LUIGI MARIUCCI: “LA CLAUSOLA DI TREGUA NON PUO’ APPLICARSI AI SINGOLI LAVORATORI”

NELL’ACCORDO FIAT DI POMIGLIANO, LE CLAUSOLE TENDENTI A CONTRASTARE LE PUNTE ANOMALE DI ASSENTEISMO SONO LEGITTIME; LEGITTIMA ANCHE LA CLAUSOLA DI TREGUA SINDACALE, PER LA PARTE IN CUI ESSA IMPONE UN VINCOLO AI SINDACATI STIPULANTI; ILLEGITTIMA INVECE QUESTA CLAUSOLA PER LA PARTE IN CUI IMPONE UN VINCOLO AI SINGOLI LAVORATORI

Versione integrale dell’intervento di Luigi Mariucci che lavoce.info pubblica il 21 giugno 2010 (in versione ridotta), a seguito del mio intervento pubblicato sullo stesso sito il 18 giugno. Segue una mia breve replica. In argomento v. anche il mio editoriale del 21 giugno per questo sito, contenente i link ad alcuni articoli e saggi precedenti, utili per mettere a fuoco le numerose questioni implicate in questa vicenda.

  1. Un  singolare accordo
    La cosa che più colpisce del c.d. accordo sulla Fiat di Pomigliano è già evidente nelle righe che precedono il testo, dove si dice: “con riferimento  a quanto convenuto al termine dell’incontro di venerdi 11 giugno 2010 sul documento conclusivo presentato il giorno 8 giugno 2010, le parti concordano di integrare tale documento con l’aggiunta del punto 16-Commissione paritetica di conciliazione”. La frase costituisce una interpretazione autentica del testo. Si dichiara che ciò che di seguito viene definita “ipotesi di accordo” altro non è che un  “documento conclusivo” presentato dalla Fiat l’8 giugno 2010, a cui si aggiunge un punto 16, per nulla irrilevante, come si dirà in seguito. Perciò abbiamo di fronte un  “accordo” davvero singolare. Il testo consiste in realtà in una dichiarazione unilaterale della azienda, travestita poi da accordo negoziale. Un caso davvero unico. E’ difficile infatti rintracciare una qualche natura “contrattuale” del documento. Esso assomiglia piuttosto a un regolamento aziendale, sottoscritto per accettazione.
    Si tratta di un regolamento duro: 24 ore di produzione continua, 18 turni settimanali, compreso il sabato notte, lavoro straordinario per almeno 80 ore direttamente esigibile dall’azienda, riduzione delle pause di lavoro. Qualcuno si ricorda di quel magnifico racconto di Calvino sugli “amori difficili”, in cui si narra della situazione di quei due coniugi che non si incontravano mai, perchè una addetta al turno di giorno e l’altro al turno di notte? Poi colpisce il modo in cui si argomenta la riduzione delle pause di lavoro. “Le soluzioni ergonomiche …permettono sulle linee a  trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo un regime di tre pause per 10 minuti ciascuna…che sostituiscono le attuali due pause di 20 minuti”. Sembra una scena del film “tempi moderni”. E poi ci raccontano la favola bella del postfordismo!.
    Fin qui si può dire che siamo di fronte a una disciplina severa delle condizioni di lavoro, simile per certi aspetti a quella vigente negli anni ‘50-60 del secolo scorso. Necessaria per garantire l’investimento aziendale, la ri-localizzazione  (a proposito, chissà cosa ne dicono in Polonia , che pure è un paese della Unione Europea?), l’occupazione, specie in un’area critica come quella campana. Farne un modello delle relazioni industriali per il futuro, una specie di “sol dell’avvenire”, come dichiara incautamente il ministro del lavoro in carica, mi pare non solo improprio, ma deprimente. Per salvaguardare la loro occupazione i lavoratori accetteranno probabilmente questo regolamento  votando in maggioranza sì al referendum del 22 giugno, di cui è davvero difficile dire che si tratti di una libera e democratica espressione di voto. Ma una cosa sono i sacrifici su materie disponibili, di origine contrattuale. Altra cosa sono le rinuncie a discipline inderogabili di legge.
    Questo problema si pone, in particolare, su due temi: i trattamenti economici di malattia e la clausola di tregua.

2. Le misure anti-assenteismo e il trattamento economico di malattia
Il testo in esame contiene due disposizioni in materia di contrasto all’assenteismo. La prima riguarda l’eccesso di assenze nel corso di tornate elettorali per permessi in qualità di scrutatori di seggio. Sembra che a Pomigliano in coincidenza di varie elezioni le assenze dal lavoro siano state davvero rilevanti. Ora si prevede che “in tali occasioni lo stabilimento potrà essere chiuso”. La misura, per quanto drastica, ha un suo fondamento. Questa non è materia che riguardi i rapporti di lavoro in quanto tali, ma la normativa elettorale e il funzionamento del sistema politico. Poiché in questo paese si  vota  di continuo è probabile che a Pomigliano vi sia stata una assenza eccessiva dal lavoro in occasione dei vari turni elettorali. Ma andare ai seggi elettorali non è una attività che il lavoratore può decidere in termini unilaterali. Ci sarà un partito che l’ha chiamato, quel lavoratore, a ricoprire la funzione di scrutatore di seggio. Quindi la misura ipotizzata,  per quanto estrema, acquista un valore simbolico: assume i caratteri di un messaggio inviato ai partiti, più che agli stessi lavoratori.
         Più problematica è la questione del trattamento economico di malattia. In tema si  prevede che “nel caso in cui la percentuale sia significativamente superiore alla media l’azienda non corrisponda i trattamenti economici contrattualmente dovuti”. E’ noto che il c.d. periodo di carenza (il mancato pagamento dei primi tre giorni di malattia per gli operai) fu superato dai contratti nazionali di lavoro dei primi anni ’70, quando il trattamento degli operai fu parificato a quello degli impiegati. Nel caso siamo di fronte a una deroga da parte del contratto aziendale alla normativa prevista dal contratto nazionale di lavoro. Osservo che in materia il celebrato accordo sulla riforma del sistema contrattuale del gennaio 2009, poi tradotto in specifici accordi settoriali, aveva previsto una precisa procedura  ai fini della gestione  delle deroghe da parte dei contratti decentrati. Quell’accordo è ancora in vigore?¦lt;br />          In ogni caso il punto critico qui non sta nella violazione  di disposizioni di legge, quanto piuttosto nella lesione di principi elementari di uguaglianza e di ragionevolezza. Infatti per colpa dell’abuso (eventuale) di qualcuno si spara nel mucchio. Il vero ammalato è equiparato all’assenteista o, come ha osservato l’ad Fiat, all’appassionato di calcio. Non a caso si prevede poi la costituzione di una commissione paritetica “per esaminare i casi di particolare criticità a cui non applicare quanto previsto”.

3.   La vincolatività verso i singoli della clausola di tregua
        Il punto più rilevante riguarda il tema della vincolatività verso i singoli della c.d. “clausola di responsabilità”, che più tecnicamente  si definisce come “clausola di tregua”, di cui al punto 14. Tale clausola prevede robuste sanzioni a carico dei sindacati stipulanti in caso di “mancato rispetto degli impegni assunti”, ovvero di “comportamenti idonei a rendere inesigibili le condizioni concordate”. Le sanzioni consistono nel liberare l’azienda dagli obblighi contrattuali in materia di versamento dei contributi sindacali, di permessi retribuiti di 24 ore a trimestre per i componenti degli organi direttivi nazionali e provinciali delle organizzazioni sindacali, nonché di trattamenti migliorativi sui permessi sindacali previsti dagli accordi aziendali. Ritengo che tale clausola, tipica della parte c.d. obbligatoria del contratto collettivo, nella logica del testo in esame sia del tutto fondata e legittima. I sindacati che sottoscrivono un accordo non possono che essere seriamente obbligati al suo rispetto. Considero in particolare salutare la previsione della revoca dei permessi trimestrali di 24 ore per partecipazione a riunioni degli organi direttivi sindacali di vario titolo, previsti dall’art.30 dello Statuto dei lavoratori a nobili fini, ma spesso degenerati nell’abuso della moltiplicazione delle cariche direttive, specie da parte dei sindacati minori. Del resto i contratti nazionali di lavoro, compreso quello degli addetti all’industria metalmeccanica, avevano da tempo previsto varie clausole a fini di contenimento del ricorso eccessivo ai permessi sindacali di questo tipo.
         Il punto critico della questione consiste nella pretesa di trasformare questi obblighi a carico dei sindacati stipulanti in vincoli sul piano dei rapporti individuali di lavoro. Ciò è quanto viene stabilito dal punto 15 del testo, rubricato “clausole integrative del contratto individuale di lavoro”, che vale la pena citare per intero: “le parti convengono che le clausole del presente accordo integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro al cui interno sono da considerarsi correlate e inscindibili, sicchè la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce infrazione disciplinare di cui agli elenchi, secondo gradualità, degli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti per mancanze e comporta il venir meno dell’efficacia nei suoi confronti delle altre clausole”. Ritengo che tale clausola sia illegittima in radice, per molte ragioni, e che essa non potrà essere sanata in nessun modo, neppure dall’eventuale esito plebiscitario del sì nel referendum “coatto” del 22 giugno.
          La prima ragione sta nel fatto che la dottrina giuslavorista italiana, non a caso, ha sempre distinto nei contratti collettivi una parte c.d. obbligatoria e una parte c.d. normativa. La prima riguarda gli impegni tra gli stipulanti, la seconda la regolazione dei rapporti individuali di lavoro. Questa costruzione  classica (basti pensare a Gino Giugni e a Giorgio Ghezzi) va considerata intangibile, perché in sostanza costituzionalizzata: dal primo comma dell’art.39 cost., si badi, ancora prima che dall’art. 40 cost. Solo separando i due termini (impegni scambiati tra stipulanti-regolazione dei contratti individuali di lavoro), si resta infatti coerenti con il contenuto volutamente complesso che i costituenti hanno assegnato al primo comma dell’art. 39 cost. dove si dice che “l’organizzazione sindacale è libera”. Con questa affermazione i costituenti hanno voluto garantire al tempo stesso la libertà sindacale positiva (diritto di iscriversi a un sindacato) e la libertà sindacale negativa (diritto di non iscriversi), introducendo così un formidabile antidoto verso la regressione a forme di corporativismo autoritario della rappresentanza sindacale, che ben avevano conosciuto nel ventennio fascista. Perciò la pretesa di traslare sui rapporti individuali di lavoro gli obblighi che i soggetti collettivi stipulano tra loro è incostituzionale in sé. Questa tendenza si va diffondendo in altri campi, ad esempio nella contrattazione del settore artigiano  in materia di enti bilaterali, di cui si dirà meglio in altra occasione. E’ una tendenza di stampo nettamente illiberale che va fermata al più presto.
          Si aggiunga che la clausola in oggetto arriva al punto di specificare che la conseguenza di questa innaturale ibridazione tra parte obbligatoria e parte normativa del contratto collettivo consisterebbe nel definire come infrazione disciplinare, fino al licenziamento, “la violazione da parte del singolo lavoratore”.
          Gli stipulanti si sono resi conto, tardivamente, della enormità di quanto andavano sottoscrivendo. Infatti nella stesura finale del testo, come ricordato all’inizio, è stato aggiunto un punto 16, che non compariva nel “documento conclusivo” della Fiat, in cui si attribuiscono varie funzioni compensative a una “commissione paritetica di conciliazione”. Verrebbe da dire che la toppa è peggiore del buco, come quando un avviso comune sul c.d. “arbitrato di equità”, sottoscritto prima che la legge entrasse in vigore, ha escluso che quell’arbitrato riguardasse i licenziamenti. Era tanto vero che, a seguito del rinvio del Presidente della Repubblica, quel disegno di legge è stato cambiato, proprio su questo specifico punto. Siamo evidentemente di fronte al genere letterario delle excusationes non petitae,  che in termini processuali consistono in semplici prove confessorie.
          La clausola in oggetto è dunque sicuramente illegittima. Proviamo a spiegarlo con una simulazione. Immaginiamo che tra qualche anno (dopo due anni di CIG straordinaria a 700 euro al mese, sia detto per inciso) nel meraviglioso stabilimento Fiat di Pomigliano dove tutti prestano puntualmente la loro opera, su turni continui, con tre pause di 10 minuti come nel film di Charly Chaplin sopra citato, all’improvviso un gruppo di lavoratori decida di fare uno sciopero spontaneo contro i ritmi eccessivi di lavoro. Secondo il testo in esame quei lavoratori sarebbero passibili di provvedimenti disciplinari fino al licenziamento. Questo non è possibile, finche’ la Costituzione repubblicana resterà in vigore. Infatti l’art 40 cost. dice che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Questa norma è stata interpretata (uno per tutti: Piero Calamandrei) nel senso che lo sciopero è un diritto individuale ad esercizio collettivo. Nessuna legge, e tanto meno un contratto, può abrogare il diritto di sciopero in capo ai singoli lavoratori. La legge può limitare solo le modalità di esercizio dello sciopero, come è avvenuto nel settore dei servizi pubblici essenziali, appunto con una legge.
          Per parafrasare, in un contesto del tutto diverso, una celebre formula di Federico Mancini, si può concludere dicendo che “la contrattazione può molto, ma non tutto”. Certo non è possibile che con un regolamento aziendale, travestito da contratto collettivo, si cambi la costituzione.

 

      MA NON STA SCRITTO DA NESSUNA PARTE CHE LA CLAUSOLA DI TREGUA NON POSSA APPARTENERE ANCHE ALLA PARTE NORMATIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO
          In estrema sintesi, Luigi Mariucci riconosce che la clausola anti-assenteism contenuta nell’accordo è pienamente legittima. E riconosce anche la legittimità della “clausola di tregua sindacale”, per la parte in cui essa impone un vincolo al sindacato firmatario dell’accordo. Questa, invece, sarebbe illegittima – addirittura incostituzionale – nella parte in cui impone l’obbligo di astenersi dallo scioperare contro il contratto anche a carico dei singoli lavoratori.Questa tesi si fonda su di un unico argomento: quello secondo cui la clausola di tregua apparterrebbe alla c.d. “parte obbligatoria” del contratto collettivo (la parte che regola i rapporti tra l’impresa e i sindacati stipulanti) e non alla c.d. “parte normativa”, che disciplina i rapporti individuali di lavoro. Questa affermazione, che non ha alcun fondamento testuale nell’articolo 40 della Costituzione (e neppure in alcuna legge ordinaria), nasce da una elaborazione dottrinale degli anni ’50, che deve considerarsi superata dopo l’emanazione della legge n. 146/1990 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali: nella quale infatti si demanda esplicitamente al sindacato di negoziare limiti all’esercizio del diritto di sciopero direttamente applicabili anche ai singoli lavoratori: limiti, quindi, che si collocano nella “parte normativa” del contratto collettivo .Col che si dimostra che la Costituzione non vieta affatto di considerare la clausola di tregua come appartenente alla “parte normativa” del contratto collettivo.   (p.i.)

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