SULLE RESTRIZIONI PREVISTE NEL DISEGNO DI LEGGE CIRCA LA FORMA DELL’ESERCIZIO DELL’ATTIVITA’ DI ASSISTENZA E CONSULENZA LEGALE
Interventi estratti dal resoconto stenografico delle sedute pomeridiane del Senato dell’11 e del 12 maggio 2010 – Seguito della discussione dei disegni di legge: (601) GIULIANO. – Modifiche al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, in materia di riforma dell’accesso alla professione forense e raccordo con l’istruzione universitaria. (711) CASSON ed altri. – Disciplina dell’ordinamento della professione forense. (1171) BIANCHI ed altri. – Norme concernenti l’esercizio dell’attività forense durante il mandato parlamentare. (1198) MUGNAI. – Riforma dell’ordinamento della professione di avvocato – Gli interventi estratti dalle sedute precedenti sullo stesso tema sono agevolmente reperibili nella sezione Giustizia di questo sito
SOMMARIO:
1. Sulla tecnica normativa che deve essere adottata nel codice deontologico
2. Sull’incomprensibile divieto per l’avvocato di far parte di più associazioni professionali
3. Sul divieto degli studi legali in forma di società di capitali
4. Sulla nuova norma in materia di segreto professionale
5. Sulla formula del giuramento dei nuovi avvocati
6. Sulle restrizioni in materia di numero e tipo di specializzazioni dell’attività forense
7. Sulla questione del carattere ininterrotto dell’anzianità di esercizio della professione come requisito per la specializzazione
1. SULLA TECNICA NORMATIVA CHE DEVE ESSERE ADOTTATA NEL CODICE DEONTOLOGICO
PERDUCA (PD). Vorrei segnalare che il senatore Ichino ha aggiunto la sua firma all’emendamento 3.209 a mia prima firma, e quindi lo illustrerà [l’emendamento tende a sopprimere un comma 3 dell’articolo 3 del disegno di legge, che prevede che non possano essere sanzionate disciplinarmente le violazioni di principi generali, come la correttezza o la lealtà, se non riconducibili a mancanze specificamente tipizzate – n.d.r.].
ICHINO (PD). Signor Presidente, signor relatore, stabilire che il codice deontologico debba – come leggo testualmente – osservare strettamente il principio della tipizzazione delle condotte significa affermare che il codice non può sanzionare sul piano disciplinare condotte che contrastino con clausole generali, come quelle di lealtà, di correttezza o di buona fede, che invece costituiscono parte essenziale di qualsiasi codice deontologico. Per questo mi sembra che l’inciso contenuto nel testo del comma 3 dell’articolo 3 debba essere eliminato; inoltre, dico subito che per lo stesso motivo mi sembra insufficiente anche il temperamento di questo inciso proposto nell’emendamento 3.211, del senatore Mugnai, che certo porta un miglioramento, rendendo meno drastica l’esclusione, ma cionondimeno conserva una regola di stretta tipizzazione che metterebbe fuori gioco i principi generali.
Per questo motivo, non solo sottoscrivo l’emendamento 3.209, ma ne sottolineo altresì l’importanza.
…..
[…]
2. SULL’INCOMPRENSIBILE DIVIETO PER L’AVVOCATO DI FAR PARTE DI PIU’ ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI
ICHINO (PD). Chiedo la parola.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ICHINO (PD). Signor Presidente, capisco (anche se non lo condivido per nulla) l’intendimento della maggioranza di vincolare il più possibile gli studi professionali degli avvocati al modello tradizionale della bottega artigiana. Però occorre almeno un minimo di ragionevolezza nel perseguire questo intendimento.
Il comma 5 dell’articolo 4 vieta all’avvocato di essere associato a una pluralità di associazioni professionali. Per esempio, vieta a un avvocato che esercita la professione a Milano di associarsi anche con avvocati che esercitano la professione a Roma con un’associazione con sede in Roma. Chiedo al relatore quale possa essere la ragion d’essere di questo divieto. Qual è il motivo, l’interesse che vogliamo tutelare ponendo questo divieto, che non sia il puro e semplice attaccamento a una forma tradizionale di esercizio della professione? Un ragioniere può lavorare alle dipendenze di due aziende diverse, un medico può operare in due case di cura differenti, un ingegnere può operare con società di ingegneria diverse e anche associarsi con esse in Italia e all’estero; per quale motivo l’avvocato non può associarsi a diverse associazioni dal momento che questo non presenta alcun problema né per la trasparenza, né per la correttezza, né per la responsabilità personale della sua prestazione?
Se il relatore volesse, una volta tanto, darci una spiegazione gliene saremmo davvero grati. Se non ci verrà fornita una spiegazione convincente manterremo l’emendamento soppressivo del comma 5 dell’articolo 4.
[…]
LONGO (PdL). Domando di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LONGO (PdL). Signor Presidente, l’emendamento proposto dalla senatrice Della Monica, così come illustrato dal collega Ichino, non convince. Infatti, occorre fare chiarezza tra l’essere associato ad una associazione o società rispetto alla diversa prospettiva, riguardante i giovani, di poter collaborare con diversi studi professionali collocati, anche diffusamente, su tutto il territorio nazionale.
Oggi è possibile – e domani sarà possibile, anche dopo l’approvazione di questa legge – che un giovane professionista venga ospitato da uno o più studi. È sufficiente che egli ne faccia dichiarazione al Consiglio dell’ordine di appartenenza. È questo il fenomeno delle sedi secondarie.
Altra cosa è essere associato ad una associazione: è giusto che vi sia appartenenza ad una sola associazione, anche se poi l’associato potrà svolgere l’attività presso altri studi. Nessuno glielo vieta: è sufficiente che non sia in associazione professionale.
ICHINO (PD) Domando di parlare.
PRESIDENTE. Senatore Ichino, in linea di massima non le sarebbe consentito di parlare in questa fase dei nostri lavori, ma, data l’importanza dell’argomento in esame e del dibattito, ne ha facoltà, restando inteso che ciò non rappresenta un precedente.
ICHINO (PD). Grazie, signor Presidente. Ho chiesto la parola perché l’intervento svolto dal senatore Longo contraddice platealmente la motivazione fornita dal relatore contro questo emendamento. Il relatore ci ha detto che bisogna impedire l’adesione del professionista, dell’avvocato, a due associazioni diverse, per impedire possibili conflitti di interesse. Ma ora il senatore Longo ci dice che lo stesso avvocato può appartenere a studi diversi, collaborare con studi diversi; dove va a finire, dunque quella prevenzione del conflitto di interessi? In realtà, la motivazione del senatore Longo contraddice quella data dal relatore. (Applausi dal Gruppo PD).
[…]
3. SUL DIVIETO DEGLI STUDI IN FORMA DI SOCIETA’ DI CAPITALI
ICHINO (PD) Domando di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ICHINO (PD). Signor Presidente, l’emendamento 4.216 mira a sopprimere i commi 7 e 12 dell’articolo 4. In particolare, il comma 7 riguarda la costituzione di società di capitali che tra le attività previste dal proprio oggetto sociale prevedono l’esercizio di attività proprie della professione forense. Porre tale divieto nei confronti degli avvocati italiani non ha molto più senso che stabilire per legge che la temperatura dell’acqua del Mediterraneo deve essere al di sopra o al di sotto di un determinato grado. È del tutto velleitaria una norma di questo genere, dal momento che gli avvocati degli altri Paesi dell’Unione europea possono esercitare la professione anche nella forma della società di capitali e possono farlo anche in Italia. Porre questo limite oggi agli avvocati italiani significa legare loro una mano dietro la schiena. Significa impedire gli investimenti necessari – quando le dimensioni dello studio lo richiedono – per l’opportuna capitalizzazione degli studi italiani, con il risultato che essi saranno meno competitivi nei confronti degli studi stranieri. L’invasione del mercato dei servizi forensi italiano da parte di studi stranieri organizzati in modo più moderno è già in atto; con questa norma noi favoriamo tale invasione.
Colleghi, avvocati della maggioranza, non credo che voi stiate facendo l’interesse della nostra categoria; e qui parlo da avvocato. (Applausi dal Gruppo PD).
[…]
ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto sull’ordine del giorno G4.100.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ICHINO (PD). Signor Presidente, innanzitutto le segnalo la richiesta della senatrice Della Monica di aggiungere la propria firma all’ordine del giorno G4.100.
Vorrei svolgere poi due considerazioni. Si sente chiedere diffusamente dagli avvocati italiani al Parlamento una normativa che consenta loro di esercitare la professione con maggiore soddisfazione economica. Gli avvocati italiani lamentano di avere redditi bassi. Il solo modo in cui un lavoro di natura autonoma – che non è quindi soggetto al prelievo del profitto da parte di un datore di lavoro – può dare un lucro maggiore a chi lo esercita, è una migliore organizzazione e strumentazione che renda più produttiva l’attività e la renda anche più competitiva rispetto a quella dei concorrenti. Con la norma che stiamo per votare – e che auspico venga respinta – la quale vieta l’esercizio della professione forense nell’ambito di una società di capitali, cioè nell’ambito di una società capace di attirare investimenti per una migliore attrezzatura tecnologica e una migliore organizzazione dell’attività stessa, andiamo esattamente contro questo interesse della categoria.
Seconda considerazione: tutte le osservazioni, le indicazioni, gli inviti che arrivano dal Fondo monetario internazionale e dall’OCSE nei confronti dei Paesi europei della fascia mediterranea, che sono quelli oggi maggiormente in difficoltà sul piano economico e finanziario, quelli che hanno maggiore difficoltà ad attirare gli investimenti stranieri sul proprio territorio, indicano tra le cause di questa debolezza anche l’eccesso di costo dei servizi all’impresa, la scarsa produttività, il rapporto sfavorevole costo-qualità dei servizi resi alle imprese; tra questi servizi, il servizio legale è uno dei più rilevanti.
Se noi ci ostiniamo a difendere come modello dominante dello studio legale la forma della bottega artigiana, condanniamo l’esercizio della professione forense da parte di avvocati italiani a condizioni di inferiorità nei confronti dei grandi concorrenti stranieri. Rifiutare le osservazioni non solo dell’Antitrust, ma anche del Fondo monetario internazionale e dell’OCSE, che ci invitano a rivedere proprio queste norme, significa rinunciare a curare una delle piaghe che costringono il nostro Paese in questa condizione. Non sottovalutiamo questo aspetto, perché quando ci si chiede il motivo della debolezza della capacità di sviluppo del sistema Italia, ci riferiamo anche a questo; non solo a questo, ma anche a questo. (Applausi dal Gruppo PD).
[…]
4. SULLA NUOVA NORMA IN MATERIA DI SEGRETO PROFESSIONALE
ICHINO (PD). Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ICHINO (PD). Signora Presidente, non voglio ripetere ciò che con molto fondamento ha testé detto la collega Poretti; ma vorrei attirare l’attenzione del relatore sulla formulazione dell’articolo 622 del codice penale, secondo cui chiunque, avendo notizia per ragione del proprio stato o ufficio o della propria professione, o arte, di un segreto, lo rivela senza giusta causa oppure lo impiega a proprio o altrui profitto è punito, eccetera. Qui abbiamo una definizione tecnicamente perfetta del segreto professionale, sia per quel che riguarda la delimitazione soggettiva di chi vi è obbligato, sia per quel che riguarda la delimitazione oggettiva di ciò che è protetto dal segreto. Chiedo al relatore un attimo di attenzione in considerazione del fatto che si tratta di una questione di un certo rilievo.
È pacifico, da sempre, che la norma contenuta all’articolo 622 del codice penale si applica anche agli avvocati poiché essi esercitano una professione che tipicamente li mette a contatto con notizie riservate.
Ora, è altrettanto pacifico che l’articolo 622 del codice penale non si limita a definire una fattispecie criminosa, cioè un reato, ma definisce anche un obbligo sul piano civilistico: l’avvocato che viola l’obbligo del segreto commette anche un inadempimento contrattuale.
Se le cose stanno così, quale significato dobbiamo attribuire all’articolo 5 al nostro esame? Colleghi, non sto ponendo una questione politica, o relativa all’impianto generale di questa legge, ma un problema squisitamente tecnico. L’articolo 5 si sovrappone all’articolo 622, con una definizione molto più sfilacciata, molto meno precisa, dell’oggetto del segreto; non se ne capisce la delimitazione. Si parla di fatti e circostanze «apprese» nell’attività di rappresentanza e assistenza. È una definizione molto più generica, incerta e indefinita rispetto a quella dell’articolo 622. Con questo articolo vogliamo dire che l’obbligo di segreto dell’avvocato è più ampio rispetto a quello che è stato fino ad oggi?
Inoltre, il secondo comma dice: «L’avvocato è tenuto altresì all’osservanza del massimo riserbo verso i terzi». Che cosa vuol dire questo «altresì» e che cos’è l’obbligo di segreto di cui al primo comma se non appunto un obbligo di riserbo verso terzi? Chiunque leggerà questa norma si chiederà quale sia la differenza tra la fattispecie disciplinata dal primo comma e quella disciplinata dal secondo. Dovete spiegare qual è la differenza di oggetto tra il primo e il secondo comma, perché altrimenti approviamo una norma scritta male, che potrà essere soltanto occasione di contenzioso e di complicazioni del tutto inutili. Dico questo anche perché l’articolo 622 del codice penale, fino a oggi, ha dato ottima prova e non mi risulta che siano sorte questioni che abbiano sottolineato l’esigenza di una riscrittura della norma.
Infine, il comma 4 dell’articolo 5 dice: «L’avvocato, i suoi collaboratori e i dipendenti non possono essere obbligati a deporre nei giudizi di qualunque specie…» (questa è un’espressione decisamente impropria che andrebbe corretta anche solo per rispetto del lessico giuridico) «…su ciò di cui siano venuti a conoscenza…». Per quel che riguarda questo aspetto della disciplina del segreto, l’articolo 200 del codice di procedura penale dice una cosa molto più precisa: cioè che l’avvocato ha non solo il diritto, ma addirittura il dovere di astenersi dal deporre sulla materia coperta dal segreto. Salvo il caso di giusta causa: dove la giusta causa tempera l’estensione dell’obbligo in funzione di situazioni che possano giustificare la rivelazione, in particolare la necessità di evitare ad una persona danno grave, imminente, che possa essere evitato con la rivelazione del segreto nelle forme particolari che rendano il meno dannosa possibile la rivelazione stessa. Con il comma 4 noi travolgiamo tutta la raffinata elaborazione che è venuta formandosi sul concetto di giusta causa di rivelazione del segreto; giusta causa che implica anche un obbligo di particolare attenzione alle forme in cui si rivela il segreto per evitare un danno grave alla persona o comunque per una grave ragione di altro genere.
Vogliamo dire che tutto questo non vale più? Se, invece, vogliamo salvare quanto è stato elaborato a questo proposito fino ad oggi, che senso ha sovrapporre alla vecchia norma questo nuovo comma 4, scritto male, che può soltanto generare incertezze?
Chiedo, quindi, al relatore e alla maggioranza di considerare attentamente l’opportunità di richiamare, invece, l’articolo 622 del codice penale estendendo opportunamente l’obbligo di segreto professionale ai collaboratori dell’avvocato, ma non facendo pasticci, non sovrapponendo a una vecchia norma che ha dato buona prova una nuova norma scritta decisamente peggio. (Applausi dal Gruppo PD).
[…]
LONGO (PdL). Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LONGO (PdL). Signora Presidente, le osservazioni che sono state enucleate dal senatore Ichino sul fatto che il comma 1 dell’articolo 5 sarebbe mal scritto e si sovrapporrebbe alla disciplina di cui all’articolo 622 del codice penale non credo debbano essere accolte.
Quando si fissa una norma fondamentale come quella del segreto professionale si ribadisce quali sono gli ambiti nei quali questo segreto professionale si deve tutelare. Ed allora, è giusto che il comma 1 affermi che «l’avvocato è tenuto (…) alla rigorosa osservanza del segreto professionale nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale».
Non è vero che sul segreto professionale esista una giurisprudenza così pacifica ed encomiabile, proprio perché alcuni hanno voluto – giustamente dal loro punto di vista – verificare se il segreto professionale dovesse valere o no nell’attività di assistenza stragiudiziale dove ancora non esiste una conformazione precisa di nomina dell’avvocato o del consulente.
Così, a maggior ragione, quando parla dell’articolo 5 e dice che il relativo comma 4 non avrebbe senso perché abrogherebbe qualcosa, dimentica il senatore Ichino di ricordare che il comma 4 termina con le parole «salvi i casi previsti dalla legge»: dunque, anche dal codice che disciplina il processo penale che, all’articolo 200, prevede le eccezioni alla opposizione del segreto professionale.
Non credo affatto che la norma sia scritta male e che sia inutile, né che crei confusione. Quindi, voterò contro l’emendamento presentato dal senatore Ichino.
ICHINO (PD). Ma cosa aggiunge questa norma? Non ce lo avete chiarito.
[…]
ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ICHINO (PD). Signora Presidente, prendo atto di questo asse di ferro tra il senatore Li Gotti e il senatore Longo su questa norma (Applausi del senatore Perduca), ma osservo che fino ad oggi la materia del segreto professionale – e mi dica il collega Li Gotti se non è così – non ha avuto altra fonte di disciplina che l’articolo 622 del codice penale. Ciò nonostante, un avvocato che violasse il segreto professionale poteva, eccome, essere citato in giudizio in sede civile per il risarcimento del danno. Questa è la migliore prova del fatto che quella norma non sancisce soltanto un divieto penalmente sanzionato, ma contiene anche la definizione di un obbligo rilevante sul piano civile.
Se le cose stanno così, non occorre una nuova norma che sancisca l’obbligo sul piano civile. Ma se proprio la vogliamo introdurre, allora dettiamo una norma che definisca quell’obbligo esattamente con le stesse parole con cui esso è definito nel codice penale: altrimenti avremo un obbligo civile con determinati contorni e un obbligo penale con contorni diversi. È un pasticcio, cari colleghi! Da questa sovrapposizione di norme può derivare soltanto una serie di questioni, un difetto di chiarezza dell’ordinamento, di cui non c’è alcun bisogno.
Qui non sono in gioco la concezione della professione forense, il ruolo dell’ordine, la questione economica delle società di capitale, ma è in gioco soltanto la buona tecnica legislativa che impone di non sovrapporre due norme diverse sulla stessa materia, perché questo è complicare le cose, aumentare i costi di transazione, mettere sabbia negli ingranaggi.
Oggi siamo invitati anche dall’Unione europea a semplificare il nostro ordinamento, i nostri testi legislativi. Noi stiamo invece continuando a sovrapporre, a stratificare norme legislative, contravvenendo all’indicazione che ci viene dal Decalogue for smart regulation del 12 novembre scorso emanato a Stoccolma dal Gruppo di alto livello dell’Unione europea. E non riesco a capire il motivo che induce la maggioranza, il relatore, il Governo a non riflettere con noi sulla questione pacatamente, senza faziosità. Qui – ripeto – è un problema puramente tecnico, di buona formulazione delle norme.
Vogliamo ridefinire il segreto professionale? Allora ridefiniamolo anche nel codice penale. Altrimenti ne nasce una contraddizione e una complicazione sul piano interpretativo che sarebbe invece del tutto evitabile.
Questo è il motivo per cui insistiamo nel votare a favore dei nostri emendamenti e, se non vengono accolti, contro l’articolo 5. (Applausi dei senatori Morando e Garavaglia Mariapia).
[…]
ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ICHINO (PD). Signora Presidente, abbiamo votato numerosi emendamenti di cui è stata prima firmataria la senatrice Poretti. Non abbiamo votato il suo emendamento 5.201 e non voteremo il 5.202 per due motivi molto semplici. In primo luogo, perché l’obbligo di segreto è sempre un obbligo di silenzio verso terzi; dunque, aggiungere l’espressione “verso terzi” sarebbe pleonastico. Inoltre, non esiste alcuna differenza tra obbligo di segreto e obbligo di riserbo; le due espressioni vogliono dire esattamente la stessa cosa; o quantomeno vi è fra di esse un rapporto di continenza, nel senso che il riserbo è contenuto nel comportamento rispettoso dell’obbligo di segreto.
Vedo semmai una contraddizione che non mi è stata spiegata dai colleghi della maggioranza tra il respingere gli emendamenti della senatrice Poretti, che vogliono introdurre questa specificazione ‑ il massimo riserbo e l’espressione “verso terzi” ‑ e il difendere poi queste due stesse espressioni, come fate voi, nel comma 2 dell’articolo 5. I casi sono due: o queste due espressioni hanno un senso aggiuntivo rispetto all’obbligo di segreto e allora vanno introdotte anche nel comma 1, oppure non hanno alcun significato aggiuntivo e allora non ha senso che voi le manteniate nel comma 2.
[…]
5. SULLA FORMULA DEL GIURAMENTO DEI NUOVI AVVOCATI
ICHINO (PD). Signora Presidente, la solennità del giuramento è data – come ha sottolineato adesso il collega Legnini – dalla sede in cui esso si svolge e dall’autorità che lo riceve. La formula del giuramento invece deve essere il più possibile concisa, incisiva e priva di fronzoli. Noi vorremmo che fin dal primo atto della professione del giovane, cioè il giuramento con cui egli entra nel foro, egli incominci a usare il linguaggio come deve essere usato da un giurista, cioè in modo rigoroso, preciso e senza orpelli.
Il giurista sa che un impegno che si assume ha il suo valore e lo mantiene indipendentemente dall’avverbio “rigorosamente” o “solennemente” che noi vogliamo aggiungerci. Nell’articolo 5 abbiamo votato il comma 1 che prevede che «L’avvocato è tenuto (…) alla rigorosa osservanza…»; il termine “rigorosa” non aggiunge nulla. Quando si è tenuti all’osservanza, è ovvio che questa deve essere rigorosa. Allo stesso modo l’impegno che assume il giovane non guadagna nulla con l’aggiungerci il fronzolo dell’avverbio “solennemente”. Invece quel fronzolo costituisce una verbosità di cui la professione forense deve imparare semmai a liberarsi.
Poiché quell’avverbio non aggiunge niente, con l’emendamento 7.201 vi propongo di toglierlo, perché anche dall’essenzialità del linguaggio del giurista dipende la solennità, ma quella vera, quella sostanziale, non quella fatta appunto di aggiunte inutili. Dalla concisione della formula non può che guadagnare la significatività della formula del giuramento.
Dal resoconto stenografico della seduta pomeridiana 12 maggio 2010
6. SULLE RESTRIZIONI IN MATERIA DI NUMERO E TIPO DI SPECIALIZZAZIONI DELL’ATTIVITA’ FORENSE
ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Senatore Ichino, per Regolamento può prendere la parola per dichiarazione di voto un senatore per Gruppo, e la collega Poretti è del suo stesso Gruppo. Seguendo però lo schema che mi è stato riferito essere stato seguito ieri dal collega Nania, le posso concedere la parola per tre minuti.
Ha quindi facoltà di parlare il senatore Ichino.
ICHINO (PD). Signor Presidente, mi occorre anche meno. Vorrei solo richiamare ai colleghi che appartengono a un partito chiamato “Popolo della Libertà” la differenza, almeno sul piano delle attività economiche, fra quello che è stato l’Ancien régime, quello precedente alla Rivoluzione francese, e un regime di libertà economica, quale quello inaugurato in Europa con la legge Le Chapelier del 1791. Il principio cardine della legge Le Chapelier è quello per cui nel mondo della produzione di beni e servizi tutto ciò che non è vietato è permesso e deve essere lasciata la massima libertà di svilupparsi nel mercato e nel tessuto produttivo anche alle produzioni nuove, alle produzioni che si collochino in contrasto con il modo tradizionale di svolgere un mestiere, una professione. L’innovazione richiede tale libertà; e condizione indispensabile per lo sviluppo dell’innovazione è la libertà di informazione.
Ora, ipotizziamo che un giovane avvocato, o un gruppo di giovani avvocati, si inventi una nuova specializzazione, un nuovo modo di proporre la propria competenza professionale. Con l’articolo 8 voi intendete vietare questa novità; intendete vietare che l’innovazione nel modo di proporsi possa avere corso nel mercato delle prestazioni forensi. Con ciò sostanzialmente ritornate all’Ancien régime. Non per niente questo è il regime che ha tutelato fino ad ora il vecchio modo, il modo tradizionale, di svolgere la professione. Ma in questo modo voi indebolite la professione dell’avvocato in Italia, le impedite di valersi del lievito di novità che agisce là dove è consentito operare fuori dagli schemi, anche degli schemi approvati da quella che altrimenti diventa la cupola di una “Gilda”, la testa di una corporazione, in questo caso il CNF. Riflettete: tornare all’Ancien régime significa legare le mani alla professione.
Per questo motivo il Gruppo del Partito Democratico voterà a favore dell’emendamento 8.200. (Applausi dei senatori Sangalli e Adamo).
[…]
7. SULLA QUESTIONE DEL CARATTERE ININTERROTTO DELL’ANZIANITÀ DI ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE COME REQUISITO PER LA SPECIALIZZAZIONE
ICHINO (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto, chiedendo di aggiungere la mia firma all’emendamento 8.210.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ICHINO (PD). Signor Presidente, credo che vada attirata l’attenzione dei colleghi sul fatto che la Corte di Giustizia europea ha ripetutamente sancito che, nel porre requisiti di anzianità continuativa e ininterrotta, ad esempio ai fini di promozioni automatiche, di itinerari di carriera e di altri benefici simili, si pone in essere una discriminazione indiretta nei confronti delle donne: è infatti noto che nell’attività lavorativa delle donne le interruzioni sono più frequenti rispetto a quella degli uomini, per ragioni fisiologiche pacificamente riconosciute: la maternità interrompe la carriera e l’attività lavorativa delle donne e non quella degli uomini.
L’emendamento 8.210, identico all’emendamento 8.211, mira a conformare la norma proposta dal disegno di legge a questa giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, evitando che la norma assuma il connotato di una discriminazione indiretta ai danni delle avvocate, le quali potrebbero avere complessivamente gli anni richiesti di anzianità nell’esercizio dell’attività, ma averli con delle interruzioni. Vi chiedo dunque di fare un’eccezione, per questa sola volta, alla regola che avete fin qui seguito del muro impermeabile, ermetico a qualsiasi osservazione che viene dall’opposizione, per considerare l’opportunità di evitare questa violazione del diritto comunitario.
[…]
ICHINO (PD). Domando di parlare.
PRESIDENTE. Poiché ha preso la parola la rappresentante del Governo [il sottosegretario alla Giustizia Alberti Casellati, n.d.r.], è possibile intervenire nuovamente. Prego, senatore Ichino.
ICHINO (PD). Signora Presidente, poiché il Governo ha avuto la cortesia di rispondere all’obiezione del senatore Rutelli, vorrei sapere se non vorrebbe rispondere anche all’obiezione che noi abbiamo mosso circa il requisito della continuità e del carattere ininterrotto dell’anzianità di esercizio della professione. Quest’ultimo – ripeto – è un requisito che la Corte di giustizia delle Comunità europee non ammette, e a cui la Corte stessa riconnette automaticamente un connotato indirettamente discriminatorio nei confronti delle donne.
Questo vale non solo per un termine di quattro anni, ma anche per un termine di un anno: la Corte non fa differenza. E, d’altra parte, non si vede il motivo, la ragion d’essere e l’interesse a cui risponde un requisito di questo genere, salvo quello di rendere l’accesso a una specializzazione o a una qualifica professionale più difficile a tutti i giovani e in particolare alle giovani avvocate. Non si capisce a pro di chi, se non a difesa dei vecchi.