LE DONNE DOVREBBERO ESSERE LE PRIME AD APPOGGIARE LA PARIFICAZIONE DELL’ETA’ PENSIONABILE, RIVENDICANDO CHE OGNI EURO RISPARMIATO IN QUESTO MODO VENGA REINVESTITO IN SERVIZI ALLA FAMIGLIA: L’INIQUITA’ (COME LO SPRECO CONSEGUENTE) DEL REGIME ATTUALE DI DISCRIMINAZIONE VA ELIMINATA EX ANTE, NON COMPENSATA EX POST CON MISURE CHE CONFERMANO LA DISCRIMINAZIONE
Editoriale di Irene Tinagli pubblicato su la Stampa del 4 giugno 2009. Per comprendere il mutamento di equilibrio sistemico auspicato dall’economista italiana (che insegna a Madrid) è molto utile il libro di Alberto Alesina e Andrea Ichino, L’Italia fatta in casa (Mondadori, 2010)
L’Unione Europea riporta alla ribalta la questione dell’aumento dell’età pensionabile delle donne. Questione che il governo pensava di aver risolto con un provvedimento «graduale» da realizzarsi da qui al 2018. Talmente graduale da sembrare non sufficiente all’Ue a risolvere la situazione iniqua e anomala dell’Italia, dove le donne possono andare in pensione ben 5 anni prima degli uomini (pur avendo, tra l’altro, un’aspettativa di vita superiore di 6 anni).
Può sembrare strano che il governo, che da quando è in carica si è mostrato così deciso su tagli assai più critici (da quelli all’istruzione, alla ricerca, fino a quelli ai Comuni e alle Regioni), sia stato e sia ancora così cauto nell’implementare una misura che in fondo allineerebbe l’Italia agli altri Paesi europei e che porterebbe peraltro grossi benefici economici.
Ma non è poi così strano se si pensa allo scontro quasi ideologico che per molto tempo ha caratterizzato questo argomento. E’ uno dei pochissimi temi su cui non solo sono d’accordo tutti i sindacati, ma persino significativi pezzi di maggioranza e opposizione.
Quando Brunetta, pochi mesi dopo il suo insediamento, affermò la necessità di alzare l’età pensionabile per le donne, si alzò un coro indignato di no, da Epifani a Bonanni alla Polverini, al quale si unì la contrarietà dell’allora segretario del Pd Franceschini e la perplessità di alcuni altri membri del governo. Calderoli e Bossi, per esempio, si sono dichiarati contrari ancora pochi mesi fa. Ed è questa reticenza diffusa che spiega la timidezza del governo su questo fronte. Perché l’Italia alla fine è un Paese di mogli, mamme e nonne. E di famiglie che si reggono su di loro. E spaventa terribilmente l’idea di mettersi contro il cuore pulsante della società, di rovesciare tutta un’impostazione culturale. Perché l’Italia è il Paese che magari tratta e presenta le donne come totalmente asservite ai bisogni dei mariti, dei figli, dei nipoti, degli amanti, ma che poi le celebra con canzoni, feste, e le premia consentendo loro di andare in pensione prima.
Ed è per rompere questo tipo di cultura, più ancora per gli innegabili e indispensabili risparmi economici che il provvedimento porterà alle casse dello Stato, che le donne per prime dovrebbero accogliere a braccia aperte il monito della Ue. E dire ai propri mariti, ai Calderoli, ai Bossi, agli Epifani: grazie mille del pensiero ma da domani ai vecchi e ai nipoti ci pensate un po’ anche voi. Chissà che non sia la volta buona che in Italia cominceremo a vedere un po’ di asili e case di assistenza e senza nemmeno far troppe battaglie. Perché proprio questo è stato il tipo di scambio che per anni i governi italiani hanno condotto implicitamente con le famiglie: noi facciamo pochi asili e poca assistenza sociale, però in cambio vi mandiamo le mamme e le nonne in pensione prima. Non è un caso se l’Italia, che tanto ama la famiglia, alla fine spende per le politiche per la famiglia e l’infanzia la metà pari pari della media Ocse (1,2% del Pil contro il 2,4%). Rompere questo «accordo» significherebbe, per questo governo, doversi poi trovare a fare i conti con una domanda crescente di servizi di assistenza all’infanzia e alla vecchiaia di cui finora si era preoccupato pochissimo.
Purtroppo anche le donne per troppi anni sono state complici di questo gioco. Da un lato rivendicavano, sì, il diritto di emanciparsi da un ruolo antico che non corrispondeva più alle loro aspirazioni, e di avere più asili e servizi, ma intanto continuavano ad assumersi tutta la responsabilità dei doveri familiari e si tenevano i piccoli privilegi che lo Stato gli riservava, per poter assolvere al meglio tali doveri così come la società si aspettava da loro.
Ma in questo modo si sono autocondannate a non emanciparsi mai fino in fondo. E con loro il nostro Paese. Perché se una donna sa che lavorerà meno di un uomo per potersi dedicare a vecchi o nipoti, investirà di meno nella propria carriera sin dagli inizi. Perché in fondo saprà, prima ancora di cominciare a lavorare, che dovrà rallentare il passo non solo per il primo figlio, ma poi per il primo nipote e infine per il primo segnale d’Alzheimer del genitore o del suocero. E l’Italia continuerà ad avere un tasso di attività femminile più basso degli altri Paesi europei, una retribuzione media femminile più bassa degli uomini e così via.
E continuerà ad essere così non perché le donne siano incapaci o gli uomini siano cattivi, ma perché le une e gli altri vivono in un sistema che genera incentivi affinché le cose stiano così. Ma questo circolo vizioso si può spezzare, cominciando per esempio col rompere questo sciocco e inutile favoritismo nei confronti delle donne e reinvestendo i risparmi che ne deriverebbero alle casse dello Stato per potenziare servizi all’infanzia e alla famiglia.
Per questo le donne dovrebbero essere le prime ad appoggiare questo provvedimento. E capire che non usciranno mai dalla loro vera o presunta inferiorità finché continueranno a voler usare tale inferiorità come scusa per avere trattamenti in qualche modo privilegiati, a mo’ di compensazione per l’ingiustizia che subiscono. Le ingiustizie si eliminano ex ante, non si compensano ex post.