PERCHE’ POMIGLIANO RICHIEDE UNA NUOVA NORMA SULLE REGOLE DEL GIOCO

L’ACCORDO FRA UN’IMPRESA E UNA PARTE SOLTANTO DELLE ORGANIZZAZIONI SINDACALI FIRMATARIE DEL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE NON PUO’ DEROGARE AL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE CON EFFICACIA ESTESA A TUTTI I DIPENDENTI

Sentenza della Corte d’Appello di Brescia, 7 marzo 2009, pubblicata in Foro italiano, 2010, I, c. 623, e in Rivista giuridica del lavoro, 2010, II, p. 188, con una nota di commento – La motivazione della sentenza sintetizza bene lo stato dell’arte della giurisprudenza circa una questione che assume rilievo cruciale per l’efficacia dell’accordo stipulato dalla Fiat con Fim-Cisl, Uilm-Uil, Ugl e Fismic per il rilancio dello stabilimento di Pomigliano. Gli effetti di questo orientamento giurisprudenziale in una situazione del tipo di quella di Pomigliano sono descritti nella Cronaca immaginaria di un accordo mai negoziato. In assenza di un accordo interconfederale che introduca un principio di democrazia sindacale, l’unica soluzione possibile è costituita da un intervento legislativo emanato in via sussidiaria e provvisoria. V. in proposito gli ultimi interventi nel dialogo tra Luigi Mariucci e me, dai quali si può risalire agevolmente ai precedenti. 

Il principio di diritto enunciato dalla sentenza – L’accordo volto alla parziale disapplicazione di contratti collettivi precedenti, stipulato da un’impresa con organizzazioni sindacali non rappresentative di tutti i lavoratori, non può avere efficacia anche nei confronti di lavoratori iscritti a sindacato diverso da quelli stipulanti, rimanendo dunque applicabile la disciplina collettiva precedente, con tutte le relative conseguenze economiche.

Svolgimento del processo. — Con la sentenza qui impugnata, il Tribunale di Brescia, giudice del lavoro, su ricorso di Rosa Abramo Battista e altri trentasei lavoratori dichiarava l’accordo aziendale del 28 dicembre 2005 inefficace nei loro confronti in quanto non iscritti all’organizzazione sindacale stipulante (Fai-Cisl), ma ad altra (Flai-Cgil) e, per l’effetto, accertava il diritto dei ricorrenti alla perdurante applicazione del precedente accordo del 4 febbraio 2002, condannando la datrice di lavoro, Avicola San Martino s.c. a r.l., al pagamento delle conseguenti differenze retributive. Osservava il primo giudice che la firma dell’accordo da parte di una sola componente sindacale della rappresentanza sindacale unitaria, sia pure preceduta da un’assemblea dei lavoratori che si era espressa, a maggioranza, a favore e benché controfirmata dal segretario generale della Fai-Cisl, rendeva l’accordo stesso inapplicabile a tutti i lavoratori, compresi, quindi, gli iscritti a diverso sindacato che avevano manifestato aperto dissenso; inoltre, sebbene l’accordo medesimo fosse stato preceduto dall’apertura della procedura di mobilità e ne costituisse in qualche modo l’esito (nessun licenziamento in cambio di una significativa riduzione della retribuzione), non poteva comunque considerarsi, per le clausole che lo componevano, tutte relative alla retribuzione e alla modulazione dell’orario, un contratto di tipo gestionale, come tale valido per tutti i lavoratori dell’azienda.
Avverso la sentenza proponeva appello l’Avicola San Martino s.c. a r.l. sostenendo che il primo giudice era partito dall’erroneo presupposto della pretestuosità della procedura di mobilità, finalizzata, a suo parere, solo alla modifica delle condizioni economiche precedenti, mentre invece era evidente lo stato di difficoltà economica nella quale la datrice di lavoro versava, attese le congiunture del mercato; ricordava che, se l’accordo firmato da una sola delle componenti della rappresentanza sindacale unitaria era invalido, ne conseguiva che anche l’accordo del quale si invocava l’applicazione, quello del 2002, lo era, per essere stato, anche quello, firmato dalla sola Fai-Cisl. Sottolineava inoltre che, attesa la situazione di stallo creatasi nella rappresentanza sindacale unitaria, la ratifica assembleare con larga maggioranza (quaranta favorevoli e ventotto contrari) conferiva uno speciale mandato alla stipulazione dell’accordo che non poteva che essere vincolante anche per i lavoratori sfavorevoli; in ogni caso l’applicazione generalizzata doveva desumersi anche dalla natura gestionale dell’accordo medesimo: non vi sarebbero, infatti, ragioni ostative al riconoscimento di tale natura all’accordo nella sua interezza in quanto, pur non individuando i criteri di scelta per i lavoratori risultati in esubero e quindi destinati a non rientrare dalla mobilità, aveva raggiunto il risultato massimo di evitare i licenziamenti in cambio di una riduzione, necessariamente generalizzata, del costo del lavoro.
Si costituivano i lavoratori per la conferma, ricordando che la procedura di mobilità era stata un semplice strumento di pressione per indurli ad accettare condizioni economiche peggiorative; che, in ogni caso, l’accordo firmato dalla sola componente minoritaria della rappresentanza sindacale unitaria era certamente non produttivo di effetti per la generalità dei lavoratori, come si desumeva sia dalla stessa esplicita dichiarazione del segretario della Fai-Cisl che l’aveva firmato in unione con il rappresentante Cisl della rappresentanza sindacale unitaria, sia dalla condotta datoriale che aveva inviato ad ogni lavoratore il testo dell’intesa, richiedendo la sottoscrizione per integrale accettazione. Contestavano, inoltre, che l’esito dell’assemblea potesse costituire un mandato valido anche per coloro che avevano votato contro ed ulteriormente manifestato un esplicito dissenso e che l’applicazione generale del contratto potesse desumersi dalla presunta natura gestionale di un accordo che mancava di tutta quella parte, indispensabile per qualificarne la natura, in cui il sindacato interviene contrattando regole ed individuando criteri di scelta che limitano il potere datoriale in materia di licenziamenti.
All’odierna udienza, dopo la discussione delle parti, la corte decideva con sentenza del cui dispositivo veniva data immediata lettura.
Motivi della decisione. — Le premesse in fatto non sono controverse.
La Avicola San Martino s.c. a r.l., che si occupa della macellazione e del confezionamento di pollame da inviare per la vendita alla grande distribuzione, ha sempre applicato ai propri lavoratori il c.c.n.l. delle cooperative di trasformazione di prodotti agricoli e zootecnici e lavorazione prodotti alimentari, e ha sottoscritto, il 4 febbraio 2002, un accordo che fissava un orario di lavoro di quaranta ore settimanali su sei giornate dal lunedì al sabato ripartito tra i dipendenti, demandava l’organizzazione del lavoro all’esclusiva competenza della direzione della cooperativa, fissava un premio mensile lordo quantificato in lire 1.350.000, suddiviso in quattordici mensilità ed erogato ai dipendenti in forza al 31 dicembre 2001 (mentre per i lavoratori assunti successivamente l’emolumento veniva corrisposto in misura del settanta per cento al lordo delle imposte dopo un anno dalla data di assunzione e dell’ottanta per cento al lordo delle imposte dopo due anni) e un ulteriore premio variabile di produzione al lordo delle imposte, correlato ai risultati conseguiti, avente per obiettivi parametri di produttività e di qualità definiti su base annua, da corrispondersi in due tranches al 10 luglio e al 10 febbraio dell’anno successivo.
All’epoca in cui venne sottoscritto l’accordo i componenti della rappresentanza sindacale unitaria eletti erano tre, due della Fai-Cisl e uno della Flai-Cgil, ma solo i primi due sottoscrissero il contratto aziendale, che peraltro ebbe un’applicazione generalizzata a tutti i lavoratori. Successivamente la rappresentanza sindacale unitaria cambiò composizione, prima eleggendo due rappresentanti Flai-Cigl e due rappresentanti Fai-Cisl e poi, dal 31 dicembre 2004, a causa delle dimissioni di uno dei due rappresentanti Cisl non più sostituito, rimanendo con soli tre membri.
Risulta che dall’aprile 2005, per l’esistenza di una crisi del settore, si tennero numerosi incontri apertamente finalizzati alla riduzione del costo del lavoro, con la proposta datoriale di sostituire il c.c.n.l. delle cooperative di trasformazione di prodotti agricoli e zootecnici e lavorazione prodotti alimentari con il c.c.n.l. cooperative e consorzi agricoli e con altri ritocchi sulla retribuzione che dovevano portare alla rinegoziazione del contratto aziendale firmato il 4 febbraio 2002. Poiché non si raggiungeva un accordo, il 20 giugno 2005 l’Avicola San Martino informava le organizzazioni sindacali di categoria, la rappresentanza sindacale unitaria, la direzione provinciale del lavoro, la direzione generale formazione della regione Lombardia e le cooperative confcooperative, unione provinciale di Brescia, di aver aperto la procedura di mobilità ex art. 4, 2° comma, ed art. 24 l. 223/91 per cessazione attività aziendale.
Successivamente venivano tenuti gli incontri funzionali previsti dalla procedura, senza esito, e contemporaneamente la Flai-Cgil adiva il giudice del lavoro con procedura ex art. 28 statuto dei lavoratori per comportamento antisindacale che si concludeva con decreto che, riconoscendo la valenza oggettivamente antisindacale della condotta, prescriveva all’azienda di sospendere per tre mesi la messa in mobilità ulteriormente negoziando con i sindacati per giungere all’accordo.
Il 14 dicembre 2005, su invito dell’assessore delle attività produttive, l’azienda proponeva una bozza di accordo che prevedeva, nei suoi punti principali e in cambio del totale ritiro della procedura di mobilità, la decadenza di tutti gli accordi aziendali in essere, con conseguente estinzione del diritto al premio mensile, al premio variabile annuo di produzione, all’indennità per lavoro effettuato il sabato e alla pausa di dieci minuti retribuita; inoltre i dipendenti occupati sarebbero stati nuovamente inquadrati nei livelli previsti dal c.c.n.l. cooperative e consorzi agricoli ed il contratto integrativo provinciale, con una perdita complessiva, calcolata dal sindacato, di 1.940,40 euro annui.
Veniva quindi, dalla componente Cisl, convocata l’assemblea dei lavoratori che votava a maggioranza in favore dell’accordo (sessantotto presenti su settantotto dipendenti, quaranta favorevoli e ventotto contrari), e il 28 dicembre 2005 l’accordo veniva firmato dalla rappresentante della rappresentanza sindacale unitaria della Cisl e dal rappresentante provinciale di categoria della Fai-Cisl.
Per quanto qui rileva, anche ai fini della valutazione di merito sulla natura «gestionale» dell’accordo concluso, occorre evidenziare che nelle premesse di quest’ultimo si rammenta che la cooperativa, non potendo più sostenere il costo del lavoro, aveva aperto la procedura di mobilità ai sensi della l. 223/91 per cessazione dell’attività con licenziamento di tutti i dipendenti; che con sentenza dell’8 agosto 2005 il giudice del lavoro, a seguito di procedura ex art. 28 statuto dei lavoratori, aveva ordinato alla cooperativa Avicola San Martino la «autosospensione» per la durata di almeno tre mesi, della facoltà di collocare in mobilità i dipendenti riprendendo le trattative in essere e che la datrice di lavoro non avrebbe proseguito l’attività se non inquadrando i lavoratori nel c.c.n.l. cooperative e consorzi agricoli, con automatica decadenza dell’accordo del 2002 e conseguente cessazione dell’erogazione del premio mensile, del premio variabile di produzione e dell’indennità per lavoro effettuato nella giornata del sabato.
L’esame devoluto a questa corte è dunque quello di verificare l’efficacia dell’accordo del 2005 anche ai lavoratori ricorrenti, iscritti a sindacato diverso da quello stipulante.
Il problema dell’efficacia soggettiva dell’accordo aziendali sorge, evidentemente, avendo il contratto decentrato posto deroghe peggiorative rispetto al precedente contratto collettivo aziendale: per questa ragione non coglie nel segno l’obiezione mossa con l’appello in ordine ad un preteso, identico, vizio d’origine del precedente contratto aziendale che renderebbe anche quest’ultimo inapplicabile ai ricorrenti.
Prescindendo dalla constatazione che, in realtà, il contratto del 2002 risulta quanto meno firmato dalla maggioranza della rappresentanza sindacale unitaria (due componenti su tre) — perché questo introdurrebbe una problematica complessa (quella sulla validità di un accordo concluso dalla maggioranza della rappresentanza sindacale unitaria e non all’unanimità dei suoi componenti) che non serve trattare nel caso di specie — non può comunque esservi alcun dubbio sulla validità dell’accordo aziendale migliorativo anche alla componente non iscritta al sindacato o comunque non iscritta al sindacato stipulante, in quanto è pacifico che il contratto collettivo aziendale vincola la parte datoriale a darvi attuazione nei confronti di chiunque lo richieda.
Non è controverso che il contratto aziendale del 2002 ha avuto totale, piena ed incontroversa applicazione nei confronti di tutti i lavoratori della cooperativa e ne consegue che, correttamente, nel caso in cui si ritenesse non generale l’applicazione dell’accordo successivo, è il precedente, non disdettato, a mantenere efficacia.
È ben vero, infatti, che i contratti collettivi di lavoro aziendali possono derogare, anche in peius per i lavoratori, i contratti nazionali, secondo la giurisprudenza della Suprema corte (per tutte, le sent. 1403/90, Foro it., 1991, I, 877; 3092/96, id., Rep. 1996, voce Lavoro (contratto), n. 28; 13300/00, id., Rep. 2001, voce cit., n. 33; 4839/01, ibid., voce Lavoro (rapporto), n. 1146), attesa la pariteticità tra fonti collettive di diverso livello, e che non trova applicazione, al rapporto tra le stesse fonti collettive, la disposizione (art. 2077, 2° comma, c.c.), che regola, invece, il rapporto tra contratto collettivo, di qualsiasi livello, e contratto individuale di lavoro prevedendo la sostituzione di diritto delle clausole del primo a quelle difformi del secondo, che non «contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro».
Tuttavia il problema della efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali nei confronti dei lavoratori dell’azienda che non siano iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti all’evidenza si pone soltanto nell’ipotesi in cui il contratto aziendale deroghi — in peius, per i lavoratori — al contratto nazionale, che ne risulti derogato.
Solo in tale ipotesi, infatti, i lavoratori non iscritti hanno interesse a negare l’efficacia, nei propri confronti, del contratto aziendale — in quanto di minor favore — mentre possono, si ripete, in ogni caso invocare il contratto aziendale che risulti, invece, più favorevole, nei confronti del datore di lavoro, che, quale parte, per così dire necessaria, dello stesso contratto aziendale, è obbligato ad applicarlo nei confronti di tutti i dipendenti.
Il problema, nel caso di specie, è reso più complesso dalla constatazione che l’accordo è intervenuto in presenza di una procedura di mobilità (sia pure non perfettamente regolare nella fase procedimentale) e dal fatto oggettivo che il contratto aziendale del 2005 costituisce, come espressamente indicato nella premessa, la soluzione raggiunta a seguito di lunghe trattative che ha portato la conservazione di tutti i posti di lavoro: se l’accordo così raggiunto, infatti, venisse interpretato come «gestionale» quanto meno in senso sostanziale, ne potrebbe derivare, per questa via, l’applicazione generalizzata a tutti i lavoratori.
Conviene esaminare quest’ultimo aspetto in quanto dirimente rispetto ad ogni altra valutazione, cercando in primo luogo di inquadrare cosa si intende per contratto «gestionale» per poi verificare in concreto se i presupposti che lo caratterizzano possono dirsi presenti nel contratto qui in esame.
Come è noto, alle tradizionali funzioni del contratto collettivo se ne è aggiunta un’altra, divenuta ormai non meno tipica e socialmente importante, che è quella, appunto, del contratto gestionale che consiste nello strumento di gestione delle crisi aziendali e al quale si fa ricorso tutte le volte in cui risulta possibile evitare o ritardare, in qualche modo, i licenziamenti collettivi.
La legge prevede che i provvedimenti in materia (dichiarazione di crisi, intervento della cassa integrazione guadagni gestione straordinaria, ecc.) vengano assunti previa consultazione con le associazioni sindacali, ma questo intervento sindacale, se costituisce un elemento determinante del procedimento previsto per l’emanazione di quei provvedimenti, non fornisce, di per sé stesso, una regola o una soluzione dei problemi che la crisi aziendale pone per i lavoratori occupati nell’azienda (scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione, termini per il loro rientro, previsione o meno di rientri alternativi o, al limite, a rotazione, mobilità interna, ecc.)
D’altra parte, la mancanza di regole legali fa sì che quei problemi siano, spesso, risolti unilateralmente dall’imprenditore, con scelte che potranno essere controllate dal giudice ordinario soltanto a posteriori, alla stregua dei principî generali di buona fede e di correttezza (art. 1175 e 1375 c.c.), per cui risulta sicuramente preferibile, anche per la parte datoriale, che queste scelte siano preventivamente contrattate con il sindacato che si viene, così, a trovare in una posizione politicamente difficile — qual è quella di gestire la crisi di un’azienda — ma socialmente meritoria, concorrendo ad eliminare o, quanto meno, a limitare la possibilità di eventuali abusi o arbitrii, con effetto deflattivo anche sul possibile contenzioso.
Si può ben affermare che questo potere che compete al sindacato trova la sua genesi anche in precise disposizioni di legge: non va dimenticato infatti che l’art. 2112 c.c. abilita il contratto collettivo anche a definire i limiti nei quali può essere mantenuta l’occupazione nell’impresa in crisi che sia trasferita a un nuovo imprenditore, restando escluso l’obbligo di quest’ultimo di assumere anche il personale definito eccedentario e, allo stesso modo, l’art. 4 l. 23 luglio 1991 n. 223 abilita il contratto collettivo che realizza il riassorbimento, totale o parziale, dei lavoratori eccedenti dell’impresa in crisi a prevederne l’utilizzazione anche in mansioni non equivalenti alle ultime svolte e, quindi, in deroga al divieto sancito dall’art. 2103 c.c.
Ed in ciò è da ravvisare la nuova dimensione dell’autonomia collettiva, rispetto a quella tradizionale: nuova non già per le materie sulle quali opera, ma soprattutto perché, invece di dettare una regola uniforme per tutti i rapporti di lavoro, detta, per realizzare anche in questi casi la sua funzione, una disciplina diversa per gli uni (quelli, ad esempio, posti in cassa integrazione e, quindi, sospesi) e gli altri (quelli che continuano il loro rapporto di lavoro).
Ciò non significa, tuttavia, che in questi casi il contratto collettivo non persegua l’interesse collettivo: infatti l’interesse corrisponde alla preoccupazione comune a tutti i lavoratori che l’impresa possa superare la crisi che la affligge onde possa tornare a garantire, di nuovo, l’occupazione per tutti e si identifica nella sintesi e non nella somma degli interessi individuali dei lavoratori.
Ne deriva che, così come l’inderogabilità comporta il sacrificio dell’interesse individuale del disoccupato che pure sarebbe disposto ad accettare di lavorare a condizioni inferiori da quelle previste in sede sindacale, l’esigenza che non vada dispersa, ed anzi venga recuperata, la capacità di occupazione della impresa in crisi, comporta il sacrificio dell’interesse individuale di chi, ad esempio, vorrebbe continuare a lavorare e viene, invece, posto in cassa integrazione guadagni.
Rispetto a questo tipo di contratto collettivo, comunemente indicato come «gestionale» si è posto comunque il problema di sapere se, tra i poteri del sindacato, vi sia o no anche quello di disporre, in assenza di esplicito mandato, dei cosiddetti diritti acquisiti dal singolo lavoratore e sul punto, come è noto, le rare sentenze si muovono con estrema prudenza concludendo infine per la legittimità degli accordi sindacali in materia di sospensioni per l’intervento della cassa integrazione guadagni che, pur limitando i poteri del datore di lavoro, inevitabilmente dispongono delle posizioni giuridiche dei lavoratori interessati a quelle sospensioni.
Trattasi di quelle posizioni ritenute riconducibili al principio costituzionale del diritto al lavoro (art. 4 Cost.), ma che l’assenza di una specifica disciplina di legge consente siano tutelate soltanto come diritto a che il datore di lavoro eserciti i suoi poteri unilaterali nel rispetto dei principî di buona fede e correttezza (art. 1175 e 1375 c.c.).
Anche questa corte è favorevole alla tesi dell’applicazione generalizzata del contratto «gestionale» pur in assenza di specifico mandato conferito dai singoli lavoratori, non tanto perché si possa affermare, quantomeno in linea generale, che il solo fatto del consenso sindacale circa le modalità d’esercizio dei poteri datoriali in materia di esuberi equivalga ad un esercizio di questi ultimi secondo buona fede e correttezza ed integri per ciò solo i canoni legali, ma perché, in questo caso estremo, l’organizzazione sindacale è abilitata, pur senza uno specifico mandato dei lavoratori interessati, a gestire le loro posizioni giuridiche attive, proprio perché, come si è ricordato, gestisce un interesse collettivo e, cioè, un interesse che è proprio contemporaneamente di tutti gli appartenenti al gruppo, e lo realizza ottenendo il regime aziendale valutato, nel suo complesso, come l’unico possibile e il più favorevole.
È del resto principio generale del nostro diritto sindacale che l’esercizio dell’autonomia collettiva non si basi affatto sul conferimento di un potere di rappresentanza da parte dei singoli lavoratori e comunque, poiché si tratta sempre di gestire un interesse collettivo, non si vede la ragione per cui, solo in questa occasione e non anche quando ottiene trattamenti migliorativi, l’organizzazione sindacale sia legittimata ad agire esclusivamente sulla base di uno specifico mandato.
Se queste sono dunque le caratteristiche che qualificano il contratto gestionale, osserva la corte che l’accordo del 2005 non ne contiene nessuna.
A parte la premessa generale nella quale l’azienda avverte che il costo del lavoro l’avrebbe indotta a chiudere l’attività e che solo la rinuncia ad alcuni emolumenti e l’inquadramento secondo un contratto collettivo diverso la portavano a ritirare integralmente la procedura di mobilità, non vi è alcuna clausola contrattuale che faccia riferimento a quelle scelte gestionali (non esclusivamente legate al personale da licenziare o da porre in cassa integrazione, ma, ad esempio, anche a quello da demansionare) che giustificano la straordinaria applicabilità del contratto anche ai lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti.
Infatti il contenuto dell’accordo è esclusivamente economico prevedendo in sintesi la decadenza di tutti i precedenti accordi, la cancellazione del premio mensile, del premio variabile di produzione e dell’indennità di lavoro effettuato il sabato, nonché l’inquadramento di tutto il personale nel c.c.n.l. cooperative e consorzi agricoli. La premessa che ricorda la genesi del contratto, quindi, dà conto delle motivazioni che hanno indotto le parti a trattare, ma non introduce nessun elemento di gestione del personale che esuli dall’aspetto della mera rinuncia ad alcuni istituti economici contrattuali.
Se dunque l’efficacia generale del contratto aziendale non deriva dalla natura gestionale dell’accordo, ancor più complesso è sostenere che una simile conseguenza possa derivare da un contratto separato che ha visto l’intervento di un solo rappresentante su tre della rappresentanza sindacale unitaria e della relativa rappresentanza provinciale di categoria.
Certamente la tutela di interessi collettivi della comunità di lavoro aziendale e, talora, la inscindibilità della disciplina, che ne risulta recata, concorrono a giustificare secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione (vedi, per tutte, le sent. 4218/02, id., Rep. 2002, voce cit., n. 795; 17674/02, id., 2003, I, 443; 5953/99, id., Rep. 1999, voce cit., n. 932) l’efficacia soggettiva erga omnes dei contratti collettivi aziendali, cioè nei confronti di tutti i lavoratori dell’azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, ma le prospettate esigenze non consentono di prescindere dalla considerazione che l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi aziendali, ancorché sembri trovare applicazione, soltanto ai contratti (nazionali) di categoria, la speciale procedura (a tal fine imposta dall’art. 39, ultimo comma, Cost.), va conciliata, da un lato, con il limite invalicabile del principio fondamentale di libertà di organizzazione e attività sindacale (di cui al 1° comma dello stesso art. 39 Cost.) e, dall’altro, va collocata nel nostro sistema giuridico (segnatamente, di diritto sindacale), che resta fondato, esclusivamente, su principî privatistici e, per quel che qui interessa, sulla rappresentanza negoziale, e non già legale o istituzionale, delle organizzazioni sindacali (vedi, per tutte, Cass. 1403/90, cit., nonché 537/87, id., 1988, I, 526; 4280/82, id., Rep. 1983, voce Lavoro (contratto), n. 87).
Il conflitto tra esigenze tutte certamente meritevoli di tutela (o, comunque, di considerazione) a cui fa riferimento l’appellante, i principî fondamentali e il sistema giuridico esistente, può trovare una coerente composizione nel ribadire, come regola generale, l’efficacia soggettiva erga omnes dei contratti collettivi aziendali in funzione delle esigenze che ne risultano perseguite (tutela di interessi collettivi, appunto, e inscindibilità della disciplina), ma al contempo nell’affermare che tale efficacia trova il suo limite, in ossequio al principio di libertà sindacale ed in coerenza con il nostro sistema giuridico, nella constatazione che la stessa efficacia non può essere estesa a quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa da quella che ha stipulato l’accordo aziendale, ne condividano l’esplicito dissenso (anche perché potrebbero, addirittura, risultare vincolati da un accordo aziendale separato, parimenti diverso).
Né può giungersi a diversa conclusione valutando l’esito dell’assemblea dei lavoratori che, a maggioranza, ebbe ad esprimersi in favore dell’accordo.
In assenza di una normativa che procedimentalizzi l’espressione della rappresentanza sindacale aziendale, non può darsi rilievo, se non consultivo, all’assemblea tenutasi nella cooperativa e che aveva appunto come oggetto l’accettazione della proposta aziendale: basti osservare sul punto che, atteso l’evidente sovvertimento di tutti i principî in materia, se il sindacato avesse voluto dare alla votazione assembleare il valore di mandato espresso (prescindendo da ogni valutazione sulla sua validità) avrebbe dovuto, quanto meno, darne espresso avviso ai lavoratori.
Ne consegue che, come già correttamente statuito dal primo giudice, a tutti gli appellati non può essere applicato l’accordo del dicembre 2005 e rimane applicabile il contratto aziendale precedente con tutte le conseguenze economiche relative.

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