SULLA QUESTIONE DELLA PARIFICAZIONE DELL’ETA’ DI PENSIONAMENTO TRA UOMINI E DONNE

LA PENSIONE DI VECCHIAIA ANTICIPATA, INTESA COME “RISARCIMENTO” PER LE DISCRIMINAZIONI SUBITE DALLE DONNE IN FAMIGLIA E IN AZIENDA, PERPETUA UN CIRCOLO VIZIOSO DAL QUALE OCCORRE INVECE USCIRE CON “AZIONI POSITIVE” PUBBLICHE, CHE COSTRUISCANO LE CONDIZIONI DELLA PARITA’ EFFETTIVA

Lettera pervenuta l’11 dicembre 2008 – Segue la mia risposta

Illustre Senatore,
mi permetto di scriverLe dopo avere partecipato al Forum di discussione del 9 dicembre scorso sul lavoro e le pensioni delle donne, organizzato a Roma dall’ On. Emma Bonino.  

Premesso che non ho avuto modo di ascoltare completamente gli interventi e di Della Vedova e di Cazzola, mi chiedo come sia stato possibile, guardando la totalità degli interventi, dare così scarsa rilevanza a tutte le donne disoccupate o precarie, over 40, con anziani a cui badare in casa, con un solo reddito (di lavoro o di pensione), che non possono contare su un marito, compagno o come lo si voglia chiamare, o comunque un appoggio e/o un reddito extra.

Queste donne pur non avendo il tanto sbandierato dramma dell’asilo nido e quindi dei figli, insomma della famiglia nel senso classico del termine si barcamenano in una ostile realtà senza alcun tipo di tutela reale, figuriamoci quindi a cosa vanno incontro per tutto ciò che concerne la loro vecchiaia e relativa pensione.

Comprendo che il tema del forum non riguardasse esclusivamente quanto sopra esposto ma si è parlato a lungo di età pensionabile e di tutti gli annessi e connessi mentre di costoro di cui sopra mi pare non si sia detto granchè, se non proprio nulla. Mi chiedo e soprattutto chiedo a Lei, gentile Senatore, che ho avuto modo di conoscere attraverso il Suo intervento e la sera stessa del Forum e scorrendo il libro di Boeri e Garibaldi, circa il Suo interessamento nei confronti dei precari e non solo, quanto sia grande il disinteresse dei politici, persino delle donne radicali, nei confronti di donne come quelle da me citate che, lo ammetto, sono forse numericamente una minoranza rispetto alle fortunate che godono già poco dei diritti loro spettanti, ma sono le più sfortunate; e sono relegate nella invisibilità e indifferenza generale. […]

Mi dimeno saltando da una parte all’altra, cercando di propormi lavorativamente parlando e contemporaneamente documentandomi su ogni novità per tutto ciò che concerne il lavoro eppure, sono qui per l’ennesima volta a scrivere ad un rappresentante del popolo, questa volta ritengo, più sensibile dei precedenti, e a chiedere come poter far valere i miei diritti e soprattutto come far sì che mi venga restituito il mio posto in società, la mia dignità calpestata, i miei diritti inascoltati! […]

Grazie per la Sua attenzione.

Mi auguro a presto

L. M.

Il suo caso, come quello simile di tante altre donne sole, o gravate dal peso di una persona non autosufficiente da accudire, aiuta a capire i gravissimi difetti del nostro sistema di welfare, che ignora totalmente questi casi, ma spende miliardi di euro per garantire indiscriminatamente la pensione a un esercito di persone con meno di 65 anni, e addirittura meno di 60. Ogni cento pensionati ultracinquantacinquenni (per lo più uomini in pensione di anzianità e donne in pensione di vecchiaia “anticipata”), ce ne sono solo quindici o venti che svolgono lavori usuranti, o comunque pesanti, ai quali è giusto garantire un pensionamento precoce. Con quello che spendiamo per l’80 o 85 per cento restante di “pensionati giovani” potremmo invece:
   – dare un sussidio speciale di1500 euro al mese alle famiglie con una persona non autosufficiente a carico;
   – incominciare a costruire una rete di strutture di assistenza specialistica e accoglienza per gli anziani non autosufficienti, come quella che funziona nei paesi scandinavi;
   – attuare una drastica detassazione dei redditi di lavoro femminile fino ai 1500 euro mensili, come “azione positiva” mirata all’aumento al 60% del tasso di occupazione delle donne, secondo l’obbiettivo fissato dalla U.E. a Lisbona per il 2010 (oggi siamo al 47%: uno dei tassi più bassi d’Europa!);
   – favorire il lavoro femminile anche aumentando il numero degli asili nido disponibili: in Italia ne godono 8 bambini su 100, mentre l’obiettivo fissato dalla U.E. a Lisbona è di 30 su cento; e in Danimarca sono già oggi 50 su cento.
          Insomma: abbiamo un welfare capace soltanto di mandare in pensione precocemente e indiscriminatamente gli
insiders (lavoratori regolari, uomini e donne, che hanno goduto di un lavoro stabile per trenta o quarant’anni di fila), ma quasi del tutto incapace di  individuare le situazioni di vero bisogno; capace di erogare – con il pensionamento anticipato – alle lavoratrici una sorta di rassegnato (e indiscriminato) “risarcimento” per i maggiori carichi sopportati in famiglia e le discriminazioni subite in azienda lungo tutto l’arco della loro vita, ma incapace di rompere il circolo vizioso del paternalismo che perpetua la discriminazione. In altre parole: non sappiamo uscire dal vecchio equilibrio sistemico deteriore per passare all’equilibrio migliore, attingendo ai modelli che ci sono offerti dai Paesi del nord-Europa.

          Al pari delle sentenze della Corte di Giustizia europea che negli anni ’90 hanno vietato agli Stati membri di precludere alle donne il lavoro notturno, o hanno imposto il superamento dei monopoli statali dei servizi di collocamento, la recentissima sentenza comunitaria che condanna la disparità dell’età di pensionamento ci impone proprio questo passaggio: abbandonare la vecchia impostazione paternalistica, per rompere il circolo vizioso. E’ paternalismo vietare solo alle donne il lavoro notturno, dice la Corte: perché in questo modo, per prevenire un rischio marginale per alcune (che va combattuto in modo specifico e con altri mezzi), si preclude indiscriminatamente una possibilità di lavoro a tutte. Analogamente – dice ancora la Corte – è sbagliato vietare i servizi privati di collocamento, perché così, per prevenire il fenomeno marginale dei mercanti di braccia (che può e deve essere combattuto altrimenti), si indebolisce ulteriormente la posizione dei lavoratori nel mercato, privandoli di canali preziosi di incontro fra domanda e offerta. Allo stesso modo – dice oggi la Corte – è sbagliato perpetuare la posizione di inferiorità delle donne nel tessuto produttivo col “risarcimento” di una collocazione in quiescenza anticipata, che riduce la durata della loro vita lavorativa, quindi in qualche misura disincentiva le donne stesse, così come i datori di lavoro, dall’investire nella loro professionalità e riduce le loro possibilità di carriera.
          Si spiega, così, anche perché l’ordinamento comunitario ci vieta la disparità nell’età di pensionamento ma non la detassazione selettiva in favore dei redditi di lavoro delle donne: la prima, infatti, è una disparità che favorisce e perpetua il circolo vizioso, mentre la seconda, quando sia intesa come azione positiva temporanea in funzione dell’incremento del tasso di occupazione femminile, tende proprio a rompere quel circolo vizioso, a spostare il sistema dall’equilibrio deteriore a quello migliore.

            Questi, in estrema sintesi, sono i motivi per cui un mese fa ho firmato, con Emma Bonino, la lettera aperta al ministro del Welfare che indicava la via di una parificazione dell’età del pensionamento di vecchiaia  tra uomini e donne, di una sua flessibilizzazione per tutti (chi sceglie di andare in quiescenza prima percepisce una pensione più bassa, e viceversa), e di una utilizzazione di tutto il risparmio in tal modo realizzato – e anche di più – per le misure di sostegno alle famiglie con persone non autosufficienti a carico, al lavoro delle donne e alla libertà di scelta delle madri tra lavoro domestico e lavoro professionale.  (p.i.)

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