoro. Anzi, rispolverava il vecchio principio del naturale conflitto tra parti che sembra ormai in soffitta.
A me sembra che tra imprenditore e lavoratori ci sia una comunanza di interessi circa la massimizzazione della produzione e del reddito dell’impresa. Ci sia invece un conflitto di interessi – peraltro suscettibile di agevole composizione, in condizioni di normale trasparenza e affidabilità reciproca delle parti – circa la distribuzione dei frutti prodotti. Mi sembra molto sbagliato negare sia la prima, sia il secondo”.
Come coinvolgere i lavoratori negli interessi dell’impresa. Azionariato? Partecipazione ai consigli di sorveglianza?
Non c’è un modello unico: nel disegno di legge che ho elaborato su incarico della Commissione Lavoro del Senato nel 2009 se ne indicano nove diversi. Nessuno di questi può essere imposto, e neppure proposto come modello dominante: in ciascuna impresa devono essere le parti a decidere se e quale modello attivare, con un apposito contratto collettivo istitutivo. Ciò che occorre, invece, è promuovere il confronto e la competizione tra i modelli diversi”.
A suo modo di vedere, come si è mosso il governo? Ha una giusta politica industriale? E soprattutto: fenomeni industriali globali possono essere governati da un singolo esecutivo nazionale?
Su questo terreno il nostro Governo attuale non si è mosso proprio: il ministro Sacconi ha scelto di non intervenire per promuovere lo sviluppo e confronto tra modelli diversi di partecipazione nelle imprese, e di non intervenire neppure per risolvere in via sussidiaria e provvisoria con una legge semplice e snella le due grandi lacune del sistema delle relazioni industriali di cui abbiamo parlato prima. Per ora il bilancio delle politiche del lavoro in questa legislatura mi sembra davvero modestissimo. Quanto alla politica industriale, lì da mesi manca addirittura lo stesso titolare del dicastero”.

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