ACCORDI SEPARATI OK, PURCHE’ SIANO CHIARI I REQUISITI PER LA LORO EFFICACIA

IL DIRITTO SINDACALE ANCOR OGGI IN VIGORE E’ NATO NELL’EPOCA IN CUI CGIL CISL E UIL STIPULAVANO SEMPRE INSIEME I CONTRATTI COLLETTIVI NAZIONALI E AZIENDALI; VENUTA MENO QUESTA UNITA’ DI AZIONE E’ INDISPENSABILE UNA NUOVA DISCIPLINA GIURIDICA, QUALE QUELLA CONTENUTA NEL D.D.L. N. 1872/2009, CHE STABILISCA CONDIZIONI E REQUISITI PER L’EFFICACIA ERGA OMNES DEI CONTRATTI COLLETTIVI

Editoriale di Innocenzo Cipolletta, già Direttore generale di Confindustria e poi Amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, pubblicato sul Sole 24 Ore del 2 settembre 2010

Tra le vittime della vicenda Fiat di Pomigliano c’è sicuramente il ricorso ad accordi sindacali separati, che nel corso degli ultimi dieci anni ha caratterizzato le relazioni industriali italiane. Senza un sistema di regole sulla rappresentanza, gli accordi sindacali separati finiscono per essere non gestibili o non applicabili.
Se l’accordo non coinvolge tutte le parti, è necessario disporre di un sistema di regole che verifichi le rappresentanze, determini chi abbia diritto a negoziare e definisca le modalità di approvazione e di applicazione dei contenuti del negoziato verso tutti i lavoratori.
Invece, fino ad oggi, l’applicazione degli accordi sindacali è rimasta alla prassi che si era consolidata quando non c’erano accordi separati.
Ne può essere considerato un precursore l’unico accordo separato che venne effettivamente applicato nel passato, quello sulla predeterminazione della scala mobile nel 1984. Infatti quello fu un accordo tra governo da una parte e Confindustria, Cisl e Uil dall’altra, con l’esclusione della Cgil. La particolarità di quell’accordo era che il governo aveva la capacità di emanare una legge per ratificarlo e renderlo applicabile a tutti. Per questo venne tentato un referendum abrogativo nel 1985, dove vinsero i no e sancirono definitivamente la validità dell’accordo.
Ma le parti sociali non hanno capacità legislativa. Fiat, Confindustria, Cisl o Uil non possono fare una legge per dare validità erga omnes ai loro accordi. Possono tentare di applicare gli accordi separati, ma devono accettare il rischio di contestazioni. Se non ci sono regole chiare per l’applicazione dei contratti, gli accordi vanno ricercati con tutte le sigle sindacali che hanno un peso rilevante nelle aziende. È questa la sola garanzia che poi essi possano essere applicati.
Come ha ricordato Franco Debenedetti su questo giornale (il 24 agosto), La tregua necessaria per la crescita, occorre definire regole per le deroghe ai contratti nazionali e per l’applicazione delle clausole di tregua al fine di rendere applicabile l’accordo di Pomigliano. In assenza di queste norme è bene ricercare un accordo con tutte le sigle sindacali, come è sperabile che avvenga presto, a interesse del paese e dei lavoratori coinvolti.¦lt;br /> La positiva risposta dell’amministratore delegato della Fiat e del segretario della Cgil alla sollecitazione del presidente Napolitano a riprendere il dialogo rappresenta forse l’ultima speranza che questa vicenda si chiuda positivamente, senza nessuno che si senta sconfitto.
Nel passato, ossia negli ultimi decenni del secolo ormai trascorso, la pratica della ricerca di un accordo con tutte le principali sigle sindacali era la norma. Essa poteva essere lunga e defatigante, ma alla fine portava a risultati positivi. È con essa che è stata eliminata la scala mobile nel 1993, ciò che ha definitivamente portato nel futuro le relazioni industriali italiane.
Occorre sottolineare che la ricerca di un accordo con tutte le parti non dava a nessuna di esse il diritto di veto, come banalmente qualcuno ha affermato. Al contrario, poiché si trattava di decidere su questioni rilevanti per i soggetti coinvolti (lavoratori e imprese), le parti erano caricate della responsabilità di non trascinare i negoziati oltre certi limiti.
Anche le parti più estremiste alla fine cedevano, magari scaricando sugli alleati più malleabili la responsabilità di aver dovuto “mollare” su specifici temi. Ma questa è, da sempre, la logica dei negoziati, dove c’è chi è più pronto a chiudere e chi non vorrebbe terminare mai.
Aver dato luogo alla pratica degli accordi separati ha tolto ai più litigiosi la responsabilità di bloccare una trattativa che riguarda più persone. Questo ha finito per esaltare la loro capacità di resistenza, certi che comunque non impediranno un accordo che comunque verrà fatto senza di loro. Così gli accordi si firmano più rapidamente “solo con chi ci sta”, ma il risultato è quello di aver creato incertezza e distrutto le basi per futuri accordi.
In queste condizioni, le strade sono due. O si torna a negoziare con tutti, oppure si stabiliscono norme precise per valutare il peso specifico delle rappresentanze sindacali e procedure certe per l’applicazione degli accordi negoziati con una parte dei lavoratori rappresentati.
In parlamento già ci sono progetti di legge pronti per essere discussi e approvati. Ultimi quelli del senatore Pietro Ichino che ha proposto un testo organico per una semplificazione del diritto al lavoro (Dl n. 1.872 del novembre 2009) e norme specifiche per consentire una deroga ai contratti nazionali e l’applicazione della clausola di tregua anche ai lavoratori come singoli, in assenza di un accordo tra le parti che regoli il tutto (aprile 2010).
Queste norme potrebbero essere approvate in tempi brevi, se le parti interessate facessero sentire la loro voce. Ciò che è strano in questa vicenda è che le parti che più hanno fatto ricorso ad accordi separati in questi anni non siano affatto quelle più attive per far approvare queste norme sulla rappresentanza. E questo getta una strana luce sulla possibilità di perseguire anche in futuro accordi separati.

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