IL MINISTRO SACCONI QUESTA VOLTA HA RAGIONE: QUALE CHE SIA L’ESITO DELLA VICENDA DELLA FIAT CAMPANA, ESSO SEGNERA’ DAVVERO UNA TAPPA CRUCIALE PER IL SISTEMA ITALIANO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI, COSTRINGENDONE TUTTI I PROTAGONISTI (CONFINDUSTRIA PER PRIMA) A METTERE PROFONDAMENTE IN DISCUSSIONE LA PROPRIA VECCHIA CULTURA
Editoriale per la Newsletter del 21 giugno 2010, alla vigilia del referendum con cui i lavoratori della Fiat di Pomigliano D’Arco decideranno la loro risposta al piano industriale presentato dall’Amministratore delegato Sergio Marchionne
A Pomigliano d’Arco la Fiom-Cgil denuncia quello che le appare come il “ricatto” di Marchionne: “o accetti questo piano, o vado a proporlo altrove”. Questo scontro pone una serie di questioni di grande importanza per il futuro del sistema italiano di relazioni industriali: provo a elencarle qui di seguito, indicando qualche scritto mio o di altri in cui si può cercare una risposta, o almeno un principio di risposta.
1. – Se fosse vero che le disposizioni in materia di sciopero e di assenteismo anomalo contenute nel piano di Marchionne – pacificamente accettate e praticate in tutti gli altri maggiori Paesi europei – contrastano con alcune leggi italiane e addirittura con la Costituzione, questo porrebbe un problema di modifica delle une e dell’altra. A me sembra, però, che la tesi della Fiom non sia fondata v. il mio articolo su Lavoce.info di sabato. Per la tesi contraria (ma solo in riferimento alle clausole di tregua) v. l’intervento di Luigi Mariucci.
2. – Supposto che il piano di Marchionne non contenga disposizioni illegittime, il solo motivo ragionevole per rifiutarlo può essere questo: che ci siano altri imprenditori disposti a offrire condizioni migliori. Se ce ne sono, come è ben possibile, che cosa impedisce ai lavoratori di Pomigliano di aprire con questi una trattativa parallela rispetto a quella aperta con la Fiat, cogliendo così l’opportunità positiva offerta loro dalla globalizzazione (mettere gli imprenditori in concorrenza tra loro nella domanda di manodopera)? E come fare per superare l’impasse? Le risposte sono più d’una; v. una possibile impostazione del problema in un mio saggio del 2007):
2.1. – nel sistema italiano attuale di relazioni industriali il dissenso tra i sindacati maggiori ha effetti paralizzanti: occorrono nuove regole di democrazia sindacale, che consentano al sistema di funzionare anche nelle situazioni di dissenso insanabile tra i sindacati in campo (v. il mio articolo sul Corriere della Sera di lunedì scorso; e un mio articolo del settembre 2008 sulla vicenda Alitalia-Air France KLM);
2.2. – il sistema italiano attuale di relazioni industriali è ancora oggi troppo chiuso ai piani industriali innovativi, perché troppo saldamente fondato sul divieto di deroga da parte della contrattazione aziendale al contratto collettivo nazionale, che ostacola la sperimentazione di modelli nuovi di organizzazione del lavoro, distribuzione dei tempi di lavoro e/o struttura delle retribuzioni (v. il terzo capitolo del mio libro del 2005, A che cosa serve il sindacato e ivi in particolare, nei nei suoi primi due paragrafi, “Cronaca immaginaria di un accordo mai negoziato (ovvero: perché l’Italia non riesce ad attirare gli investimenti stranieri);
2.3. – la nostra cultura sindacale soffre ancora di un grave difetto di chiarezza di idee circa la distinzione tra “diritti non negoziabili” e “terms & conditions” di lavoro, negoziabili. In realtà, gran parte di quelli che vengono generalmente qualificati come “diritti non negoziabili” sono soltanto coperture assicurative poste a carico del datore di lavoro, delle quali il prezzo (il “premio assicurativo” pagato dai lavoratori beneficiari della copertura) non viene mai né evidenziato, né tanto meno discusso (v. in proposito il terzo dei tre paragrafi iniziali del terzo capitolo del mio libro del 2005, A che cosa serve il sindacato).
3. – Un’altra possibilità è che gli imprenditori disposti a offrire condizioni migliori da qualche parte nel mondo ci siano, ma non siano disposti a venire a investire sullo stabilimento di Pomigliano d’Arco: in questo caso occorre chiedersi se alla loro riluttanza non contribuiscano proprio quei rischi di conflittualità permanente e quelle punte anomale di assenteismo, che Marchionne propone di prevenire con le disposizioni contestate dalla Fiom; e se non sia interesse prevalente dei lavoratori stessi non solo inserire quelle disposizioni nell’accordo aziendale, ma anche adoperarsi per una evoluzione in questo senso di tutto il nostro sistema di relazioni industriali, anche attraverso un profondo ripensamento circa la titolarità del diritto di sciopero e la validità ed efficacia dei patti di tregua (v. ancora i capitoli III e IV del mio libro del 2005, A che cosa serve il sindacato).
4. – Occorre mettere in conto anche la possibilità che di imprenditori disposti a offrire condizioni migliori a Pomigliano d’Arco non ce ne siano proprio, indipendentemente dai tassi di conflittualità e di assenteismo dello stabilimento: in questo caso più che mai occorre chiedersi se sia ragionevole respingere la proposta della Fiat. Ma è anche urgente chiedersi quali tare sociali e/o strutturali rendano il nostro Mezzogiorno così repulsivo per le imprese multinazionali e che cosa i lavoratori del Sud possano offrire agli investitori per neutralizzare questo handicap negativo, in attesa che quelle tare possano essere eliminate (v. il recente carteggio con un gruppo di giovani calabresi e, in precedenza, la III parte di un mio saggio del 1997, sulle strategie per lo sviluppo del Mezzogiorno).
5. – La realtà è che la globalizzazione indebolisce i lavoratori dei Paesi occidentali avanzati, esponendoli alla concorrenza di quelli dei Paesi in via di sviluppo; ma la stessa globalizzazione consente loro di compensare questo indebolimento ampliando all’intero pianeta la loro possibilità di scelta tra i possibili imprenditori: creando, cioè, una situazione di concorrenza assai maggiore anche sul versante della domanda di lavoro. Per effetto della globalizzazione i lavoratori hanno la possibilità di scegliersi gli imprenditori migliori non soltanto migrando individualmente verso i luoghi dove questi già sono insediati, ma anche, collettivamente, attirandoli sul proprio territorio e “ingaggiandoli”. Per questo, però, occorre una capacità e volontà di negoziare i nuovi piani industriali a 360 gradi, senza il vincolo di attenersi rigidamente a un determinato modello di organizzazione del lavoro e di struttura della retribuzione (per quel che riguarda il contratto collettivo dei metalmeccanici, la stesura attuale per questa parte risale al 1972 e da allora non ne è cambiata una virgola). Sul punto v. ancora il terzo dei tre paragrafi iniziali del terzo capitolo del mio libro del 2005, A che cosa serve il sindacato.
Per questo mi sembra che il ministro Sacconi abbia ragione quando dice che la vicenda di Pomigliano segna una tappa cruciale per il sistema italiano delle relazioni industriali e un momento di riflessione decisiva per tutti i suoi protagonisti. Ma la riflessione non porta esattamente nel senso che dice lui e non riguarda soltanto i sindacati dei lavoratori. Riguarda anche il Governo, molto diffidente nei confronti dei capitali stranieri e mobilitato più per difendere l'”italianità” delle nostre imprese che per attirare in Italia il meglio dell’imprenditoria mondiale. E riguarda le associazioni imprenditoriali: Confindustria in particolare, che di fatto è stata fin qui e resta tuttora tra i custodi più gelosi del vecchio modello: la sfida di Marchionne mette profondamente in discussione anche la cultura tuttora dominante in viale dell’Astronomia.