RIFORMA E FUTURO DEL NOSTRO SISTEMA PENSIONISTICO

I PROBLEMI DI EQUITA’ E SOSTENIBILITA’, LA PARIFICAZIONE DELL’ETA’ PENSIONABILE TRA UOMINI E DONNE, LA TENDENZA EVOLUTIVA DELL’ORDINAMENTO, IL RUOLO DELLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE

Intervista a cura di Federico Parmeggiani, in corso di pubblicazione sulla rivista Imprenditori, luglio 2010

Il tema è uno di quelli che il dibattito politico italiano ripropone da decenni: puntuale ad ogni legislatura ci si confronta col nodo delle pensioni. La politica e gli esperti del settore hanno regolarmente sottolineato come il nostro sistema previdenziale comporti un peso sempre più insostenibile per le finanze pubbliche e che quindi la sua struttura necessiti di essere profondamente rivista. Altrettanto puntualmente la storia politica italiana ci mostra come ogni tentativo di riforma del settore sia tendenzialmente percepito come impopolare, sia osteggiato dalle parti sociali e porti all’adozione di soluzioni di compromesso che, volendo accontentare tutti, finiscono spesso per non soddisfare pienamente nessuno. Certo, non è mai semplice decidere quale interesse privilegiare tra l’integrità del bilancio statale e la necessità di assicurare al contribuente un ritiro dalla vita lavorativa dignitoso ed equo, ma questi tempi di crisi incalzano chi è al governo e richiedono al più presto una risistemazione del settore pensionistico che assicuri una soluzione economicamente sostenibile per gli anni a venire. In proposito, le ultime misure adottate dal governo (alcune contenute nel pacchetto di contromisure alla crisi finanziaria del decreto legge 78/2010)  portano novità di rilievo, quale la ridefinizione dei tempi intercorrenti tra la maturazione dei requisiti per la pensione e l’erogazione della stessa o l’equiparazione dell’età pensionabile tra uomini e donne nel settore pubblico. Per valutare la portata di queste riforme e il futuro del nostro sistema pensionistico non esiste persona più indicata del prof. Pietro Ichino, professore ordinario di Diritto del Lavoro all’Università statale di Milano, ma soprattutto studioso che – da deputato e da consulente prima, da Senatore nelle file del PD oggi – ha messo il suo sapere di accademico al servizio della gestione della cosa pubblica, entrando purtroppo anche nel novero dei giuslavoristi minacciati per le proprie idee innovative dal terrorismo rosso.
Sulle misure finora approntate dal governo in materia previdenziale il prof. Ichino ha un opinione ben precisa:

Mi sembrano giusti – e comunque obbligati, sul piano del diritto comunitario – tutti i passi avanti in direzione della parificazione dell’età di pensionamento per uomini e donne. Ma preferirei un ordinamento che consentisse a tutti di scegliere l’età del pensionamento al raggiungimento di una certa età: per esempio i 61 o i 62 anni. Come in Svezia, dove la “finestra” è tra i 62 e i 67. Naturalmente, a chi sceglie di andare in pensione prima deve essere offerto un trattamento nettamente inferiore rispetto a quello offerto a chi sceglie di lavorare più a lungo.

Ritiene che l’adozione di tale pacchetto di riforme sia necessaria unicamente in un’ottica di risanamento delle finanze pubbliche oppure possa avere un reale effetto positivo anche sul sistema pensionistico del prossimo futuro?

Gli aggiustamenti apportati hanno sicuramente un effetto positivo di carattere strutturale, che si proietta anche sugli equilibri futuri nel medio e lungo termine. In particolare, mi sembra molto importante il ritorno allo spirito e alla lettera della riforma Dini per quel che riguarda l’aggiustamento periodico dei coefficienti  di sostituzione per garantire l’equilibrio attuariale. Ma occorrerà porsi anche il problema dei trattamenti pensionistici che matureranno fra 25 o 30 anni a favore della generazione dei nostri figli. La loro carriera contributiva è sovente piena di scoperture.

A guardare la storia del nostro sistema previdenziale, si percepiscono a prima vista iniquità macroscopiche: basti pensare allo stridente contrasto tra le “baby pensioni” di cui hanno usufruito le generazioni dei decenni passati e le prospettive delle generazioni più giovani che pare non vedranno la pensione se non a ridosso dei settant’anni. Ritiene che nell’ordinamento previdenziale vigente sopravvivano tuttora iniquità macroscopiche che necessitino di essere rimosse?

Sì, è il problema cui ho appena accennato. Penso che una via per risolverlo sia quella di istituire una forma di “reddito di cittadinanza” erogato, a carico dell’Erario e della fiscalità generale, a tutti i cittadini al di sopra di una determinata soglia di età: potremmo fissarla a 65 anni. Un’altra parte del trattamento di vecchiaia dovrebbe invece essere a carico della gestione pensionistica e finanziata col sistema contributivo. A questo tende un disegno di riforma bi-partisan elaborato e presentato recentemente in Parlamento con le prime firme di Giuliano Cazzola e di Tiziano Treu. 

Una delle questioni che ultimamente ha fatto maggiormente discutere concerne la parificazione tra uomini e donne in relazione all’età pensionabile. Crede che verrà recepita con difficoltà dalla società italiana, da sempre contraddistinta da un livello di occupazione femminile basso rispetto alla media europea?

Il pensionamento cinque anni prima degli uomini era il risarcimento per la posizione deteriore riservata alle donne nel mondo del lavoro professionale e per il maggior carico di lavoro domestico non retribuito: quello casalingo. È da un quarto di secolo che l’Unione Europea ci chiede di uscire da questo vecchio equilibrio, che va considerato come un equilibrio deteriore. Ora che il nodo è venuto al pettine, credo che non dobbiamo subirlo malvolentieri come una imposizione. Dobbiamo approfittare del vincolo per dare finalmente il colpo di reni necessario.

Più precisamente, che cosa propone?

Per ogni euro risparmiato con l’equiparazione dell’età pensionabile, dobbiamo stanziarne quattro per incrementare i servizi alla famiglia, soprattutto col sistema dei vouchers, e per una detassazione selettiva dei redditi di lavoro delle donne. Questa è l’unica azione positiva che possa consentirci di alzare il tasso di occupazione femminile dal 46 per cento attuale al 60 per cento che l’Unione Europea ci indica come obiettivo. Poi occorre intensificare il controllo – giudiziale e amministrativo –  contro le discriminazioni di genere, in particolare nei livelli retributivi e nell’accesso alle qualifiche aziendali più alte. 

In che modo la crescente incertezza in merito alla propria pensione può incidere sulla concezione del lavoro che hanno le giovani generazioni?

Il problema mi sembra, piuttosto, che i giovani ci pensano troppo poco alla previdenza. Si ha l’impressione che non ci credano più, abbiano rinunciato a considerarla come una prospettiva realistica.

Crede che tale incertezza possa avere una ricaduta positiva, spronando maggiormente i giovani lavoratori ad essere “imprenditori di sé stessi” e a investire meglio i propri guadagni durante la propria vita lavorativa, oppure, al contrario, li incentivi unicamente a nascondere i propri introiti al sistema fiscale e previdenziale visto lo scarso ritorno che essi genereranno?

Credo che siano presenti entrambi gli atteggiamenti, entrambi i fenomeni. Rispettivamente in quale misura, non sono in grado di dirlo.

Il legislatore italiano si è mosso con relativo ritardo in materia di previdenza integrativa e sia il segmento finanziario dei fondi pensione che la vigilanza su di essi paiono meno sviluppati rispetto ad altri paesi. Ritiene che nel medio periodo i trattamenti pensionistici complementari possano costituire in Italia una reale alternativa o un valido supporto alle carenze del sistema previdenziale pubblico?

Certamente sì. Purché si difenda gelosamente la loro fonte esclusivamente negoziale collettiva: nel momento in cui, invece, li si facesse oggetto, in qualche modo o misura, di un qualche obbligo di fonte legislativa, essi si snaturerebbero e  l’equilibrio del sistema incomincerebbe a essere a rischio.                                                                                   

 

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