COME DOVREBBERO ATTIVARSI IL SINDACATO E LE RAPPRESENTANZE POLITICHE DEI LAVORATORI ITALIANI PER INGAGGIARE IL MEGLIO DELL’IMPRENDITORIA MONDIALE (HIRE YOUR BEST EMPLOYER!) – PERCHE’ MARCHIONNE HA RAGIONE QUANDO PONE COME CONDIZIONE CHE L’ACCORDO PER LA FIAT DI POMIGLIANO SIA FIRMATO DA TUTTI I SINDACATI – IL CONTENUTO ASSICURATIVO DEL RAPPORTO DI LAVORO E IL “PREMIO” CHE I LAVORATORI PAGANO PER QUESTA POLIZZA
Quelli che seguono sono i primi tre paragrafi del terzo capitolo del mio libro A che cosa serve il sindacato? (Mondadori, 2005, ora disponibile anche in edizione economica nella collana Oscar Bestsellers, 2006, introdotto da un dialogo con Eugenio Scalfari)
36. Cronaca immaginaria di un accordo mai negoziato
Aprile 2000 – Negli stessi giorni in cui la Fiat decide di cessare la produzione nello stabilimento Alfa Romeo di Arese e apre una procedura di licenziamento collettivo, una delegazione formata dal ministro dell’industria del Governo italiano, dal presidente della Regione Lombardia e dai segretari nazionali dei sindacati metalmeccanici parte per Tokyo, dove incontrerà i vertici della Nissan. La casa giapponese ha recentemente annunciato di essere alla ricerca di un sito in un Paese europeo, preferibilmente nell’area dell’euro, dove dislocare uno stabilimento per la produzione del suo nuovo modello Omega. Si sono già candidati lo stabilimento della Renault di Flins, vicino a Parigi, quelli spagnolo e inglese della stessa Nissan, rispettivamente a Barcellona e a Sunderland. La delegazione italiana si propone di promuovere la candidatura di Arese.
Maggio 2000 – Una convenzione tra Fiat, Regione Lombardia, Fiom Fim e Uilm dà atto della decisione della casa torinese di cessare la produzione di auto ad Arese, ponendo a suo carico un cospicuo indennizzo per tutti i lavoratori che verranno conseguentemente licenziati, nonché il costo dell’attivazione da parte della Regione di un servizio di assistenza intensiva per la riqualificazione e ricollocazione per i lavoratori stessi in altre aziende della zona. Un comunicato congiunto del presidente della Regione e dei segretari regionali dei tre sindacati avverte che “nessun lavoratore dell’Alfa Romeo verrà abbandonato a sé stesso: il dispositivo attivato ad Arese garantirà assistenza intensiva per la riqualificazione, mobilità e sostegno del reddito; e resterà attivo a pieno regime finché l’ultimo lavoratore interessato non avrà trovato una nuova occupazione”. Verrà garantito a tutti i lavoratori effettivamente impegnati nel programma un trattamento speciale di disoccupazione pari a quello erogato dalla cassa integrazione.
Gennaio 2001 – Il Governo britannico chiede all’Unione Europea l’autorizzazione per l’offerta di un finanziamento di 58,8 milioni di dollari alla Nissan, destinato a favorire la scelta di Sunderland per la produzione della nuova Omega. La Regione Lombardia risponde offrendo lo stanziamento di 100 milioni di euro per il finanziamento del nuovo insediamento della Nissan ad Arese.(1)
Febbraio 2001 – Una delegazione della Nissan è a Milano per visitare il sito di Arese e discutere nel dettaglio con le autorità italiane le condizioni del possibile nuovo insediamento. I primi incontri danno esiti molto positivi: i dirigenti giapponesi sono visibilmente impressionati dalle opportunità offerte dal nuovo polo logistico progettato ad Arese in funzione della nuova Fiera di Milano (che è in costruzione lì accanto) e dall’offerta della Regione di attivare collegamenti ferroviari diretti tra l’area industriale, l’aeroporto di Malpensa e la Centrale di Milano. Ma ciò che più li ha colpiti è stata la prospettiva, di cui hanno parlato loro i rettori dell’Università Statale e del Politecnico di Milano, dell’attivazione alla Bovisa, a dieci chilometri da Arese, di un nuovo dipartimento interfacoltà dedicato alla ricerca sulle nuove tecnologie dell’automobile e i relativi aspetti ecologici e urbanistici.
Marzo 2001 – Qualche problema sorge invece sul terreno sindacale. I giapponesi propongono un contratto aziendale del tutto indipendente dal contratto nazionale, della durata di cinque anni; propongono per il primo anno retribuzioni-base più basse di un quinto rispetto a quelle previste dal contratto nazionale attualmente in vigore, ma con premi di merito individuali e con la prospettiva di consistenti aumenti successivi, in relazione al raggiungimento di determinati obbiettivi aziendali; più precisamente, propongono un sistema di determinazione dei livelli retributivi individuali basato sulla valutazione delle performances; (2) inoltre un sistema di inquadramento professionale diverso da quello previsto dal contratto nazionale italiano: lo vogliono disegnato in funzione del particolare modello di organizzazione del lavoro che intendono attivare nel nuovo stabilimento; chiedono mano libera nella selezione del personale da assumere; infine chiedono una rinuncia dei sindacati stipulanti a proclamare scioperi in relazione alle materie regolate dal contratto, fino alla sua scadenza: qualsiasi controversia collettiva in proposito non risolvibile immediatamente in azienda – dicono ‑ dovrà essere risolta da un collegio arbitrale precostituito, senza possibilità di impugnazione della decisione da alcuna delle parti. Al termine del secondo incontro la Fiom-Cgil dichiara che le condizioni di lavoro proposte dai dirigenti giapponesi non possono costituire base accettabile per una trattativa e si ritira. La Fim-Cisl e la Uilm, invece, restano al tavolo.
Aprile 2001 – Fim e Uilm raggiungono con la Nissan un accordo, che resta per ora condizionato alla decisione finale della casa giapponese circa l’insediamento ad Arese del suo nuovo stabilimento. Due giorni dopo l’accordo viene presentato pubblicamente ai lavoratori ex-Alfa Romeo che sono ancora senza lavoro, con l’avvertenza che nessuno è obbligato ad accettare le condizioni concordate con la Nissan e che d’altra parte a nessuno è garantita l’assunzione (anche se alla Nissan in quell’area non sarà facile trovare in breve tempo i lavoratori di cui avrà bisogno senza attingere al personale ex-Alfa Romeo). La retribuzione iniziale è effettivamente bassa, ma le prospettive di aumento negli anni successivi sono buone, essendo previsti aumenti rilevanti della retribuzione, fino al raddoppio rispetto al minimo, in relazione ai risultati aziendali e alle performances individuali. Ovviamente, l’accordo non viene messo ai voti ora, poiché nessun partecipante alla riunione è ancora dipendente della Nissan. Se il nuovo insediamento industriale si farà, l’accordo verrà messo ai voti nella prima assemblea dei neo-assunti.
Le reazioni sono discordi: una parte della platea esprime un giudizio nettamente negativo; altri invece considerano la cosa con interesse: la retribuzione iniziale sarà anche bassa, ma sarà pur sempre meglio della cassa integrazione; e le prospettive di sviluppo successivo – stando alle notizie che si hanno dagli altri stabilimenti europei della Nissan ‑ sono promettenti. Circolano tra i partecipanti alla riunione tabelle salariali dalle quali risulta che i dipendenti dello stabilimento della Nissan di Sunderland guadagnano mediamente il doppio rispetto ai metalmeccanici italiani (v. § 27).
Giugno 2001 – Durante una tournée del Teatro alla Scala in Giappone il vice-presidente della Nissan dà l’attesissimo annuncio che la Omega verrà prodotta ad Arese. Pochi giorni dopo la neo-costituita S.p.A. Nissan Italia dà incarico a una grande agenzia del lavoro multinazionale operante in Italia di procedere alla selezione dei primi 500 lavoratori da assumere per l’attivazione della nuova linea di produzione. Altri 500 verranno assunti, secondo il programma, nel corso del prossimo anno.
Gennaio 2002 – Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi inaugura il nuovo stabilimento Nissan di Arese, dove le prime squadre di tecnici sono già all’opera: “la grande tradizione italiana nell’industria dell’auto – egli dice nel breve discorso augurale – con questa iniziativa si arricchisce di nuova linfa vitale; e sono certo che anche il sistema italiano di relazioni industriali saprà trarre vantaggio dalla sperimentazione di nuove possibili forme di organizzazione dei rapporti collettivi e individuali di lavoro, in un contesto di sano pluralismo e rispetto reciproco tra le grandi organizzazioni che di quel sistema fanno parte, nel quadro dei principi intangibili fissati dalla nostra Costituzione”.
37. Perché un accordo come quello di Sunderland in Italia non avrebbe potuto funzionare
La realtà è che la Fim e la Uilm non ci pensano neppure a negoziare e firmare un accordo come quello di cui stiamo fantasticando (per quanto esso ricalchi fedelmente quello sperimentato con successo a Sunderland: v. § 25). Non perché esso sia irrimediabilmente incompatibile con i loro principi, ma perché esse sanno bene che esso verrebbe bloccato fin dai suoi primi passi, per incompatibilità con il sistema del diritto del lavoro e sindacale oggi effettivamente vigente in Italia. Insomma: qui da noi “non è cosa” (a meno che non si sia d’accordo tutti quanti, Cgil compresa; e anche in quel caso gli ostacoli non mancherebbero). Prima di esaminare dal di dentro il meccanismo giuridico che scoraggia qualsiasi sindacato dal mettersi su questa strada, vediamo quali sarebbero gli effetti pratici più che probabili di una scelta di questo genere, prolungando la fantasticheria di qualche mese.
Novembre 2002 – Un gruppo di una decina di dipendenti fa causa alla Nissan rivendicando la differenza tra i minimi retributivi fissati dal contratto collettivo nazionale e le retribuzioni-base previste per il primo anno dall’accordo aziendale che regola la materia nel nuovo stabilimento di Arese.
Gennaio 2003 ‑ Il Tribunale di Milano accoglie il ricorso. Nella importante sentenza, che viene pubblicata da tutte le principali riviste di diritto del lavoro, si osserva innanzitutto che, per giurisprudenza consolidata, i minimi fissati dal contratto collettivo nazionale costituiscono il parametro cui deve essere commisurata la “giusta retribuzione” alla quale ogni lavoratore ha diritto, a norma dell’articolo 36 della Costituzione; la motivazione prosegue negando che un accordo aziendale, stipulato per di più da due soltanto dei sindacati maggiori della categoria, possa incidere sul suddetto diritto costituzionale dei singoli lavoratori; e conclude osservando che non basta la previsione di un possibile premio di risultato, per quanto cospicuo, a sanare l’illegittimità di una riduzione delle garanzie minime. “L’Unità” dà notizia della sentenza in prima pagina: “L’accordo separato alla Nissan è illegale”. “Rassegna Sindacale”, settimanale della Cgil, titola: “Gli accordi taglia-stipendi hanno le gambe corte”; occhiello: “Il giudice del lavoro rimette le cose a posto ad Arese”. L’azienda annuncia che ricorrerà in appello e se necessario anche in Cassazione contro questa sentenza. Ma intanto è obbligata a ottemperarvi; e questo crea non pochi malumori nello stabilimento. Nel corso di un’assemblea sindacale alcuni lavoratori strappano ostentatamente le tessere della Fim e della Uilm dichiarando che si rivolgeranno ai servizi legali della Fiom per ottenere anche loro l’aumento di stipendio per via giudiziale.
Maggio 2003 – La Fiom proclama il primo sciopero alla Nissan di Arese. Un gruppo di un centinaio di disoccupati dell’Alfa Romeo facenti capo allo Slai-Cobas si unisce ai lavoratori della Nissan militanti della Fiom per aiutarli a bloccare i cancelli dello stabilimento. Per un’ora viene occupata e paralizzata anche l’autostrada Milano-Laghi, per manifestare solidarietà con i lavoratori di Arese in lotta.
Giugno 2003 ‑ La segreteria provinciale della Fiom proclama lo stato di agitazione permanente nello stabilimento di Arese, fino a che la Nissan non accetterà di allineare il sistema retributivo e il sistema di inquadramento professionale con quello previsto dal contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici. La maggior parte dei lavoratori non aderisce agli scioperi; ma i blocchi dei cancelli e i blocchi stradali intorno allo stabilimento si rivelano molto efficaci nell’ostacolare ‑ e a tratti impedire del tutto ‑ l’attività produttiva.
Agosto 2003 – Il Tribunale accoglie un ricorso della Fiom contro la Nissan per condotta antisindacale: tale viene dichiarata l’affissione da parte della Direzione aziendale di un comunicato in cui si avvertivano i lavoratori che lo sciopero violava una specifica clausola di tregua sindacale contenuta nell’accordo aziendale, che la controversia collettiva avrebbe dovuto essere semmai risolta mediante la procedura arbitrale prevista nell’accordo stesso. Nella motivazione del decreto il Tribunale osserva, peraltro, che sull’intero impianto dell’accordo aziendale grava un sospetto di radicale illegittimità, in quanto l’accordo stesso esclude programmaticamente l’applicabilità del contratto collettivo nazionale di settore, pretendendo di costituire la sola fonte di disciplina dei rapporti di lavoro, in contrasto con numerose norme legislative che invece intendono promuovere l’applicazione degli standard contrattati a livello nazionale.
Maggio 2004 – Nel corso dell’assemblea di bilancio il presidente della Nissan Italia dà conto dei risultati molto deludenti del secondo anno di attività del nuovo stabilimento, individuandone una delle cause principali nella disapplicazione del programma originariamente negoziato con il sindacato circa l’assetto dei rapporti collettivi e individuali di lavoro.
In questa vicenda totalmente immaginaria il ruolo attribuito alla Fiom-Cgil può apparire caricaturale, ingeneroso, non aderente alla realtà e ai meriti storici del più grande sindacato industriale italiano. Nel rileggere queste pagine, la mia stessa prima reazione è di disagio e persino di rifiuto. Anche per motivi strettamente legati alla mia storia personale: la Fiom è stata il mio primo lavoro, vissuto per anni con passione; conservo ancora con orgoglio la mia tessera di funzionario, di pelle verde scuro, con impresso (originariamente in oro) il glorioso simbolo dell’ingranaggio, del martello e della penna d’oca.(3) E ancor oggi, nonostante i dissensi, coltivo un rapporto intenso con questa mia prima “casa”; molti miei studenti vi lavorano come sindacalisti; ho partecipato anche al suo ultimo congresso provinciale, dove sono stato invitato a una tavola rotonda con il segretario nazionale Gianni Rinaldini. Insomma: non provo alcun gusto a criticare la Fiom, è come criticare una parte di me stesso. Ma penso che alla stessa Fiom – come all’intera Cgil, anzi all’intero movimento sindacale italiano ‑ giovi guardarsi almeno per un attimo “dal di fuori”, senza retorica e senza censure né abbellimenti propagandistici; smettere per un momento di compiacersi della sua grande forza organizzativa e riflettere a fondo sul futuro.
La vicenda descritta è immaginaria; ma i comportamenti ivi attribuiti al maggiore sindacato italiano dei metalmeccanici sono del tutto plausibili, poiché – come si è visto in dettaglio nel primo capitolo – sono più o meno gli stessi che esso ha tenuto nella vicenda (reale, questa) dell’Alfa Romeo, o in quella della Fiat di Melfi dell’aprile 2004, così come, diffusamente, nell’infelice vertenza per il rinnovo del contratto collettivo nazionale del 2003. Non è certo una novità per la Fiom la strategia di interdizione nei confronti degli accordi separati stipulati dagli altri due sindacati maggiori, almeno in parte fondata sulla combinazione di forme di lotta ai limiti e oltre i limiti della legalità ‑ come i “picchetti duri” ai cancelli e talora anche i blocchi stradali ‑ con il ricorso alla legge e all’autorità giudiziaria per ottenere l’inibizione degli effetti degli accordi stessi.
Talvolta la guerriglia contro l’accordo separato è condotta essenzialmente proprio mediante la minaccia di una pioggia di azioni giudiziarie. Qui il discorso non riguarda la sola Fiom: una minaccia di questo genere formulata pubblicamente dalla Cgil è stata una delle cause – presumibilmente non secondaria – della scarsità dei risultati prodotti dal “Patto per Milano” stipulato da Cisl e Uil con il Comune ambrosiano nel febbraio 2000 per la promozione del lavoro delle fasce deboli della forza-lavoro.
38. Rapporto assicurativo e rapporto partecipativo: alfa e omega nella scelta dell’assetto del rapporto individuale di lavoro
In Italia quando si parla di lavoro dipendente il pensiero va subito alla busta-paga che arriva a ogni 27 del mese: per lo più magra, ma – finché dura il rapporto – garantita. In realtà il nostro ordinamento non impedirebbe che la retribuzione del lavoro dipendente fosse strutturata anche in modi assai diversi.
Il fatto è che fin dagli anni ’50 si è assistito a una forte valorizzazione dell’articolo 36 della nostra Costituzione, nel quale si è voluto leggere la sanzione di un diritto universale a una retribuzione fissa pari almeno al minimo previsto dal contratto collettivo nazionale; al tempo stesso si è assistito a una netta sottovalutazione della portata dell’articolo 35 della stessa Carta fondamentale, nella parte in cui esso garantisce diritto di cittadinanza al lavoro “in tutte le sue forme e manifestazioni”; e a un sostanziale accantonamento – sia sul piano teorico, sia sul piano dei fatti ‑ dell’articolo 46 in materia di partecipazione dei lavoratori nell’impresa. È venuto così affermandosi un modello unico di rapporto di lavoro dipendente, quello che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, e l’articolo 36 è diventato un ostacolo giuridico alla sperimentazione di modelli diversi. Ci siamo assuefatti a pensare che il rapporto di lavoro dipendente possa essere strutturato solo in quel modo.
È invece possibile una lettura di quelle norme costituzionali che valorizzi il loro contenuto di garanzia del possibile pluralismo dei modelli di rapporto di lavoro nell’impresa. Più precisamente, si può pensare a una gamma di possibili assetti contrattuali, a un estremo della quale sta il prototipo del rapporto ‑ quello che nel § 2 abbiamo contrassegnato con α ‑ in cui la retribuzione del lavoratore è compiutamente predeterminata dal contratto in corrispondenza con uno standard fissato dal contratto collettivo e non varia col variare del risultato. È questo il rapporto di lavoro nel quale l’imprenditore, che è delle due parti quella tipicamente più sicura di sé e intraprendente, si accolla il rischio dell’attività e quindi mediante il contratto “assicura” il lavoratore, più avverso al rischio, garantendogli un determinato reddito in cambio della sua rinuncia ai risultati complessivi dell’intrapresa. In questo modello di rapporto il lavoratore non ha un interesse apprezzabile a partecipare alle scelte gestionali e a controllare l’andamento dell’azienda, poiché il suo trattamento è garantito indipendentemente da tale andamento. (4)
All’altro estremo della gamma il prototipo è quello del lavoro associato, nel quale il prestatore conferisce il proprio lavoro per l’esercizio di un’impresa comune con altri soggetti, i quali conferiscono a loro volta lavoro e/o capitale di rischio. Qui la retribuzione non è oggetto di un diritto, fino a quando non si siano determinate le condizioni che ne consentano effettivamente la distribuzione tra gli associati: condizioni che possono anche non verificarsi poiché il contenuto assicurativo del rapporto è nullo o marginale. Per converso, il contratto assicura al lavoratore la partecipazione alla determinazione delle scelte imprenditoriali e/o il controllo sull’andamento dell’impresa, poiché da tale andamento dipende direttamente la remunerazione del suo lavoro.
Fra i due prototipi contrapposti si estende l’ampia gamma dei modelli di rapporto nei quali il contenuto assicurativo va via via decrescendo, fino ad azzerarsi del tutto, mentre corrispondentemente cresce la partecipazione dei lavoratori all’utile dell’impresa e al relativo rischio, quindi anche il loro interesse al controllo sul suo andamento. Secondo l’orientamento giurisprudenziale dominante di cui si è detto, deve escludersi la possibilità che nel rapporto di lavoro dipendente il contenuto assicurativo scompaia del tutto: il rapporto di lavoro subordinato deve avere almeno una parte di retribuzione garantita anche quando sia negativo il risultato immediato del lavoro o lo sia l’andamento complessivo dell’impresa. Il problema nasce dal fatto che il contenuto quantitativo di questa garanzia è stato collocato dal “diritto vivente” a un livello molto alto, che lascia pochissimo spazio a una parte della retribuzione variabile in relazione ai risultati. (5) Negli articoli 35 e 46 deve invece leggersi una garanzia della possibilità che – pur nell’area del lavoro dipendente ‑ il modello assicurativo e il modello partecipativo si combinino tra loro in molti modi diversi, anche con un ampliamento notevole della parte della retribuzione variabile in relazione alla redditività o alla produttività dell’impresa, o in relazione alla performance del singolo lavoratore (come tipicamente avviene nel rapporto di agenzia). (6)
In questa visione pluralista dell’ordinamento costituzionale del lavoro dipendente anche l’articolo 39 dovrebbe arricchirsi di contenuto, assumendo il valore di garanzia del ruolo centrale della libera associazione sindacale e dell’autonomia collettiva nella scelta tra i numerosi assetti possibili del rapporto.
(1) Su questa disponibilità della Regione Lombardia v. § 13.
(2) Sul meccanismo di determinazione del rating individuale cfr. § 25 e ivi particolarmente nota 25.
(3) Rilasciata il 9 settembre 1968, poco dopo la presa di servizio come funzionario della Fiom nella zona della periferia nord di Milano che si estendeva da Cusano Milanino a Ceriano Laghetto; dalla fine del 1973 il rapporto è proseguito alle dipendenze della struttura “orizzontale” della Cgil milanese, fino al 1979: v. in proposito La Fiom di Milano. I funzionari 1945-1985, a cura della Fiom di Milano, 1985, pagg. 420-422.
(4) È il paradigma proposto – per la prima volta in forma compiuta, per quel che mi consta ‑ da F.H. Knight (Risk, Uncertainty and Profit, 1971 (ed. orig.: 1921): «In presenza dell’incertezza [circa la domanda futura espressa dal mercato e circa il risultato dell’attivita` produttiva], il fare le cose … diventa … una parte secondaria della vita; il problema o ruolo primario consiste nel decidere che cosa fare e come farlo » (pag. 268); donde «… il sistema nel quale il soggetto piu` sicuro di se´ e intraprendente ‘‘si accolla il rischio’’ o ‘‘assicura’’ il piu` timido e dubbioso garantendogli un determinato reddito in cambio della cessione dei risultati effettivi» (pag. 269-270; trad. mia; l’intero testo di K. puo` leggersi in traduzione italiana: Rischio, incertezza e profitto, Firenze, 1960). Sul modello principal/agent, con cui gli economisti analizzano la transazione fra creditore e prestatore di lavoro circa la ripartizione del rischio delle sopravvenienze, nella letteratura in lingua italiana di law and economics v. F. Sartori, Il modello economico dell’agency e il diritto: prime riflessioni, in “Rivista critica del diritto privato”, 2001, pp. 607-661.
(5) V. in proposito nota 14.
(6) Nella dottrina giuslavoristica italiana la concezione del contratto di lavoro come rapporto di natura associativa è stata sostenuta da Aldo Cessari: v. soprattutto la sua monografia Fedeltà, lavoro, impresa, Milano, Giuffré, 1969, e ivi particolarmente le pagg. 116-123, sulla dialettica tra momento conflittuale e momento collaborativo nelle relazioni di lavoro. Dalla sua costruzione non emergeva, però, l’idea di una possibile gradazione del contenuto associativo del rapporto, in ragione inversa del contenuto assicurativo.