GLI INTERVENTI DI PAOLO NEROZZI, TIZIANO TREU, PIETRO ICHINO PER IL PD E DI MAURIZIO CASTRO E DEL MINISTRO DEL LAVORO MAURIZIO SACCONI PER LA MAGGIORANZA
Testo tratto dal resoconto stenografico della seduta antimeridiana del Senato del 20 maggio 2010
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Nerozzi. Ne ha facoltà.
NEROZZI (PD). Signora Presidente, onorevoli colleghi, è la sera del Capodanno del 1968, la televisione trasmette un servizio in cui si racconta che il Ministro del lavoro, il socialista Giacomo Brodolini, fino a qualche anno prima vice segretario della CGIL, ha trascorso la notte con i lavoratori della fabbrica romana Apollon. Qualche settimana dopo Brodolini si reca ad Avola a ricordare due braccianti uccisi negli scontri con le forze dell’ordine, e lancia la proposta di Statuto.
Brodolini, socialista ed espressione, insieme a Lombardi e Giolitti, della punta più avanzata del primo centrosinistra, volle far approvare il prima possibile lo Statuto dei lavoratori. Aveva chiamato accanto a sé alcuni studiosi, tra i quali Gino Giugni, che ebbe il compito di coordinare il lavoro che portò all’approvazione dello Statuto.
Il Consiglio dei ministri, il 24 giugno 1969, presentò al Senato il testo dello Statuto. Appena venti giorni dopo, in una clinica svizzera, Brodolini moriva di cancro. I familiari diranno che non aveva mai voluto parlarne. È giusto ricordare, a quarant’anni dallo Statuto, quel Ministro che lo volle tenacemente.
Una ricerca politica che veniva da lontano, fin dal 1952, quando Di Vittorio, al congresso di Napoli della CGIL, propose uno Statuto dei diritti dei lavoratori, riassunto nello slogan «la Costituzione nelle fabbriche», e diceva in quel congresso: «Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che questi diritti siano rispettati da tutti».Al nome di Di Vittorio e a quel lavoro Brodolini rimase per sempre legato. E lo Statuto è il coronamento del sogno di quel Ministro.
L’iter parlamentare dello Statuto durò quasi un anno, fu coordinato da Gino Giugni ed ebbe il contributo di insigni giuristi tra i quali Federico Mancini, in particolare per l’articolo 18, e di un ex sindacalista, poi Ministro, che lo concluse, Carlo Donat- Cattin, cui si deve attribuire l’importantissimo articolo 28.
L’opposizione contribuì a migliorare e correggere il testo, anche se poi, al termine del suo iter, decise di astenersi. La motivazione addotta per l’astensione, «la mancata adozione di un qualche status a favore dei partiti nel dibattito interno ai luoghi di lavoro», ancora oggi non mi appare convincente. Viceversa, mi ritrovo di più con l’interpretazione che nel 2006 diede Bruno Trentin: «(…) lo Statuto dei diritti del lavoro (…) nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di vent’anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del PCI, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché» in quel momento [la sinistra era, n.d.r.] «esclusa dalla partecipazione al Governo».
Il lavoro di Brodolini e Giugni, portato a termine con il ministro Donat-Cattin, rimane una parte non cancellabile, per il suo portato di civiltà e di dignità del mondo del lavoro, del passato e del presente ma anche del futuro di questo Paese.
A quant’anni dall’approvazione della legge 20 maggio 1970 n. 300, non possiamo non evidenziare come questa normativa sia a tutt’oggi un punto avanzato del nostro ordinamento giuridico. Normativa capace di attribuire ai lavoratori una dote di diritti di carattere universale tesi a declinare i valori della Carta costituzionale in diritti effettivi. Un complesso di garanzie che aveva ed ha l’ambizione di non incidere solamente nelle relazioni industriali, ma che attribuiva al lavoratore una dose importante di diritti di cittadinanza, attribuendo ad esso, attraverso lo strumento normativo, la tutela della libertà e della dignità del lavoratore, nonché il fattivo diritto di associazione sindacale nei luoghi di lavoro.
Una dose di diritti, quindi, inalienabili ed universalistici, che non possono non essere attribuiti (anche se con diverse modalità) anche alle nuove forme di lavoro flessibili che si sono venute a determinare negli ultimi anni e che all’epoca dell’approvazione dello Statuto erano sostanzialmente inesistenti.
Una legge moderna, ancora oggi attuale, ma spesso non applicata nel suo complesso. Una normativa che non ha attenuato il conflitto nelle relazioni industriali, ma che ha avuto il merito di ricondurlo entro un recinto di regole condivise. Una legge che più volte è stata sottoposta ad attacchi, per lo più di carattere politico, e che però in sua difesa ha visto, anche pochi anni or sono, un forte movimento popolare manifestare. A mio avviso, uno dei punti critici che ha impedito in quarant’anni la piena attuazione della legge e del suo portato culturale e politico è da ricercarsi nella mancata approvazione di una normativa organica sulla rappresentanza e la democrazia sindacale nei luoghi di lavoro, normativa che viceversa vide la luce per il settore pubblico anche grazie al prezioso lavoro di Massimo D’Antona, dal barbaro assassinio del quale proprio oggi ricorrono 11 anni.
In conclusione, a quarant’anni dall’approvazione dello Statuto, voglio ricordare le parole di Umberto Romagnoli, uno dei grandi maestri del diritto del lavoro: «Il lavoro è senza aggettivi, non c’è lavoro subordinato, autonomo, parasubordinato, c’è il lavoro che è il passaporto della cittadinanza, come intende l’articolo 1 della Costituzione. Poi, il lavoro non deve essere solo l’oggetto di un contratto, ma il modo attraverso cui la cittadinanza esiste, ha una sua visibilità, reclama una presenza e uno spazio. Per cui se fino ad ora i sindacati hanno rappresentato e tutelato il cittadino come lavoratore, adesso devono imparare a rappresentarlo in quanto cittadino».
Nel momento in cui, insieme, ricordiamo i quarant’anni dello Statuto, non possiamo però dimenticare i troppi progetti di legge che ne stravolgono i contenuti. Noi Democratici a quei principi della legge n. 300 siamo e resteremo fedeli. (Applausi dai Gruppi PD e UDC-SVP-Aut:UV-MAIE-IS-MRE e del senatore Astore. Congratulazioni).
[…]
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Treu. Ne ha facoltà.
TREU (PD). Signora Presidente, questa sessione, molto utile anche se poco frequentata, non dovrebbe rappresentare solo una commemorazione ma dovrebbe servire a una riflessione politica – perché questa è la sede – che guardi al senso di allora dello Statuto e soprattutto al suo significato attuale. Ho sentito apprezzamenti largamente positivi (con qualche eccezione, come da parte di chi mi ha appena preceduto), ma, a maggior ragione, se l’apprezzamento riguarda il passato poi deve tradursi in significati politici per il futuro.
Una prima osservazione, se vogliamo fare un’analisi lucida e, se volete, anche aiutata dalla distanza, questa dovrebbe distinguere il significato e i principi dello Statuto dalle singole norme che lo compongono. Molte di queste sono invecchiate, altre sono state cambiate: quindi, lo Statuto non è più quello di un tempo, ma in realtà i princìpi che lo sostanziano sono di rango costituzionale e, giustamente, poi sono stati riprodotti e allargati a livello internazionale e, di recente, nella Costituzione europea, il che è bene ricordare anche qui. Questi principi sono ancora la piattaforma dei diritti fondamentali civili e sociali della persona che, allora, lo Statuto fece entrare nei cancelli della fabbrica.
Il valore e la fiducia in questi principi furono oggetto di condivisione da parte dei protagonisti di allora, da Brodolini a Donat-Cattin, che concluse proprio l’opera del ministro Brodolini. Ricordarli non ha solo un valore evocativo. Questa parte dello Statuto, soprattutto la prima, è servita a costituzionalizzare il potere dell’imprenditore di allora e ha una funzione tuttora attuale, se non altro perché costituisce una remora a possibili involuzioni della prassi di gestione del personale. In un momento così difficile, questa non è una funzione da poco.
La seconda parte dello Statuto, quella che più direttamente è stata ispirata da Giugni, che opportunamente ne è stato ricordato come il padre, com’è noto riguarda soprattutto i rapporti sindacali. A distanza di tempo, dobbiamo dire che è stata una normativa di razionalizzazione e di modernizzazione delle nostre relazioni sindacali e ha garantito il pluralismo e l’autonomia del sindacato, nonostante non sia stata poi integrata, come invece avrebbero voluto Giugni e gli autori di allora, da una pratica delle stesse parti sociali che regolasse meglio il conflitto che lo Statuto, opportunamente, non ha voluto regolare per legge. Queste sono le due grandi indicazioni che ci vengono da allora.
Detto questo, guardando avanti, bisogna riconoscere che ci sono dei punti critici. I diritti individuali e collettivi che allora furono sanciti, e che valgono anche adesso, hanno ridotto, ma non cancellato, l’asimmetria di potere che caratterizza i rapporti di lavoro. È bene dirlo, perché qualcuno sembra pensare che non sia più così. Soprattutto, questo è il problema maggiore, la normativa di allora è diventata incompleta e insufficiente – com’è stato ricordato – per fronteggiare le nuove realtà del mondo del lavoro, in particolare la diversificazione dei lavori, dai precari agli atipici, ma anche le modifiche intervenute nella fabbrica, perché l’impresa di oggi non è più “a scatola”, come una volta, ma “a rete”.
Occorrono quindi regole nuove, anche come tecnica, ma con un’ispirazione di base che resta. Infatti, l’idea di base dello Statuto, quella dei diritti fondamentali individuali e collettivi, è tanto presente oggi – noi lo vogliamo sottolineare – che anche quando si ricercano forme di regolazione dei nuovi lavori, si usa la parola «statuto». Io vorrei mantenerla, anche se magari lasciando perdere lo Statuto dei lavori. In sostanza, la sfida di oggi è applicare quell’idea di diritti fondamentali in un contesto molto più diversificato e più complicato, che quindi non abbia paura delle diversità esistenti nel mondo del lavoro, ma articoli le tutele e anche gli interventi di promozione – non si tratta infatti solo di tutelare il lavoro, ma anche di promuoverlo – in rapporto alle diverse modalità con cui il lavoro si manifesta. Se non lo facessimo, tradiremmo lo stesso obiettivo dello Statuto, che era appunto quello di sostenere e promuovere il lavoro secondo le proprie caratteristiche.
Noi abbiamo proposto, anche in questo Senato – che non se ne occupa molto – proposte di legge che vanno nella direzione di trovare una base di regolazione diversa delle condizioni di lavoro attuali, una base sociale comune e poi una diversificazione a seconda delle condizioni, perché questa è la sfida. Allora, lo Statuto ricompose, favorì le condizioni di lavoro in una fabbrica fordista accomunata dagli stessi tipi di lavoro; ora occorre perseguire questo obiettivo delle composizioni in condizioni molto più complicate.
Questa è la prima e più importante sfida che ci aspetta, e che lo Statuto può sostenere, ma va poi affrontata con lo stesso spirito riformista e riformatore di allora.
Il ripensamento riguarda i diritti e le tutele individuali dei diversi lavori, ma anche i rapporti collettivi, anche se se ne parla meno.
Allora il sostegno – e lo Statuto, si dice, era una legislazione di sostegno – riguardò la presenza sindacale in azienda, il contropotere; ora bisogna perseguire lo stesso obiettivo di bilanciamento dei poteri – Gino Giugni ricordava sempre: checks and balances – anche al di fuori della fabbrica, perché le decisioni imprenditoriali che influiscono sul lavoro sono sempre più spesso attuate anche al di fuori dell’impresa. Quindi, se vogliamo essere effettivi – come deve essere il lavoro – dobbiamo allargare l’orizzonte appunto al di fuori della fabbrica, ai rapporti che intervengono sul mercato del lavoro con le istituzioni e con le parti sociali, che sono sfidate molto più direttamente dalla legge.
Questi sono due aspetti su cui lo spirito dello Statuto deve essere ripreso, anche per alimentare la ricerca di soluzioni nuove.
Ci sono invece due profili manchevoli, che allora volutamente non furono affrontati. Il primo riguarda la disciplina della rappresentanza sindacale, che è stata anche qui ricordata, perché con lo Statuto si volle sostenere, senza regolare direttamente, avendo molta fiducia – anche se non del tutto ben riposta in questo caso – nella capacità di autoregolazione delle parti. Il tema non può essere dunque più eluso, ma l’obiettivo è lo stesso: favorire rappresentanze effettivamente presenti vicino ai luoghi di lavoro, e anche fuori, favorire coesione nella rappresentanza, e non invece dividere o frammentare la stessa, come ho sentito dire un attimo fa.
Il secondo profilo che non è stato considerato è quello della partecipazione nell’impresa, perché l’orizzonte di allora era la fabbrica, ma non si considerava il sistema di governo dell’impresa, che invece va affrontato per rendere i lavoratori meno estranei all’impresa stessa e, viceversa, per rendere l’impresa meno ostile.
Anche su questo abbiamo dei disegni di legge che stanno lì e che ci auguriamo vengano esaminati, perché ormai la protezione del valore del lavoro, in un contesto così mutevole, non si può più affidare solo a tutele normative, ma abbisogna di procedure di partecipazione e di controllo.
Concludo sottolineando la necessità che continui questo esame politico, con uno sguardo rivolto al futuro. Lo Statuto dei lavoratori non va superato, come qualcuno dice, ma va integrato e reinterpretato perché, se siamo all’altezza, può essere in grado di ispirare ancora soluzioni riformatrici adeguate a problemi nuovi. (Applausi dal Gruppo PD e dei senatori Castro e Poli Bortone).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Ichino. Ne ha facoltà.
ICHINO (PD). Signora Presidente, il mio breve intervento è dedicato soltanto a sottolineare un aspetto della vicenda dello Statuto dei lavoratori del 1970 che è stato forse tenuto indebitamente in ombra nel dibattito di questi giorni.
L’elaborazione e l’emanazione dello Statuto hanno coinciso con la crisi di una corrente di pensiero molto importante, quella che va sotto il nome di «contrattualismo sindacale» e che ha caratterizzato particolarmente l’elaborazione teorica ed il comportamento pratico di una grande confederazione sindacale italiana, la CISL.
Lo Statuto ha avuto il merito di recepire e generalizzare i contenuti fortemente innovativi della contrattazione collettiva della seconda metà degli anni ’60 e, in particolare, dell’autunno caldo del ’69. La sua emanazione, tuttavia, ha segnato uno spartiacque tra una legislazione in materia di lavoro rispettosa del principio contrattualistico e del principio di sussidiarietà, ed una legislazione, invece, fortemente invasiva, intrusiva ed ipertrofica, quella che ha portato la raccolta delle leggi vigenti nel nostro Paese in questo campo ad occupare quasi 3.000 pagine, caratterizzate oltretutto da grave disorganicità, ma, soprattutto, da un grave difetto di effettività: alla dilatazione del volume normativo ha corrisposto una riduzione del campo di applicazione effettiva della legge.
Lo Statuto – che pure nell’immediatezza della sua emanazione venne tacciato di essere una legge malfatta – è stato invece esemplare per semplicità, chiarezza ed aderenza agli equilibri del sistema di relazioni industriali. Subito distribuito in milioni di esemplari in ogni luogo di lavoro, in ogni angolo del Paese, esso in pochi mesi ha saputo cambiare profondamente la cultura del lavoro nel nostro Paese, perché è stato letto e capito direttamente dai milioni dei suoi destinatari, lavoratori e imprenditori, conseguendo uno straordinario grado di effettività. Questi beni inestimabili – semplicità, chiarezza, effettività, aderenza agli equilibri del sistema di relazioni industriali – sono però andati ben presto perduti nella nostra legislazione del lavoro.
Nel momento in cui celebriamo i 40 anni di questa legge straordinaria, credo che tutti dobbiamo assumere l’impegno, un impegno possibilmente bipartisan, a recuperare questi beni ed, in particolare, a ristabilire un corretto rapporto tra sistema delle relazioni industriali e legislazione del lavoro. Consapevoli che quando – come oggi diffusamente accade – la legge viene di fatto disapplicata, è la democrazia stessa ad essere messa fuori gioco. (Applausi dal Gruppo PD).
[…]
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Castro. Ne ha facoltà.
CASTRO (PdL). Signora Presidente, signor Ministro, signor Sottosegretario, illustri colleghi, credo davvero che il senso di questa celebrazione debba essere trovato nel proporre alcune riflessioni, magari eccentriche e non convenzionali, che però possano trasformarsi in materiale utile per un necessario intervento di compimento di quella traiettoria di modernizzazione che nello Statuto dei lavoratori trovò un momento autentico, dispiegato e fondante.
La prima eccentricità – se mi è consentito – è quella rispetto alla lectio facilior, dominante anche nel dibattito degli ultimi giorni, in ordine alla filiazione diretta da parte dell’«autunno caldo», dello Statuto dei lavoratori. Come ogni lectio facilior, corre il rischio di essere assai seducente, ma anche molto sdrucciolevole.
Credo si debba accuratamente evitare di incorrere in un errore per il quale post hoc, ergo propter hoc; anzi ritengo si debba cogliere quasi una sorta di contrapposizione tra l’orizzonte di senso, in termini di regolazione del mercato del lavoro e del diritto del lavoro, che ha trovato compimento nello Statuto, e invece quanto accadeva nelle proposizioni ideologiche dei movimenti. Basti pensare a chi furono davvero i protagonisti della manifattura dello Statuto dei lavoratori: Giacomo Brodolini, Gino Giugni – il primo socialista a vocazione interna e il secondo socialista a vocazione internazionale – e Carlo Donat-Cattin. È dalla fusione feconda, vivace e propulsiva di quelle due culture, il socialismo riformista e il personalismo cattolico, che nasce la qualità più propria, più densa e più significativa della complessiva proposta dello Statuto dei lavoratori, che non a caso scandisce il quadro legislativo, ma immagina di dover riempire quel frame attraverso l’affidamento alle parti sociali di una dimensione propulsiva ed innovativa: ecco, dunque, la continuità della modernizzazione. Pare quasi di cogliere come, rispetto alla deriva sentimentale dei movimenti, lo Statuto dei lavoratori abbia rappresentato una sorta di ancoraggio razionale. Verrebbe la voglia, citando categorie elaborate in altro capitolo del diritto, di contrapporre un diritto del lavoro del Gefuhl, del sentimento, a un diritto del lavoro del Gesinnung, cioè dell’atteggiamento interiore.
In questa prospettiva, credo vada storicamente recuperata e sottolineata senza alcuna cesura polemica la posizione che condusse all’astensione del Partito comunista italiano e del Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), su un versante, e del Movimento sociale italiano, sul versante opposto.
È evidente che, rispetto all’impostazione del Partito Comunista Italiano, lo Statuto dei lavoratori fu interpretato assecondandone la vocazione di senso attraverso la personalità dei suoi padri. A quella astensione, tra l’altro, seguì un dibattito molto acre nella stessa CGIL, la quale formulò una serie di proposizioni fortemente critiche. Questo sta a significare come in qualche modo lo Statuto dei lavoratori, con la sua razionalità e la sua vocazione contrattuale, si frapponesse al tentativo del Partito Comunista di allora di far dilagare nelle fabbriche la sua concezione antagonistica delle relazioni industriali e dei rapporti di lavoro, fondata come tale, da un lato, sulla politicizzazione come vettore del conflitto sociale e, dall’altro, sul rifiuto dell’autonomia come elemento fondativo dell’azione sindacale.
Non è un caso che si creò una complicità di fatto con pezzi dominanti della Confindustria di allora, che colsero nello Statuto dei lavoratori una minaccia all’esorbitare dell’unità degli approcci, che in qualche modo finirono per legittimare una prassi tutta difensiva rispetto all’applicazione dello Statuto. Due furono le conseguenze, certo segnate dell’eterogenesi dei fini, ma in qualche modo clamorose. Una fu lo scivolare della piccola impresa in un cono d’ombra irrimediabile. Per quasi sessant’anni la piccola impresa è stata condannata ad astenersi dal considerare le relazioni industriali come motore della propria propulsività economica, come vettore della propria capacità competitiva nell’arena internazionale.
Si mescolarono poi due sindromi in qualche misura concorrenti. Da un lato, c’era la «sindrome del Lingotto», che vedeva insieme la più grande impresa italiana, il più grande sindacato italiano e il più grande partito dell’opposizione italiana in una logica antagonistica nei presupposti e alla fine collusiva e consociativa nelle applicazioni quotidiane di un modello di relazioni industriali. Questa visione, chiamata come dicevo «sindrome del Lingotto», si affianca alla «sindrome di Palazzo Vidoni», cioè una degenerazione burocratica, centralistica e autoritaria che il fascismo volle promuovere in luogo della vocazione autenticamente sussidiaria di quel corporativismo che era stato l’anima della dottrina sociale della Chiesa e delle fondative riflessioni sull’economia sociale di mercato negli anni ’30.
Quindi, questo condanna, attraverso la coazione, ad avere solo il contratto nazionale come punto di riferimento per le nostre piccole imprese, le quali si ritrovarono in un contesto nel quale, oltre il 50 per cento della catena del valore essendo valore del lavoro, esso fu affidato alla terzietà lontana, distante, incomprensibile, inapplicabile del contratto nazionale, comprimendo energia competitiva, denegando opportunità e traiettorie di sviluppo.
L’altra sindrome è quella che in qualche modo condusse la grande impresa italiana a trascurare l’investimento valorizzante sulla risorsa umana come tracciato per lo sviluppo competitivo, preferendo quasi una sorta di insistita linea di investimento sempre e soltanto sul processo, sul prodotto, sull’impianto, sulla macchina nella sua funzione elusiva della risorsa umana, di quel sistema integrato di intelligenza, esperienza e competenza che è la risorsa umana che, culturalmente e antropologicamente connotata, genera prodotto.
A questo – va detto con molta lealtà – ha dato un suo contributo anche un’applicazione per certi versi distorsiva dello Statuto dei lavoratori da parte della magistratura: magistratura italiana in qualche misura essa stessa permeata di spirito centralistico e burocratico, che ha sempre avuto una vera vocazione antisindacale nel nostro Paese. Un commentatore con simpatica acidità ebbe a dire che, se l’articolo 28 di quel medesimo Statuto dei lavoratori fosse stato applicabile alla magistratura, la magistratura stessa se ne sarebbe dovuta fare, di ordinanze contro se stessa, su quell’articolo!
Noi tutti abbiamo memoria di un approccio dilatatamente intrusivo rispetto all’autonomia delle parti sociali e alla libera determinazione dei contenuti contrattuali da esse praticate. La magistratura portò sempre con sé l’idea di considerare lo Statuto quasi uno strumento per cancellare ogni possibilità di ricomposizione, di riconciliazione comunitaria nell’unità organica dell’impresa. Ci fu sempre l’idea di considerare lo strumento Statuto dei lavoratori per alterare la naturale e fisiologica dialettica delle parti intranea all’impresa.
È nella stessa temperie, d’altro canto – è stato ricordato in alcuni interventi – anche la trascuratezza, la sciatteria verso gli articoli 39, 40 e 46 della Costituzione, partecipazione e sussidiarietà: cioè esattamente il contrario di quella che divenne in qualche modo, attraverso un percorso di eterogenesi dei fini, la condanna nella quale lo Statuto dei lavoratori si trovò ad essere imprigionato, proprio nel momento in cui, invece, completamente diverso era lo spirito informatore di coloro i quali lo avevano voluto.
Non a caso, un’altra inadeguatezza, in qualche modo, nella fase applicativa si ebbe a verificare quando lo Statuto dei lavoratori finì per diventare lo strumento di una grande paraclasi, di una grande faglia sociale; quando cioè da una parte ci sono gli insider, i garantiti, i protetti dalla munitissima cittadella dei diritti, e dall’altra i giovani, le donne, i dropout condannati, invece, all’opacità del sommerso. Credo che questa sia stata un’altra delle non volute condizioni a cui un’interpretazione male accorta dello Statuto ha portato, rispetto alle quali bisogna intervenire.
Quindi, l’appello che in qualche misura rivolgo al ministro Sacconi e, attraverso lui, al Governo è di intervenire prontamente per recuperare quella traiettoria di modernizzazione alimentata dalla tradizione che abbiamo individuato essere come il momento culturalmente propulsivo di un diritto del lavoro che sappia farsi accompagnatore vivace di una complessiva rinascenza dell’industria italiana, in due direzioni: la prima, secondo la profonda intuizione di Marco Biagi, cioè trasformando lo Statuto dei lavoratori in Statuto dei lavori. Il Ministro sa bene come questo lascito di Marco, contenuto nell’ultimo file al quale aveva lavorato la notte prima di essere assassinato e teneramente intitolato al nome della moglie Marina, sia la piattaforma dalla quale partire per realizzare quest’operazione, in cui si abbassano le mura della tutela di coloro i quali sono protetti dalla cittadella, ma si estende sino agli estremi confini del mondo in cui operano i protagonisti del lavoro e dell’impresa l’area di intervento, di agibilità, di praticabilità e di effettività delle tutele. Un trade off virtuoso, fatto magari di tutele leggermente più basse, ma infinitamente più estese, come capacità di presidio.
Concludo con un altro appello: diciamo sì ad uno Statuto dei lavori, ma anche ad uno Statuto dei lavori che recuperi la centralità della contrattazione. Ecco, se il diritto del lavoro italiano è stato sempre segnato dall’affidamento della trazione alla legge, oggi è tempo che al contratto sia riconosciuto questo ruolo di trazione. Si deve passare cioè da un modello “push”, in cui la legge sostiene e invece spesso zavorra il crescere della società civile e delle dinamiche competitive, ad un modello “pull”, nel quale invece è il contratto, è la rete delle determinazioni contrattuali delle parti nel concreto quotidiano della vita delle imprese che deve trascinare, attraverso le sue pratiche migliori, un generale sviluppo del Paese.
Questo, signor Ministro, credo sia il modo migliore per celebrare lo Statuto dei lavoratori. So che lei nel pomeriggio intitolerà a Giacomo Brodolini e a Carlo Donat- Cattin alcune aule del suo Ministero che altre aule ha già intitolato a quel Massimo D’Antona, riformista vero, di cui ricorre oggi l’11º anniversario dell’assassinio, e a Marco Biagi. Ecco, credo che in questo collegamento non banale, ma vero, autentico, commosso, alla storia di tutti coloro i quali hanno fatto della battaglia per la modernizzazione stia il modo più vero per riconoscere la tradizione di civiltà del nostro Paese: credo, signor Ministro, che in questo stia davvero il modo migliore, il modo dell’unità, della verità e del progresso. (Applausi dal Gruppo PdL e della senatrice Negri).
PRESIDENTE. Ha chiesto di intervenire il ministro Sacconi. Ne ha facoltà.
SACCONI, ministro del lavoro e delle politiche sociali. Signora Presidente, ringrazio tutti i colleghi intervenuti, soprattutto quelli di loro che hanno avuto la pazienza di ascoltarsi reciprocamente e, a questo punto, anche di ascoltare il rappresentante del Governo in un confronto che non è stato dedicato soltanto a celebrare – com’è doveroso – lo Statuto dei diritti dei lavoratori, ovvero uno degli atti fondamentali del processo legislativo, e non solo, del nostro Paese. Il dibattito, infatti, è stato dedicato anche – come è giusto che sia – al futuro e alla verifica circa l’attualità di quello Statuto e all’esigenza di eventuali integrazioni e correzioni, in modo che esso viva anche nella realtà che così straordinariamente cambia.
È peraltro il giorno nel quale, come ha ricordato ora il senatore Castro, ricordiamo anche Massimo D’Antona ad 11 anni dalla sua scomparsa, dalla sua proditoria uccisione. Anche quest’ultimo ricordo, e l’omaggio che rendiamo a Massimo D’Antona, dovrebbero indurre a riflettere circa i modi con i quali ci si deve confrontare sui temi del lavoro, cosicché prevalga il reciproco ascolto e la disponibilità ad individuare punti di incontro.
Non v’è dubbio infatti, come hanno osservato molti, che sarebbe molto auspicabile procedere ad ulteriori riforme in modo quanto più condiviso, perché le regole del lavoro appartengono in fondo alla Costituzione materiale del nostro Paese, che ovviamente si evolve e dovrebbe evolversi in termini largamente condivisi. Questo è stato anche il senso del modo con cui abbiamo prodotto il Libro bianco attraverso la pubblica consultazione, proprio nella convinzione che il futuro del modello sociale, che include la regolazione dei rapporti di lavoro, e lo sviluppo delle relazioni industriali che ne dovrebbe derivare costituiscano parte del nostro patto sociale.
Osservo la necessità di un dibattito sereno, perché anche allora non ci fu soltanto un dissenso: se leggo la dichiarazione di voto dell’onorevole Giuseppe Sacchi, del Partito Comunista, non posso non fare una riflessione rispetto ad un atto poi così largamente condiviso. Anche allora, un legittimo dissenso, che va collocato nel contesto di quel tempo, ma si sottolinea tale dissenso con un linguaggio – e, a parte il linguaggio, con contenuti – di radicale contrapposizione.
Disse l’onorevole Sacchi: «Se la maggioranza di questo Parlamento vorrà assumersi la responsabilità di approvare una legge che autorizza i padroni a continuare a calpestare la Costituzione nei luoghi di lavoro, ebbene di questo atto giudicheranno i lavoratori e non sarà certo un giudizio positivo per la maggioranza, ma una severa condanna».
Oggi, per il solo fatto che io abbia ipotizzato l’evoluzione dello Statuto dei lavoratori verso lo Statuto dei lavori, un ex parlamentare della sinistra dice: «Sacconi vuole i lavoratori schiavi». Come un attuale presidente di Regione, non molto tempo fa, ha detto: «L’arbitrato è una pistola puntata alla testa dei lavoratori».
Credo che si insista non solo in un linguaggio, ma anche nell’esasperazione delle divergenze in questi termini e che, in un Paese che non ha del tutto risolto le ragioni che hanno condotto alla frequente presenza di deviazioni di carattere violento, non ci si possa poi stupire se qualcuno auspica che questo Ministro e le forze sociali che concordano con queste tesi – cosa che dovrebbe far riflettere quantomeno circa l’opinabile obiettivo che quelle proposte si prefiggono – vengano fermati violentemente, e se poi, magari, qualcuno pensa anche di farlo.
Per questo, invito innanzitutto ad un confronto sereno. Esso è stato molto auspicato in un dibattito fuori dalle Aule parlamentari, che si è già consistentemente svolto; tuttavia, nel momento in cui c’è l’occasione di svolgere un dibattito in sede parlamentare noto molte assenze, magari proprio di molti di coloro che rivendicavano un dibattito doveroso in questa sede.
ROILO (PD). Guardi dalla sua parte!
SACCONI, ministro del lavoro e delle politiche sociali. Mi perdoni, lei potrà capire che da questa parte normalmente consentono con quello che il Governo propone.
ADAMO (PD). Credevo volesse dire che non gliene importa niente dei lavoratori!
SACCONI, ministro del lavoro e delle politiche sociali. Normalmente consentono. In ogni modo, non è mia intenzione aggiungere polemica a polemica.
Vorrei soltanto citare le parole di Giorgio Benvenuto per ricordare il tempo nel quale lo Statuto è stato prodotto. Tra le tante cose che ho letto in questi giorni a proposito dello Statuto, Giorgio Benvenuto, non molto tempo fa, ne ha celebrato il ricordo con una riflessione che mi è particolarmente piaciuta. Di quel tempo egli ricorda in particolare quanto fosse necessario lo Statuto per porre fine alle terribili discriminazioni che, impedendo l’esercizio delle libertà sindacali nei posti di lavoro, tenevano i lavoratori in uno stato di soggezione e di assoluta subordinazione nei confronti degli imprenditori, e usa a simbolo di queste discriminazioni le schedature, così ricorrenti in quel tempo. Ce ne sono alcune, che egli rammenta, particolarmente significative: c’è un terribile lavoratore definito «di tendenza leniniana», che nel 1968 ritenne orientato verso il PSU (Partito Socialista Unificato), già PSI; era l’anno in cui io mi iscrivevo a quel partito, e ne ho un ottimo ricordo. Ma successivamente, proprio per ricordare quel tempo, Giorgio Benvenuto ancora cita Gino Giugni, testimone di un colloquio con Brodolini, poco prima della sua scomparsa, e Brodolini gli raccomanda di seguire attentamente il dibattito in Parlamento con queste parole: «Io non voglio che lo Statuto dei lavoratori diventi lo Statuto dei lavativi». Anche questo è riformismo, cioè la chiave di lettura dello Statuto dei lavoratori. Carlo Donat-Cattin – che continua a seguire, dopo la morte di Brodolini, l’iter parlamentare e la prima implementazione dello Statuto, come ricorda Giorgio Benvenuto – aggiunge: «Non hanno capito che in fabbrica ci si va anche per lavorare e bisognerebbe cercare di mettere qualcosa nella legge che orientasse in questo senso».
Questi ricordi sono molto indicativi del clima riformista che sostiene lo Statuto dei lavoratori, che non viene compreso altrettanto bene da componenti che non solo non lo votano ma, come dicevo, radicalmente lo contestano (e non riporto citazioni, che ho qui a portata di mano, dalla rivista giuridica vicina alla CGIL). Tutto questo lo ripeto non per riaprire antiche divergenze, ma per sollecitare un modo molto più paziente di ascoltarci reciprocamente e molto più costruttivo di confrontare le nostre reciproche posizioni.
Serve aggiustare lo Statuto dei lavoratori? Serve aggiustare quell’impianto? Sempre Giorgio Benvenuto lo afferma in un modo che mi convince molto. Dice: «Nel modo di parlare si è abituati ad affermare: “Bisogna difendere i lavoratori”. Si usa e si abusa, per tutte le scelte di politica sindacale, del termine “difendere”. Penso che così facendo si finisca per rimanere immobili, si diventi anzi conservatori. Oggi difendere non è più sufficiente: dobbiamo valorizzare il lavoro, la professionalità, il merito, l’impegno». Ho citato Giorgio perché è stato per tanto tempo segretario dell’organizzazione sindacale che più aderì alla UIL.
Ha ragione Pietro Ichino quando ricorda che la CISL era solita dire: «Il contratto è il mio Statuto» e che in qualche modo, pur preveggente, quel ragionamento non era tuttavia consono a quel tempo, nel quale esistevano diffusamente quelle discriminazioni che emblematicamente si traducevano anche nelle schedature. Ma proprio il segretario della UIL, nonché, poi, parlamentare della sinistra, dice anche: «Dobbiamo cambiare, e adottare modi con i quali non soltanto affidarci a diritti fondamentali e inderogabili di legge sanzionabili, ma dobbiamo individuare anche una dimensione promozionale dei diritti e ancor più delle tutele che li sostengano e li rendano effettivi nella realtà che cambia».
Pensiamo ai diritti fondamentali nel lavoro. Credo che possiamo, insieme, riconoscerli oggi nel diritto alla salute e alla sicurezza nel lavoro, nel diritto alla giusta remunerazione del lavoro, nel diritto alla occupabilità, cioè ad essere posti continuamente nella condizione di essere occupabili. Se noi guardiamo alla norma inderogabile di legge, troviamo alcune opportune disposizioni che vanno probabilmente mantenute, altre che possono essere modulate quando sono tutele che possono esserlo, che sono già modulate nello Statuto dei lavoratori, ma vediamo come tutto ciò che è sanzionabile è molto insufficiente a rendere effettivi questi diritti, perché pur avendo un impianto normativo così pesante, questi diritti che ho citato non sono così effettivi come tutti insieme credo vorremmo.
Per quanto riguarda la salute e la sicurezza nel lavoro, certo, abbiamo definito molti adempimenti che sono sostenuti da adeguate sanzioni, ma avvertiamo il bisogno di aggiungere molta attività promozionale in termini di formazione, informazione e prevenzione.
Per quanto riguarda la giusta remunerazione, non ci accontentiamo di ciò che è sanzionabile, cioè del salario definito dal contratto collettivo al quale la giurisprudenza riconosce un’efficacia erga omnes, ma vogliamo qualcosa di più per il lavoratore: vogliamo che si definisca una parte del salario che sia collegata ai risultati dell’impresa e, se possibile, ai suoi utili. Mi pare che la senatrice Poli Bortone abbia sottolineato molto questa esigenza, che evidentemente incorpora anche un elemento fortemente partecipativo del lavoratore al rischio di impresa, non solo per i profili negativi, ma anche per quelli positivi.
Se guardiamo al diritto all’occupabilità, e pensiamo all’articolo 18, sappiamo quanto esso non difenda per nulla un posto di lavoro quando questo si consuma, e come solo l’investimento nelle conoscenze, l’accesso alla conoscenza, alla competenza, e la possibilità continua ed effettiva di migliorare le proprie conoscenze e competenze definiscano una continuità nel rapporto di lavoro e possa addirittura rovesciare il rapporto di forza fra lavoratore e datore di lavoro, quando il datore di lavoro è indotto non solo a dare un contratto a tempo indeterminato, ma a cercare di fidelizzare quel lavoratore così professionalizzato che appare nel mercato del lavoro più libero dello stesso datore di lavoro nel cercare un’altra soluzione a lui più consona. Sono casi rari, ovviamente in questo contesto, ma insisto su quanto si riveli necessario lo strumento dell’investimento nelle conoscenze e nelle competenze.
Ebbene, lo Statuto dei lavori è un modo per far vivere lo Statuto dei diritti dei lavoratori: non è un modo per cambiarlo e sostituirlo, bensì per renderlo più vivo e vitale. Infatti, lo Statuto dei lavori – come disse proponendolo per la prima volta Marco Biagi, in un articolo scritto nel momento in cui era consulente del ministro Tiziano Treu – guarda anche ai lavori che formalmente e funzionalmente definiamo indipendenti, ma che socio-economicamente individuiamo come molto dipendenti. A questi lavori abbiamo già dedicato alcune disposizioni proprio con la legge Biagi: penso alle tutele della maternità o alla norma relativa alla giusta remunerazione del collaboratore a progetto, spesso ancora troppo ineffettiva. Basti vedere le differenze di remunerazione per uno stesso collaboratore, magari anche correttamente tale perché opera in outbound in un call center, ma che per la stessa prestazione viene retribuito in modo così diverso e talora così misero, a mio avviso contravvenendosi a quella che è già una norma di legge.
Quelle stesse protezioni possono essere ulteriormente codificate ed estese, così come lo Statuto può porsi piuttosto il problema di individuare nel suo seno una parte di norme inderogabili di legge che attengono a diritti fondamentali che non possono non essere generalizzati. A questa dovrebbe aggiungersi una parte inerente alle tutele che possono essere ritenute derogabili dalla contrattazione, cioè dalle capacità degli attori sociali, che nel frattempo non solo si sono visti riconosciuti quei diritti basici grazie allo Statuto dei lavoratori, ma hanno sviluppato la propria capacità e articolato la propria organizzazione. In questo modo, nei territori, nei singoli settori e aziende le parti sociali possono incontrarsi virtuosamente, adattarsi reciprocamente e, molto più effettivamente ed efficacemente, rendere attuali e praticate quelle tutele che rendono effettivi i diritti fondamentali a cui mi riferivo.
Questa sussidiarietà verso gli attori sociali è essenzialmente il contenuto del passaggio che questo Governo vorrà proporre: il passaggio a quel maggior riconoscimento del ruolo della contrattazione collettiva nella sua più forte articolazione e nei tanti dualismi che caratterizzano il nostro mercato del lavoro e che si sono fortemente sviluppati dal tempo nel quale l’assetto della produzione, l’organizzazione del mercato del lavoro e le persone in esso attive avevano caratteristiche molto più standardizzate. Oggi, invece, i dualismi sono numerosi, a partire da quello territoriale, che purtroppo si è confermato.
E come non pensare a un diritto del lavoro, a una regolazione del lavoro, a un sistema di relazioni industriali che aiutino soprattutto la crescita, in un tempo nel quale questa sarà resa difficile dalle condizioni di Paesi (quelli europei, dell’Europa mediterranea in modo particolare), ove si combinano alto debito pubblico e declino demografico? Tali caratteristiche, invece, si trovano in modo opposto nei Paesi oggi più vitali, che chiamiamo emergenti ma che, in realtà, sono già emersi e che nella ripresa stanno crescendo con un ritmo straordinariamente superiore alla vecchia Europa.
Ma come realizzare crescita, e crescita con occupazione? E come organizzare distribuzione equa della ricchezza, una volta che questa si produce attraverso posti di lavoro e salari collegati – come dicevo – quanto più ai risultati e agli utili stessi dell’impresa? Queste sono le sfide che abbiamo di fronte, rispetto alle quali le ricette sono tutt’altro che semplici, ma per le quali occorre disponibilità al confronto reciproco, all’ascolto reciproco e disponibilità di tutte le parti sociali a mettersi in discussione e a trovare punti d’incontro.
Quando si realizzano accordi, come quello, che io ho apprezzato, di Banca Intesa con le organizzazioni sindacali per assumere 1.000 giovani a tempo indeterminato nel Mezzogiorno sulla base di un salario di ingresso per un determinato periodo di tempo; quando si realizzasse, come io spero, un accordo a Pomigliano d’Arco per attrarre la produzione della Panda, che il gruppo FIAT ha proposto di localizzare in quella sede, anche rispetto ad altri stabilimenti all’esterno del nostro Paese; quando le parti dovessero realizzare un punto d’incontro e un’adattabilità reciproca, circa tempi e metodi di lavoro e circa l’orario di lavoro, fra le esigenze di competitività, da una parte, e le esigenze di qualità del lavoro e di qualità della vita che il sindacato rappresenta, dall’altra; quando noi dovessimo via via veder sviluppare questa capacità in sussidiarietà delle parti di organizzare enti bilaterali per dare valore al lavoro, come strumenti continui, flessibili e adattabili per dare valore al lavoro; allora, noi assisteremmo a idee in movimento, e non soltanto alla statica strumentazione difensiva, a quella difesa che Giorgio Benvenuto invita a superare con così intensa attività delle istituzioni e delle parti sociali.
Io ho proposto che nel Mezzogiorno, in agricoltura ma anche nel turismo, cioè in ambiti produttivi caratterizzati da forte disseminazione dei lavori, si adottino le buone pratiche che in edilizia le parti sociali hanno saputo produrre, diffondendo la bilateralità e organizzandola sistematicamente su base provinciale per sostituire i caporali con intermediari legittimi, trasparenti, rappresentativi, come possono essere i soggetti della rappresentatività.
Questo è lo spirito con cui affrontare il percorso di fronte a noi. Nei prossimi giorni il Governo presenterà un piano triennale per il lavoro, cui seguirà il disegno di legge delega circa lo Statuto dei lavori. Il Governo presenterà questi atti sulla base di una fase di dialogo sociale e di trasparente dibattito parlamentare, perché poi, alla fine, toccherà anche al Parlamento, ovviamente, esprimere le proprie opinioni e il proprio voto su quelle e su altre proposte che sono state presentate, io mi auguro nella direzione di un bene comune che non può non essere ritenuto largamente condiviso. (Applausi dal Gruppo PdL. Congratulazioni).