IL CASO DELLO STABILIMENTO CAMPANO DELLA FIAT RAPPRESENTA IN MODO EMBLEMATICO L’INADEGUATEZZA DEL SISTEMA ITALIANO DI RELAZIONI INDUSTRIALI RISPETTO ALLE SFIDE DELLA GLOBALIZZAZIONE: I LAVORATORI CHE NON SONO IN GRADO DI VALUTARE E SCOMMETTERE IN TEMPI RAPIDI SUI PIANI INDUSTRIALI PIU’ INNOVATIVI SONO DESTINATI A VEDERSI BATTERE DALLA CONCORRENZA STRANIERA NELLA COMPETIZIONE PER ATTIRARE IN CASA PROPRIA IL MEGLIO DELL’IMPRENDITORIA MONDIALE
Intervista a cura di Antonio Troise, pubblicata sul Mattino l’11 giugno 2010 – Sul tema di questa intervista rinvio anche al mio saggio Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore
La trattativa Fiat è giunta a un punto cruciale, con l’azienda che chiede al sindacato uno sforzo sul versante della flessibilità. E’ davvero una scelta indispensabile al Gruppo per restare in Italia senza perdere competitività, o siamo in presenza di un diktat da parte dell’azienda che vuole incassare il massimo in una situazione di estrema debolezza delle organizzazioni sindacali?
Nessuno può sostituirsi ai lavoratori e al sindacato , che è la loro “intelligenza collettiva”, nella valutazione delle richieste dell’azienda e nella scelta della strategia e della tattica negoziale. Il fatto grave è che, con le regole attuali, i lavoratori non possono scegliere affatto.
Che cosa intende dire?
La mancanza di regole in materia di rappresentanza sindacale fa sì che un piano industriale fortemente innovativo, che comporti una o più deroghe rispetto al contratto collettivo nazionale, o è approvato da tutte le confederazioni firmatarie del contratto nazionale, oppure non può essere oggetto di un accordo aziendale giuridicamente inattaccabile. Questa è la negazione di un vero pluralismo sindacale: o sono tutti d’accordo o è la paralisi.
Come se ne dovrebbe uscire, secondo lei?
Con nuove regole, possibilmente contenute in un accordo interconfederale firmato da tutti, che fissino i criteri per la misurazione della rappresentatività di ciascun sindacato e attribuiscano alla coalizione maggioritaria un potere pieno di contrattazione, con efficacia estesa a tutti i lavoratori cui il contratto si riferisce.
Nella tradizione della sinistra lo scambio flessibilità-lavoro è sempre stato visto con sospetto e scetticismo. Non sarebbe il caso di cambiare rotta anche facendo qualche piccolo passo più coraggioso?
Mi sembra che qui sia in gioco qualche cosa di più della pura e semplice “flessibilità” del lavoro: è in gioco il modello di relazioni industriali centrato sul contratto collettivo nazionale e sulla sua inderogabilità. E’ questo che la Cgil difende con le unghie e coi denti, anche a Pomigliano, mentre Cisl e Uil sono più disponibili a discostarsene.
Ma la questione non si è già risolta con l’accordo-quadro dell’aprile 2009, che prevede la possibilità di deroga al contratto nazionale?
Sì. Però la Cgil non lo ha firmato. E, senza regole sulla rappresentanza, Marchionne ha tutte le ragioni quando pone la condizione che l’accordo sia sottoscritto da tutti.
Anche per il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, la sfida dell’Italia resta quella della crescita. Che cosa ci manca per tornare a crescere?
Ci manca la capacità di portare – o trattenere – in Italia il meglio dell’imprenditoria mondiale, che porta domanda di lavoro e innovazione. Siamo i penultimi in Europa, prima della Grecia.
Le cause?
Sono tante. Ma tra le più rilevanti c’è anche il nostro sistema di relazioni industriali: troppo barocco, inconcludente. Questa vicenda della Fiat – al pari di quella in cui fu coinvolta Alitalia con Air France-KLM due anni fa – rappresenta, in piccolo, quello che accade su scala nazionale nei nostri rapporti con gli operatori internazionali; con la differenza che a Pomigliano c’è un imprenditore italiano, con qualche motivo in più degli altri a rimanere qui. Negli altri casi, gli imprenditori hanno meno pazienza e se ne vanno subito altrove.
Che cosa dovrebbe fare il sindacato?
Dovrebbe darsi regole più chiare sulla rappresentanza e il potere di contrattare. Ma soprattutto dovrebbe rendersi conto del fatto che il solo modo per aumentare la produttività del lavoro, quindi le retribuzioni, è aprirsi all’innovazione, anche quella organizzativa. E l’innovazione, per definizione, si presenta sempre al livello aziendale, richiedendo uno scostamento rispetto allo standard nazionale. Occorre un sindacato capace di valutare il nuovo piano industriale e, se la valutazione è positiva, pronto a scommetterci sopra.
Ci sono ancora forti resistenze di una parte del sindacato: un percorso unitario su questi temi è impossibile?
Al punto a cui siamo arrivati, mi sembra che la prospettiva dell’unità sindacale sia davvero molto lontana. Piuttosto che vagheggiare percorsi unitari, mi sembra urgente dar vita a un sistema in cui modelli diversi di strategia sindacale e di relazioni industriali possano confrontarsi e competere tra loro, senza paralizzarsi a vicenda. Saranno di volta in volta i lavoratori a scegliere se farsi rappresentare dal sindacato più propenso a scommettere sull’innovazione, o da quello più attento a difendere l’intangibilità del contratto collettivo nazionale. Quale delle due sia la scelta migliore, dipende dalla qualità dell’imprenditore che si ha davanti.
Nel caso della Fiat?
Mi sembra che Marchionne abbia dato prova di essere un imprenditore eccellente.