CI SONO MOMENTI IN CUI E’ DOVERE ANCHE DEL RELIGIOSO E DELLO STUDIOSO ACCETTARE DI SPORCARSI LE MANI COL FARE POLITICO; E QUI SORGE IL DRAMMA DELLA CONCILIAZIONE DIFFICILE TRA LA RAGIONE ETICA, LA RAGIONE INTELLETTUALE E LA RAGIONE POLITICA. PIETRO DEL GIUDICE HA SAPUTO REALIZZARE MIRACOLOSAMENTE QUELLA CONCILIAZIONE IN CIRCOSTANZE IN CUI QUESTO POTEVA APPARIRE IMPOSSIBILE
Relazione di Pietro Ichino al convegno su Un uomo di pace in tempo di guerra (Massa, 26 giugno 2010), nel decennale della morte di Pietro Del Giudice, domenicano del Convento fiorentino di San Marco, capo dei partigiani delle Apuane dall’estate del 1944 alla Liberazione, poi Prefetto di Massa nei mesi immediatamente successivi – Sulla dialettica tra ragione etica, ragione intellettuale e ragione politica v. anche, in questo sito, la mia conferenza su Morale e politica, con alcuni brani di Dietrich Bonhoeffer
In tempi ordinari la difficoltà – o persino, talora, impossibilità – di questa conciliazione sta nel fatto che la politica richiede il consenso generale sulle cose da fare in tempi brevi; e sovente ciò che è giusto fare, per ragioni tecniche o morali, non è quello su cui è più facile raccogliere il consenso immediato. In tempi ordinari può accadere addirittura che il contrasto sia insanabile, perché lo studioso, l’intellettuale, il religioso è per definizione colui che cerca e predica le cose che considera giuste prescindendo dalla convenienza politica, dal consenso immediato. Mentre nessun buon politico può prescindere dall’esigenza di raccogliere il consenso sulle proprie scelte oggi, non solo domani, lo studioso, o il religioso, è invece uno che guarda più lontano.
Tuttavia ci sono momenti in cui è dovere anche del religioso e dello studioso accettare di sporcarsi le mani col fare politico, con la costruzione della casa degli uomini. E qui sorge il dramma della conciliazione difficile, se non impossibile. E la tentazione del rifiuto. Quella tentazione contro la quale ci ammonisce un frammento del pensiero di un grande teologo cristiano, Dietrich Bonhoeffer, scritto di suo pugno su di un pezzetto di carta che egli aveva con sé nel carcere di Tegel, nella Germania nazista, nel 1943, l’anno prima della sua morte: “Il disprezzo del mondo si trasforma in soggezione al mondo; per disprezzo del mondo si rinuncia a cambiarlo e con ciò si finisce col sostenerlo”. E’ l’idea che lo stesso Bonhoeffer approfondisce nelle pagine lucidissime di Resistenza e Resa dedicate all’“etica del successo”: “Con la fuga da un confronto pubblico, qualcuno riesce a ripararsi nel rifugio privato dell’essere ‘virtuoso’. Ma deve chiudere gli occhi e la bocca di fronte all’ingiustizia che lo circonda. Può evitare di sporcarsi con un’azione responsabile soltanto a costo d’ingannare se stesso. In tutto ciò che egli fa, lo accompagna il tormento per ciò che egli non fa. Finirà per essere sopraffatto da tale tormento oppure diventerà il più bieco fariseo”.
Vediamo come Pietro racconta gli eventi terribili che gli imposero la scelta – per così dire – di sporcarsi le mani fino in fondo. “Nel giugno ’44 c’era una riunione a Massa di tutti gli esponenti della Resistenza. Quando ancora la riunione non era incominciata, ci dissero che c’era stato uno scontro tra i nostri e i tedeschi a Forno. Abbandonai subito la riunione e corsi sul luogo, fingendomi gitante con ragazza (era la figlia del segretario dei socialisti). C’era stato uno scontro duro, poi sapemmo che sette tedeschi erano rimasti sul terreno. Fu in seguito a questo che i tedeschi rastrellarono tutta la gente di Forno e poi fucilarono settanta uomini e ragazzi sul greto del fiume. Bruciarono anche la caserma dei carabinieri, dove io avevo le mie cose, e andò a fuoco il mio altare da campo. Lo considerai come un segno della Provvidenza: non era più tempo di celebrare messa, era tempo di lotta e di resistenza”.
Pietro Del Giudice, dunque, accetta di compromettersi nel fare politico. Di più: addirittura nel fare militare. Ma ha la ventura straordinaria, che raramente si offre al credente che si occupa di costruire la casa degli uomini, di riuscire a fare della propria visione cristiana del mondo una forza politico-militare più potente ancora della forza delle armi. Sentiamo come lui stesso lo racconta: “Avevo una solida formazione religiosa e umanistica. Non occorreva altro. La nostra era una lotta di ideali contro la forza bruta, di cultura contro barbarie, di popolo contro rozzi soldati, la nostra forza non stava tanto nelle armi, di cui pure disponevamo, quanto nella nostra unità politica e nella nostra capacità di interpretare i veri e genuini interessi della nostra gente. Ma non fui io a porre la mia candidatura: fui scelto dagli altri; e mi parve che il mio dovere fosse di non tirarmi indietro. … La mia autorità era fondata sul consenso. Avevo steso un regolamento e l’avevo distribuito a tutte le compagnie, perché lo discutessero e proponessero eventuali emendamenti. Ma una volta approvato da tutti, doveva essere rispettato in modo ferreo. E lo fu. … Noi cercammo sempre di limitare il più possibile il versamento di sangue. A differenza di altre formazioni, non facemmo mai imboscate contro i soldati tedeschi, che potessero essere addotte a motivo per rappresaglie contro i civili … Il nostro compito essenziale era difendere la popolazione, consentire gli approvvigionamenti alle nostre compagnie (quaranta partigiani curavano quotidianamente i trasporti: i viveri arrivavano anche da Parma), tenere aperto un varco nel fronte, tra l’Altissimo e il Corchia, assistere il passaggio nei due sensi da parte di civili, ex-prigionieri provenienti dal nord, militari ed esponenti politici che da sud venivano per prendere contatto conle formazioni del nord. E preparare il terreno per l’avanzata delle truppe alleate; queste, difatti, senza di noi avrebbero commesso molti gravi errori e incontrato assai più difficoltà nell’avanzata, di quanta non ne incontrarono”.
La scelta di ridurre al minimo la violenza, costruendo la forza del presidio partigiano soprattutto sull’unione politica tra formazione militare e popolazione dà il suo frutto più pregiato nella vicenda che vede Pietro e i suoi impegnati a salvare Carrara dalla distruzione programmata dai tedeschi. Le direttive del Comando del C.L.N. erano nel senso di una battaglia aperta in difesa della città; ma sarebbe stato un bagno di sangue e avrebbe portato probabilmente alla sconfitta. La forza della sua formazione era data, più che dalle armi, dalla sua autorevolezza politica, che i tedeschi conoscevano e temevano. Pietro sapeva di essere temuto e organizzò l’incontro con il comando tedesco per la trattativa, facendo anche uso di un pizzico di astuzia e di psicologia: ci raccontò che, per dare un segno formale dell’autorevolezza che sapeva di avere, si inventò un’uniforme per l’occasione. E riuscì a compiere il miracolo. Ascoltiamolo. “C’era stato un momento in cui sembrava che stessero per radere al suolo Carrara. Noi in pianura non saremmo stati in grado di combattere efficacemente, per difendere la città dalla distruzione: la nostra grande arma, la nostra grande difesa, era la montagna. E lo dissi al comando del CLN, per motivare il rifiuto di mandare al macello i miei 3000 uomini. Così, quando si seppe che i tedeschi cercavano un contatto con noi, non esitai a correre il rischio: era uno spiraglio di speranza, l’unica via di salvezza possibile. Ci andai con altri tre, e scoprimmo che avevano più paura di noi. Finì che ottenemmo tutto quello che volevamo: non soltanto la salvezza di Carrara, ma anche un accordo sulla spartizione del territorio; fu tracciato un confine tra la zona controllata da noi e quella controllata da loro. E soprattutto ottenemmo il riconoscimento del nostro varco nel fronte, fra l’Altissimo e il Corchia. I tedeschi scesero a patti perché percepivano la nostra forza, la nostra unità politica e morale”.
Questa scelta, di origine evangelica, di un’azione il più possibile non violenta si dimostra – caso eccezionale – efficace anche sul piano politico interno alle forze della Resistenza: essa fu condivisa anche dai comunisti e dai socialisti della sua formazione. “Da quelli che erano tra i miei uomini certamente sì. Certo, il partito comunista guardava con qualche diffidenza questa scelta di fondo e tentò in qualche occasione di forzare i propri militanti ad assumere una posizione diversa. Ma non ci riuscì mai. E dopo la Liberazione anche i comunisti e i socialisti appoggiarono la mia candidatura a Prefetto di Massa”.
Ascoltiamo, poi, le parole semplici con cui Pietro Del Giudice definisce la propria concezione della laicità della politica: la rinuncia ad avere la verità in tasca circa le cose da fare per costruire la casa comune, come metodo indispensabile per la collaborazione tra tutte le persone di buona volontà impegnate nello stesso cantiere. Laicità come professione di una “religione civile” forte e densa di contenuti, ma basata su fondamenti condivisibili da tutti, etsi Deus non daretur. Il segno tangibile della laicità del suo impegno politico, nel momento in cui accettava la nomina a Prefetto, doveva consistere nella deposizione della tonaca: “Fu una scelta concordata. Nel mio convento le mie stesse idee erano condivise da molti. Da noi veniva La Pira, vivendo come fosse uno di noi. Quando si incominciò a parlare di Democrazia Cristiana, noi non eravamo d’accordo: non ci piaceva il nome (perché il cristianesimo riguarda le cose viste dall’alto, le cose dal tetto in su; nella politica, presentarsi come cristiani o non vuol dire niente, o è un tentativo di truffa) e non ci piaceva il simbolo (perché uno scudo? Che cosa c’era da difendere? C’era da tirare fuori l’Italia dal Medioevo”.
Infine, il passaggio delle consegne alla nuova generazione dei politici della neonata Repubblica. “Io di amministrazione pubblica non sapevo nulla. Mi avevano messo come vice-prefetti due politici; dissi loro: ‘qui gli ignoranti sono troppi; se il Prefetto è incompetente, che siano competenti almeno i vice-prefetti; oppure viceversa, e mi dimetto io!’ Si dimisero loro, e al loro posto feci chiamare un bravo funzionario. Istituimmo un primo sistema di indennità di disoccupazione. Cercammo di indurre la gente a consegnare le armi. Cercammo di aiutare la ricostruzione. Per qualche mese si riuscì a lavorare così, senza badare alla bandiera politica di questo o di quello. Poi non fu più possibile. Era finito il tempo nostro e ci ritirammo per lasciare il posto ai nuovi politici”.
A Pietro Del Giudice è accaduto di doversi “occupare della casa” in una congiuntura difficile e dura, nella quale la ragione etica avrebbe ben potuto – come accadde diffusamente altrove – straordinariamente divergere dalla ragion politica, nella quale – come fu tragicamente a quei tempi e sarebbe ancora tornata a essere la regola, a tutte le latitudini e le longitudini – la necessità dell’uso delle armi avrebbe ben potuto eclissare del tutto il comandamento “non uccidere!”, nella quale la lotta mortale contro la barbarie nazi-fascista avrebbe potuto travolgere il senso dell’universalità della cosa pubblica che nella lotta stessa si stava incominciando a costruire. Se questo sotto le Apuane non accadde, se in quei tempi di guerra l’arma più forte, quella vincente sul piano politico-militare, fu l’idea rivoluzionaria della non violenza, del rispetto per la persona umana, questo è dovuto alla sintesi tra ragion politica e ragione etica che Pietro Del Giudice ha saputo incarnare miracolosamente nella sua stessa persona.