IL “DECALOGO” DI STEFANO FASSINA PER LA POLITICA DEL LAVORO DEL PD

IL DOCUMENTO AZZERA L’ELABORAZIONE COMPIUTA DAI GRUPPI PD DI SENATO E CAMERA NELL’ULTIMO BIENNIO PER IL SUPERAMENTO DELL’APARTHEID FRA PROTETTI E NON PROTETTI NEL MERCATO DEL LAVORO: RESTA LA DISTINZIONE TRA I SUBORDINATI REGOLARI, DEL CUI SISTEMA DI PROTEZIONE NON CAMBIA UNA VIRGOLA, E GLI ALTRI, CUI VIENE ESTESA SOLTANTO QUALCHE PROTEZIONE, MA CHE RESTANO ESCLUSI DALL’APPLICAZIONE DELLA MAGGIOR PARTE DEL DIRITTO DEL LAVORO 

Bozza di documento sulla politica del lavoro proposta da Stefano Fassina, responsabile nazionale dell’economia, per l’Assemblea programmatica del Pd del 21 e 22 maggio 2010 – Il documento è introdotto da una mia nota critica

NOTA CRITICA – UN “DIRITTO DEL LAVORO UNICO” PER I SOLI “SUBORDINATI” TRADIZIONALI O PER TUTTI I LAVORATORI IN POSIZIONE DI DIPENDENZA ECONOMICA?
   Nel decalogo di Stefano Fassina considero positivamente diversi punti, maturati nell’ultimo biennio di elaborazione collettiva in seno al Pd. Mi sembra però che esso compia un passo indietro su di un capitolo rilevantissimo: quello del superamento del regime di apartheid che oggi nel nostro mercato del lavoro divide i protetti dai non protetti. Fassina parla di un “diritto del lavoro unico”; ma quello che egli propone è un diritto del lavoro che continua ad applicarsi soltanto al lavoro subordinato tradizionalmente inteso, lasciando fuori milioni di persone – in prevalenza giovani – in posizione di sostanziale “dipendenza economica” dall’impresa per cui lavorano.
   Il dibattito in seno ai gruppi Pd di Senato e Camera sul modo migliore per superare questo dualismo del nostro mercato del lavoro, nei primi due anni  di quest’ultima legislatura, ha portato alla presentazione di quattro progetti di legge (
Ichino e Nerozzi al Senato, Madia e Bobba alla Camera) centrati su due scelte fondamentali che  li accomunano: a) la scelta di individuare la nozione di “lavoro in posizione di dipendenza economica”: una nozione assai più ampia rispetto a quella di lavoro subordinato, perché ricomprende anche (e in modo molto semplice e immediato) gran parte delle collaborazioni continuative, dei “lavori a progetto”, dei lavori “a partita Iva” in condizioni di monocommittenza, dei rapporti di “lavoro in partecipazione” e di altri tipi legali oggi largamente utilizzati in funzione di elusione del diritto del lavoro; b) la scelta di delineare un nuovo diritto del lavoro destinato ad applicarsi, per i rapporti che si costituiranno d’ora in poi, non più soltanto nell’area del lavoro subordinato, ma in tutta l’area del lavoro “economicamente dipendente”. Ciascuno dei quattro progetti di legge, dunque, delinea davvero un “diritto del lavoro unico”, destinato a una applicazione universale.
   Questo è il rilevantissimo punto di arrivo del dibattito interno al Pd, rispetto al quale mi sembra che il “decalogo” di Stefano Fassina segni un passo indietro: esso infatti propone un diritto del lavoro che, per la sua parte più rilevante, continuerà ad applicarsi soltanto nell’area del lavoro subordinato tradizionale, lasciando fuori tutte le forme di lavoro “economicamente dipendente”. Le sole nuove norme che dovrebbero applicarsi in questa area sono quelle – entrambe condivisibilissime – relative al salario minimo e alla parificazione della contribuzione previdenziale; ma rimarrebbe non applicabile tutto il resto del diritto del lavoro (orari, malattia, permessi, ecc.) e in particolare la disciplina della continuità del rapporto e del licenziamento.
  
La spiegazione di questo passo indietro non è difficile. Individuare un campo di applicazione del diritto del lavoro molto più ampio di quello attuale, cioè quello che comprende tutto il lavoro “economicamente dipendente”, impone di chiedersi, per ciascuna parte del diritto del lavoro stesso, se essa sia realisticamente applicabile in tutta questa area. E se non la si ritiene applicabile a un co.co.co. o a un lavoratore a progetto, occorre spiegare perché la si ritiene invece applicabile a un lavoratore (riconosciuto come) subordinato. È un vaglio non facile; ma di qui si deve passare se si vuole davvero superare il regime attuale di apartheid.
   Per superare l’
apartheid, a differenza di quel che pensa Fassina, non è affatto sufficiente pareggiare i livelli retributivi e contributivi minimi: così facendo si lasciano sopravvivere enormi differenze di disciplina in materia di orari di lavoro, malattia del lavoratore, altre cause soggettive od oggettive di sospensione della prestazione, e – soprattutto – in materia di licenziamento. Finché queste enormi differenze rimarranno, rimarrà anche un rilevantissimo incentivo per le imprese a mantenere i nuovi assunti fuori dall’area di applicazione del diritto del lavoro: un incentivo assai più potente di quanto non sia la differenza dell’aliquota di contribuzione previdenziale, che ormai si è ridotta al 5 per cento della retribuzione lorda.
   Osservo, infine, che aumentare la contribuzione previdenziale per gli iscritti alla Gestione separata dell’Inps senza distinguere tra i lavoratori assimilabili ai subordinati e quelli assimilabili ai liberi professionisti o agli artigiani, significa compiere, in riferimento a questi ultimi, l’operazione opposta a quella che sarebbe necessaria (perché per questi ultimi il fatturato è molto più alto rispetto al reddito di lavoro effettivo).
   Il Pd, se si propone davvero superare l’
apartheid
, non può esimersi dall’affrontare le due questioni che la vecchia sinistra finora ha rifiutato di affrontare (e che anche il “decalogo” di Fassina elude): 1. quale possa essere il criterio universale di distinzione tra lavoro economicamente dipendente e lavoro libero-professionale e 2. quale possa essere davvero un “diritto del lavoro unico” realisticamente applicabile in ogni sua parte all’intera l’area del lavoro economicamente dipendente.  (p.i.)

 

IL DOCUMENTO DI STEFANO FASSINA: “SVILUPPO, LAVORO, WELFARE: IL DECALOGO DEL PD PER IL ‘DIRITTO UNICO’ DEL LAVORO”
Due problemi fondamentali attanagliano il lavoro italiano: la precarietà ed il bassissimo tasso di occupazione delle donne e dei giovani, in modo drammatico nel Mezzogiorno.  La profonda crisi in corso ha pesantemente aggravato i nostri mali storici: quasi 700.000 occupati in meno da Aprile 2008 e quasi un milione di lavoratori a reddito tagliato dalla collocazione in cassa integrazione nel 2009. Soffrono, in particolare, i giovani per i quali il tasso di disoccupazione si è impennato di oltre 7 punti percentuali (dal 20,5% del Febbraio ’08, al 28% del Gennaio scorso) e per i quali sono spesso assenti sostegni al reddito (circa 300.000 disoccupati provenienti da contratti di collaborazione e simili sono senza alcun sostegno al reddito).  Il tasso di occupazione è caduto di quasi 3 punti negli ultimi 18 mesi (dal 59% al 56%). Diventa sempre più intensa la rassegnazione di quanti, soprattutto giovani e donne, soprattutto al Sud, non trovano lavoro e smettono di cercarlo. Le previsioni per il 2010 indicano ulteriore aumento della disoccupazione. Alle storiche categorie “escluse” dal mercato del lavoro, si sono aggiunti negli ultimi mesi anche gli ultracinquantenni di tutte le qualifiche.
Inoltre, siamo di fronte ad un mercato del lavoro partecipato da italiani e “nuovi italiani”. I lavoratori e le lavoratrici migranti sono diventati una componente strutturale della nostra società. Oltre 4 milioni di persone, di giovani, di bambini. La transizione demografica in corso in Italia più che altrove e la crescente domanda di servizi alla persona richiedono la presenza strutturale di immigrati. Le politiche di integrazione degli immigrati sono politiche per la crescita.
Oggi, tra i problemi prioritari, oltre alla precarietà e all’assenza di lavoro, si inserisce l’insicurezza di quanti hanno il lavoro a tempo indeterminato, ma hanno perso, sul terreno economico, la prospettiva di stabilità, nonostante le “forti” garanzie giuridiche godute: i 150 tavoli di crisi aperti al Ministero dello Sviluppo per affrontare il futuro di aziende medie e grandi sono esempi chiari dell’insicurezza dei cosiddetti “garantiti”. Infine, sofferenze sempre più acute colpiscono tanti lavoratori e lavoratrici migranti, in particolare nell’agricoltura. Non è solo conseguenza della crisi, dipende anche dalla patologica politica del Governo Berlusconi nella regolazione degli accessi e delle permanenze.
Le condizioni del lavoro sono connesse con le situazioni di disagio sociale e di povertà, in particolare estrema e minorile. Nel 2008, il 5% della popolazione residente in Italia era in condizioni di povertà assoluta. Le famiglie in condizione di povertà relativa sono 2.737.000 e rappresentano l’11,3% del totale, mentre gli individui poveri sono oltre 8 milioni, pari al 13,6 della popolazione. Sono dati tra i peggiori di Europa. In particolare, soffrono le famiglie con figli minori.
Nell’ultimo quarto di secolo, si sono prodotti cambiamenti epocali a livello mondiale e anche il lavoro è cambiato in tutta l’area dei Paesi più sviluppati. Tenere conto delle diversità, spesso subite, qualche volta scelte, delle condizioni del lavoro e riconoscere la molteplicità dei rapporti tra tempi di vita e tempi di lavoro per valorizzarle vuol dire superare i tanti dualismi del mercato del lavoro e del tessuto produttivo. Alcuni Paesi additati in questi anni a modello di performance economica (Stati Uniti, Regno Unito, Irlanda, Spagna), caratterizzati dalla liberalizzazione estrema del mercato del lavoro, hanno conosciuto ritmi di crescita intensi grazie, soprattutto, a politiche macroeconomiche espansive, ossia al colossale indebitamento delle famiglie, compensando col debito privato le difficoltà della domanda interna derivanti dalla crescente precarietà delle condizioni e dei redditi da lavoro. La drammatica crisi in corso è stata innanzitutto conseguenza della svalutazione del lavoro e dell’insostenibilità della crescita a debito.
Per contro, altri paesi (Svezia, Danimarca in prima fila), caratterizzati da politiche coraggiose di ricomposizione delle diversità del mercato del lavoro attorno a valori e principi comuni e da strategie di crescita di qualità (dagli investimenti in R&S ed in infrastrutture, alla regolazione concorrenziale dei mercati, alla qualità delle pubbliche amministrazioni, al sistema fiscale, ecc) hanno conosciuto dinamiche di espansione sostenute e stabili nella produzione e nell’occupazione.
In sintesi, la regolazione del mercato del lavoro non è variabile indipendente. I mercati globali, le caratteristiche del paradigma tecnologico diffuso e la “forza” del consumatore richiedono flessibilità nelle unità produttive. Tuttavia, il punto è, in particolare in Italia, l’utilizzo delle forme contrattuali precarie per la riduzione del costo del lavoro. Un utilizzo improprio che ha disincentivato, in tanti casi, l’investimento delle imprese in innovazione e l’innalzamento della produttività.
Per combattere la precarietà e per innalzare il tasso di attività femminile e giovanile, in primo luogo nel Mezzogiorno, per far salire le retribuzioni, per contrastare la povertà è decisiva la crescita economica. Infatti, le condizioni del mercato del lavoro dipendono innanzitutto e soprattutto dalle crescita economica. Per migliorare le condizioni del mercato del lavoro, l’Italia deve tornare a crescere. Per crescere deve intervenire, sulla produttività totale dei fattori e sulla produttività del capitale, in particolare nei servizi pubblici e privati, servizi alle imprese e alla persona, secondo i principi della sussidiarietà. Per crescere deve disegnare una coerente politica industriale. Soprattutto, deve riformare la scuola, l’università ed il welfare, investire in ricerca ed innovazione, i veri motori della crescita sostenibile in termini sociali ed ambientali.
Per sconfiggere la precarietà del lavoro, la variabile decisiva è la convenienza economica, non la convenienza giuridica dei contratti precari, ossia l’assenza di vincoli alla conclusione del rapporto di lavoro. I dati disponibili indicano, infatti, che i rapporti di lavoro precari sono concentrati (circa il 20% degli occupati) nelle imprese con meno di 9 occupati, “libere” dai vincoli dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, mentre diminuiscono al crescere della dimensione occupazionale dell’impresa. Insomma, la precarietà si è diffusa in quanto i contratti precari costano al datore di lavoro, in termini di contribuzione sociale e di retribuzione o compenso (definiti al di fuori dei contratti nazionali di lavoro ed in assenza di una legge sul salario minimo), molto meno dei contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato. In un Paese abituato a competere drogato dalle svalutazioni della Lira, l’avvento dell’euro, i ritardi nelle riforme strutturali e nella politica industriale e gli scarsi investimenti in R&S [ricerca e sviluppo – n.d.r.] da parte delle imprese sono stati in parte compensati dall’abbattimento del costo del lavoro mediante i contratti precari e la stagnazione delle retribuzioni dei lavoratori a tempo indeterminato.
La politica del lavoro del Governo dall’inizio della legislatura ha aumentato la precarietà e penalizzato, in particolare, i giovani e le donne. Le misure introdotte dal Ministro Sacconi, da ultimo nel “Collegato lavoro” rinviato dal Presidente Napolitano alle Camere, tendono a far regredire il livello minimo condiviso ed universale di tutele, diritti e retribuzione dei lavoratori e delle lavoratrici ed a corporativizzare sul piano territoriale e settoriale i nuclei più forti di lavoratori.¦lt;br /> La strategia del PD per il “diritto unico” del lavoro. Il PD è “il partito del lavoro”, “fondato sul lavoro”. Per il PD, il nesso tra diritti di cittadinanza e diritti sociali e del lavoro è indissolubile. Il lavoro è fonte di identità della persona umana e, al tempo stesso, come indicato all’art 1 della nostra Costituzione, fonte di cittadinanza democratica. Il PD intende rappresentare il lavoro “in tutte le sue forme”, dal lavoro (relativamente) stabile a tempo indeterminato, al lavoro precario e parasubordinato, dal lavoro degli artigiani a quello autonomo e professionale, dal lavoro nell’impresa al lavoro dell’impresa.
Innalzare il potenziale di crescita dell’economia italiana è condizione necessaria per migliorare le condizioni del lavoro, aumentare il tasso di occupazione e l’inclusione sociale e combattere la povertà. Nella fase in corso, è decisivo rilanciare la domanda effettiva in Europa e nella nostra economia.
Il circolo virtuoso della crescita va riavviato, innanzitutto, nell’Unione Europea e nell’area dell’euro, attraverso la costruzione di una governance economica comune adeguata ad aggredire gli squilibri esistenti in termini non solo di disavanzi pubblici, ma anche di avanzi (Germania, Olanda) e disavanzi (Grecia, Spagna, Portogallo) delle bilance correnti, ossia gli squilibri dei potenziali di crescita dei Paesi euro. A tal fine, è decisivo attuare un Piano Europeo per il Lavoro, finanziato con eurobonds.
Sul versante “interno”, l’Italia deve qualificare la crescita. Dobbiamo inscrivere le riforme del welfare e della regolazione dei rapporti di lavoro dentro una più generale strategia “alta” di crescita dell’Italia. Insomma, non è sostenibile una proposta radicalmente alternativa alla strategia del Ministro Sacconi sul mercato del lavoro senza una strategia radicalmente alternativa per il futuro dell’Italia.
Per promuovere crescita e lavoro, oltre al piano della politica macro-economica nazionale ed europea, sono necessarie riforme del welfare, investimenti pubblici e privati nell’innovazione, nella ricerca, nella scuola e nell’università, investimenti nelle infrastrutture per la green economy e green society, liberalizzazione dei mercati dei servizi alle persone e alle imprese, riorganizzazione del fisco, riforme delle pubbliche amministrazioni, in particolare della giustizia civile, riforme della rappresentanza politica, economica e sociale e dell’efficienza delle istituzioni democratiche e, non ultimo in termini di rilevanza per la crescita economica, innalzamento del capitale sociale, della legalità e del civismo.
Per la ricomposizione del mondo del lavoro, non solo delle sue tutele, ma anche delle sue opportunità, nel riconoscimento delle specificità delle attività lavorative e delle oggettive esigenze di flessibilità e di competitività delle imprese, non vi solo soluzioni semplici. L’unificazione dei contratti di lavoro è un obiettivo da collocare in un quadro di elevata e consolidata dinamica della produttività, condizione necessaria a compensare il connesso aumento di costo per l’impresa. Oggi, data la difficile fase dell’economia europea, considerata l’anemia della produttività italiana e l’aumento strutturale della disoccupazione, è necessario attivare un ventaglio di interventi per superare il mercato del lavoro duale.
La strategia del Pd per promuovere il “diritto unico” del lavoro, si articola lungo alcuni principi di fondo: la migliore flex-security europea; l’universalità dei diritti fondamentali di cittadinanza, in particolare il welfare orientato a promuovere il benessere di tutto il nucleo famigliare, anche attraverso misure di conciliazione lavoro-famiglia. I capisaldi della strategia del Pd, da portare avanti in modo graduale al fine di evitare ogni onere aggiuntivo per la finanza pubblica, sono i seguenti:

1. incentivazione del contratto a tempo indeterminato, definito dall’UE “forma normale del rapporto di lavoro”, attraverso il minor costo della stabilità rispetto alla precarietà. In particolare:

a.       graduale convergenza degli oneri sociali complessivi sul lavoro intorno ad un livello intermedio tra quanto oggi versato per i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e per i lavoratori impigliati in contratti low cost (misura da considerare come primo tassello di una complessiva riforma del sistema fiscale per alleggerire il carico sui redditi da lavoro ed impresa);

b.      maggiorazione degli oneri contributivi per indennità di disoccupazione e indennità di fine rapporto sui contratti a tempo determinato e sui contratti precari al fine di internalizzare nelle imprese il costo della flessibilità scaricato su lavoratori e fiscalità generale;

c.       introduzione di un salario o compenso minimo, determinato in riferimento agli accordi tra le parti sociali, per i lavoratori e le lavoratrici escluse dai contratti collettivi nazionali di lavoro, per i contratti a progetto, partite Iva, stage;

d.      eliminazione del contratto di lavoro accessorio e dell’associazione in partecipazione con solo apporto di lavoro; delimitazione degli spazi di applicazione dei contratti a progetto, dei contratti a chiamata, dello staff leasing, del voucher;

e.       restrizione della durata complessiva e delle causali dei contratti a tempo determinato ed introduzione di “tetti” in ogni azienda per la quota, sul totale degli occupati, di lavoratori e lavoratrici occupati con contratto a tempo determinato;

f.       incentivazione fiscale e contributiva alla stabilità legata alla effettiva formazione (vedi punto 8);

2. graduale introduzione di una base di “diritti di cittadinanza” per tutte le forme di lavoro, comprese le imprese individuali (vedi punto 7), in materia di garanzia del reddito, malattia, infortuni, riposo psicofisico, maternità; in particolare, universalizzazione dell’indennità di disoccupazione, anche nei confronti del lavoro autonomo e professionale, saldamente ancorata alla formazione e a politiche attive per il lavoro; introduzione di un’indennità di disoccupazione means tested (a carico della fiscalità generale, in coda all’indennità assicurativa); riforma in senso universalistico delle CIG anche al fine di consentire la ricollocazione dei lavoratori in relazione alla riorganizzazione dell’apparato produttivo ed eliminazione dell’indennità di mobilità; potenziamento degli incentivi fiscali per i contratti di solidarietà;

3. integrazione delle pensioni delle future generazioni di lavoratori e lavoratrici attraverso una quota a carico della fiscalità generale, determinata in relazione alla contribuzione versata; posticipazione del limite minimo e massimo per la scelta dell’età di pensionamento e allineamento di tali limiti per uomini e donne;

4.  introduzione di un reddito minimo di inserimento sul modello del “Reddito di Solidarietà Attiva” per combattere la povertà e l’esclusione sociale, in particolare la povertà estrema e minorile;

5. trasformazione dell’indennità di maternità in diritto di cittadinanza e relativo finanziamento a carico della fiscalità generale; per incentivare l’occupazione femminile, introduzione di una detrazione fiscale per il reddito da lavoro delle donne in nuclei famigliari con figli minori; superamento degli assegni famigliari e della detrazione per figli a carico ed introduzione di un bonus famiglia di 3000 euro all’anno per ogni figlio, a cominciare dalla fascia 0-3 anni, esteso anche ai lavoratori autonomi e professionisti; introduzione del part-time agevolato e volontario, innalzamento dell’indennità per i congedi parentali, incentivazione del rientro al lavoro delle donne ultra-quarantenni; potenziamento, secondo i principi della sussidiarietà, dei servizi alla famiglia (dagli asili nido all’assistenza agli anziani non-autosufficienti); avvio del “Conto personale di cittadinanza”, forma di risparmio agevolata per favorire l’autonomia ed il lavoro dei giovani;

6. rafforzamento delle misure legislative ed amministrative (incluse le risorse finanziare ed umane per i controlli) per il contrasto al lavoro nero e per il miglioramento della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro, con particolare attenzione al lavoro degli immigrati anche attraverso il recepimento della direttiva europea che prevede sanzioni per i datori di lavoro che impiegano cittadini di paese terzi il cui soggiorno è irregolare; revisione della normativa sull’immigrazione per promuovere l’ingresso regolare per lavoro creando canali d’ingresso legali dal datore di lavoro al lavoratore e viceversa. Nell’immediato, prolungamento del permesso di soggiorno per i lavoratori migranti disoccupati entrati in modo regolare;

7. introduzione dello Statuto dei Lavoratori Autonomi e dei Professionisti per definire un denominatore di tutele e di incentivi rispondente alle esigenze comuni di artigiani, commercianti, professionisti;

8. riforma del contratto di apprendistato per incentivare formazione effettiva ed adeguata ai fabbisogni delle imprese ed allungamento del “periodo di prova” in rapporto alla natura delle mansioni assegnate; introduzione del diritto alla formazione permanente come diritto soggettivo nella società della conoscenza;

9. potenziamento delle politiche attive per il lavoro, quindi integrazione delle politiche sociali e del lavoro con le politiche della formazione per favorire l’inserimento lavorativo dei soggetti in difficoltà; valorizzazione e potenziamento dei Servizi per l’impiego in ottica di complementarietà tra pubblico e privato in un quadro regolativo di controllo pubblico;

10. approvazione, in relazione all’accordo interconfederale tra le parti sociali, di una legge quadro per la democrazia sindacale per disciplinare rappresentanza, rappresentatività e validazione dei contratti, condizione necessaria, tra l’altro, per ridefinire la regolazione democratica del diritto di sciopero nei trasporti, impossibile per delega legislativa.

 

 

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