QUESTA LA SCELTA DI FONDO INDISPENSABILE PER USCIRE DALL’ATTUALE REGIME DI APARTHEID NEL MERCATO DEL LAVORO, CHE DISCRIMINA PESANTEMENTE LE NUOVE GENERAZIONI
Intervista a cura di Monica Ceci, pubblicata su Gioia dell’8 luglio 2010
L’uomo che quindici giorni fa le Brigate Rosse hanno chiamato “assassino” in un’aula del Tribunale di Milano, per avere progettato una riforma del diritto del lavoro, parla con voce bassa e tranquilla da una poltrona del suo studio di Milano. A Pietro Ichino, 61 anni, senatore del Pd, avvocato e docente all’Università di Milano, obbligato a vivere sotto scorta da otto anni, non dispiace descrivere i contratti del futuro con questa formula: tutti assunti a tempo indeterminato, nessuno inamovibile.
Per ora, lavoratori con il contratto “buono” e lavoratori precari sono caste separate da una barriera invisibile. La casta senza certezze è anche la più giovane.
«È un vero regime di apartheid, aggravato da altre prepotenze della nostra generazione», dice Ichino. «Lo Stato spende ogni anno circa 70 miliardi per riequilibrare il bilancio pensionistico dell’Inps, cioè per continuare a pagare pensioni ai cinquantottenni o ai sessantenni. E intanto prepariamo un futuro pensionistico poverissimo per i nostri figli. Per la mia generazione era abbastanza
facile aspettarsi di entrare nel ceto medio, per la loro accadrà più sovente di esserne espulsi».
Come se ne esce?
Oggi le sole due misure efficaci sono queste: la detassazione di redditi bassi, perché è indecente che
si prelevino 110 euro su una busta paga di mille; e un miglioramento incisivo del servizio scolastico a
tutti i livelli. Comincio dal mio, quello dell’università, dove paghiamo lauti stipendi anche a migliaia
di professori e ricercatori che non hanno pubblicato una riga negli ultimi cinque anni.
Lei ha proposto una riforma del diritto del lavoro ispirata al modello della “flexsecurity” nordeuropea. Come funziona?
L’idea è che d’ora in avanti tutti vengano assunti a tempo indeterminato, ma nessuno sia inamovibile.
A chi perde il posto per ragioni economiche o organizzative si garantisce un forte sostegno del
reddito e un robusto investimento per la sua riqualificazione professionale. In Danimarca i lavoratori
ricevono il 90 per cento dell’ultima retribuzione nel corso del primo anno dopo il licenziamento, l’80 per cento il secondo e il 70 per cento il terzo, se non si ricollocano prima.
Costosetto.
Alle imprese italiane costa di più il regime attuale, che ritarda molto la possibilità effettiva di licenziare i lavoratori in esubero, mentre l’Inps spende per la Cassa integrazione, anche quando è senza speranza,
fiumi di denaro che potrebbero essere spesi molto meglio, sotto forma di trattamenti di disoccupazione.
Per offrire un sistema di tipo danese ai nostri lavoratori basterebbe che le imprese si incaricassero
di coprire il 10 per cento dello stipendio durante il primo anno di disoccupazione, perché
l’80 per cento lo paga già l’Inps. Nel secondo e nel terzo anno invece il costo graverebbe tutto sulle
aziende, ma già ora otto licenziati su dieci trovano un altro lavoro nel giro di 12 mesi. Migliorando i servizi di ricollocamento, si potrebbe arrivare facilmente a nove su dieci. Per le imprese sarebbe un costo sostenibile. Inoltre, se sono le imprese a pagare, esse avranno un forte incentivo a controllare la qualità dei servizi di assistenza e ricollocazione professionale e la cooperazione dei lavoratori nella ricerca della nuova occupazione.
Sembra ragionevole. Perché non si fa?
I parlamentari Pd hanno presentato quattro disegni di legge su questo argomento, due dei quali firmati da me. Il consenso trasversale c’è. Se molti parlamentari del centrodestra non li hanno firmati è perché da un anno ormai il ministro Sacconi li ha invitati a soprassedere, preannunciando un suo progetto. Che però finora non si è visto.
La Confindustria? I sindacati?
L’interesse è alto, ma le grandi organizzazioni fanno fatica a prendere posizioni innovative. Emma arcegaglia si dichiara d’accordissimo, ma il corpaccione di Confindustria resiste. In un’ottica un po’ miope, il sistema attuale per loro può anche andar bene: infatti la flessibilità nel sistema c’è, anche se è metà della forza lavoro a portarne tutto il peso. Con il sindacato è lo stesso: molti dirigenti, anche della Cgil, giudicano ositivamente la mia proposta, le idee si muovono. Però il sindacato nel suo complesso non se la sente di violare il tabù dell’articolo 18.
Quello che rende quasi impossibile licenziare i dipendenti. Diventeremo una società di licenziabili?
Siamo già per metà una società di licenziabili, senza alcuna garanzia. Gli 800mila che hanno perso il posto durante la crisi lo hanno perso senza preavviso, senza indennizzo e senza alcuna possibilità di ricorso al giudice. Il mio progetto non tocca la posizione di chi oggi è protetto dall’art. 18, ma per tutti i rapporti di lavoro che nasceranno da qui in avanti predispone una protezione diversa, che possa veramente applicarsi a tutti.
Che cosa pensa dell’accordo proposto dalla Fiat a Pomigliano, rifiutato dalla Fiom-Cgil?
Penso che quell’accordo non violi affatto le nostre leggi. Ai sindacati è stato chiesto di rinunciare a un regime di conflittualità permanente, alla situazione in cui chiunque può proclamare lo sciopero in qualsiasi momento contro il contratto. Se il contratto prevede 80 ore di straordinario per ciascun dipendente e il sindacato che non l’ha firmato proclama uno sciopero dello straordinario, salta un ingranaggio importante della nuova organizzazione del lavoro. Dovremmo darci una regola di democrazia che consente alla coalizione sindacale più forte di contrattare con effetti generali. Oggi non si può.
Il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è il prezzo da pagare per essere competitivi?
I carichi di lavoro sono e devono restare una materia di competenza della contrattazione sindacale. La politica non deve interferire. Capirei che la Fiom dicesse: “Non siamo d’accordo perché non accettiamo il lavoro a ciclo continuo dal lunedì al sabato”. Sarebbe una valutazione opinabile, ma di sicura competenza
del sindacato. Quello che non mi sembra giusto è rifiutare pregiudizialmente l’accordo solo per le clausole sui picchi anomali di assenze e per la clausola di tregua: sono due clausole legittime e per molti aspetti opportune.
La pensione a 60 anni per le donne era un ingiusto privilegio?
No: era il risarcimento per gli stipendi più bassi e per il maggior carico di lavoro casalingo, ma l’Unione europea ci chiedeva ormai da 25 anni di voltar pagina rispetto a questo equilibrio sostanzialmente discriminatorio nei confronti delle donne. Invece che lamentarci, dovremmo approfittare di questa sollecitazione per dare un colpo di reni.
In che modo?
Per ogni euro risparmiato con l’equiparazione dell’età pensionabile, dobbiamo stanziarne quattro per i servizi alla famiglia e per detassare il reddito di lavoro femminile. Le donne fanno dei conti molto precisi sul se e quanto conviene loro andare a lavorare o restare a casa: 100 euro al mese di differenza potrebbero, per esempio, spostare una fascia del 10 per cento di donne dalla scelta del lavoro domestico a quella del lavoro di mercato. È un investimento pubblico che renderebbe molto.
Che cosa c’è di pericoloso nelle sue idee? Perché lei deve vivere sotto scorta?
Per chi desidera che i problemi non si risolvano, che le contraddizioni scoppino in cataclismi palingenetici
come la rivoluzione proletaria, creare canali di comunicazione e di accordo, fare funzionare delle moderne relazioni industriali è un pericolo. Il concetto stesso di relazioni industriali è l’esatto opposto di quello che i brigatisti rossi considerano il bene della società. Loro vogliono che i lavoratori prendano le armi contro i padroni.
È ancora questo il progetto?
Progetto è una parola un po’ troppo nobile. È un’utopia, un mito rivoluzionario più ottocentesco che novecentesco. Se si guarda da dove vengono i brigatisti, otto su dieci vengono dal posto fisso e da famiglie
borghesi, non si può certo sostenere che siano espressione del disagio sociale, della crisi dei giovani.
Nel 2003 lei scrisse una famosa lettera aperta ai terroristi, chiedendo di incontrarli e “guardarli negli occhi”. Le ha risposto qualcuno?
A parte quelli che mi manifestarono pubblicamente solidarietà, come Sergio Segio, ho avuto due contatti, ma sotto vincolo del segreto.
Questi contatti hanno confermato la sua idea che il confronto diretto tra le persone sia capace di disinnescare la minaccia della violenza?
Direi di sì. La maggior parte di loro rifugge dal contatto personale perché sanno che non riuscirebbero a mantenere il loro progetto di aggressione il giorno in cui incominciassero a guardare l’avversario negli occhi e a discutere con lui. Quando si discute con una persona non la si ammazza. Agli imputati del processo
che si è concluso nei giorni scorsi, accusati di avere preparato un’aggressione contro di me, l’ho chiesto fin dall’inizio. Ero pronto a rinunciare alla costituzione di parte civile nel processo contro di loro se avessero accettato di stringermi la mano e riconoscere il mio diritto di esistere, ma non hanno mai accettato neppure
questo. D’altra parte, il non costituirmi parte civile avrebbe significato acconsentire a una banalizzazione di quanto è accaduto.
Riesce a smettere di pensarci ogni tanto?
Oh certo, nella vita capitano tegole peggiori. E poi ho un dispositivo di protezione che mi consente di stare tranquillo. Non sono preoccupato. Non per me, almeno. Ma in un Paese in cui chi discute dei problemi del lavoro dev’essere protetto, c’è qualcosa che non funziona.