RIFORMA DELL’AVVOCATURA: LE REPLICHE DI GIUGGIOLI E DOMINIONI

SECONDO IL PRESIDENTE DELL’ORDINE DI MILANO, “IL CONTROLLO SUGLI AVVOCATI È QUOTIDIANAMENTE E CAPILLARMENTE EFFETTUATO” DALL’ORDINE STESSO, E LA RIFORMA ALL’ESAME DEL SENATO VA BENE – VA BENE ANCHE PER IL PRESIDENTE DELL’UNIONE CAMERE PENALI

La replica di Paolo Giuggioli, Presidente dell’Ordine degli Avvocati, e quella di Oreste Dominioni, Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, al mio articolo del 3 maggio, pubblicate, sul sito del Corriere della Sera, il 7 maggio 2010 – Segue la mia risposta a entrambi

DAL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DELL’ORDINE DI MILANO
Caro Direttore,
mi sia consentita una replica all’intervento di Pietro Ichino pubblicato sul Corriere di lunedì 3 maggio scorso con il titolo «Nuove regole per gli avvocati. Chi difende i clienti dai difensori?». Non mi pare, in primo luogo, corretta la premessa con cui apre Ichino e, cioè, l’etichetta applicata al disegno di riforma dell’ordinamento forense in discussione al Senato, presentato come “dedicato alla promozione degli interessi economici di chi già appartiene al ceto forense”. Esso nasce, in realtà, dalla preoccupazione per il futuro della professione che, a causa della crescita ormai fuori controllo degli iscritti, dell’inadeguatezza delle modalità d’accesso e di selezione e, perché no, della ridotta incisività della vigilanza da parte degli Ordini, rischia di non essere più in grado di svolgere la funzione che l’ordinamento le attribuisce.
Il fatto che tale preoccupazione sia stata espressa con forza dagli organismi istituzionali e associativi dell’Avvocatura e che il disegno di legge in questione abbia avuto origine, come impulso iniziale, dall’iniziativa dai medesimi soggetti, non può essere acriticamente inquadrato nella categoria delle azioni corporative. I precitati problemi sono stati oggetto di una nostra costante denuncia e, se non risolti presto, determineranno una degenerazione che ricadrà inevitabilmente non tanto su chi oggi ha una carriera ben avviata, ma sui giovani e su chi entrerà nella professione nei prossimi decenni. Il conflitto d’interessi che, secondo Ichino, la riforma in discussione “non affronta neanche di striscio”, viene ricondotto dallo stesso Ichino alla cosiddetta “asimmetria informativa” che, non certo per colpa dei professionisti, sta nella realtà delle cose. Anzi, proprio a tutela del cittadino, impossibilitato per la mancanza di specifiche cognizioni ad affrontare da solo determinate situazioni o decisioni (malattie, interventi medici, cause in tribunale, progettazioni, ecc.), la legge ha stabilito che egli debba potersi rivolgere a un professionista abilitato a esercitare con l’esame di Stato, come tale iscritto a un albo, tenuto all’osservanza di precise regole deontologiche e sottoposto al controllo e al potere sanzionatorio dell’Ordine di appartenenza. Devo, quindi, sottolineare che, per quanto concerne l’Avvocatura, nonostante le difficoltà dovute al numero degli iscritti e a norme ormai obsolete (siamo noi i primi a sostenerne la riforma), il controllo sugli avvocati è quotidianamente e capillarmente effettuato sul territorio nazionale; il cittadino può così rivolgersi all’Ordine per ottenere il sanzionamento del professionista infedele, incapace, disonesto e – comunque – può sempre adire l’autorità giudiziaria laddove ritenga di essere stato leso nei suoi diritti.
Per contro risulta evidente che il supposto conflitto d’interessi non si risolve, come propone Ichino, con l’introduzione di una second opinion, oltretutto lesiva dell’autonomia del giudizio tecnico di cui si rende responsabile l’avvocato. Se, infatti, si ammettesse la sussistenza di un conflitto d’interessi in capo all’avvocato cui ci si è rivolti, non si capisce perché un analogo conflitto non dovrebbe ripresentarsi con il secondo cui si richiede una seconda valutazione. Tanto meno è realistico pensare alla creazione di una sovrastruttura che si interponga tra cliente e avvocato e che – attraverso l’intervento anche di soggetti esterni al sistema ordinistico, i magistrati – effettui un controllo sull’operato del professionista. Si tratta di una proposta efficace dal punto di vista “mediatico”, ma irrealizzabile in concreto: cosa succede se il parere di questo organismo dovesse contrastare con quanto espresso dal legale che assiste il cittadino? Che oggettività può avere tale parere di fronte alla complessità e all’aleatorietà delle circostanze nelle quali normalmente noi avvocati siamo costretti a operare? Quanti avvocati e magistrati dovrebbero essere reclutati per esempio a Milano, dove gli iscritti all’albo sono oltre 15.000, affinché possa essere reso un parere di merito sulle innumerevoli questioni riferite alle più disparate materie che potrebbero essere portate dai cittadini? Mi pare senza dubbio più efficace e convincente la risposta che si è cercato di dare con la riforma all’esame dell’assemblea del senato, che interviene sulle regole del procedimento disciplinare, potenziando la composizione degli ordini in rapporto al numero di iscritti e assicurando maggiore terzietà sia alla fase istruttoria, affidata a un consiglio istruttore estraneo ai consigli dell’ordine, sia alla fase decisionale, nella quale intervengono in maggioranza componenti di consigli dell’ordine diversi da quello cui appartiene l’avvocato sottoposto a giudizio. Inoltre, viene concesso all’autore dell’esposto la facoltà di una richiesta motivata di impugnazione della eventuale decisione di proscioglimento dell’avvocato.
Paolo Giuggioli
Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano

DAL PRESIDENTE DELL’UNIONE DELLE CAMERE PENALI ITALIANE
Caro Direttore,
scrivo in risposta alla lettera del prof. Ichino pubblicata sul vostro giornale lunedì scorso. Il Professore ha molte ragioni nel sostenere che va posto il problema della tutela del cliente dall’avvocato incompetente o peggio dall’avvocato cialtrone. Ma le soluzioni proposte sono davvero poco persuasive. Non basta certo (anzi sarebbe foriero di maggiori guasti) prevedere una sorta di second opinion da parte di altro avvocato (e chi garantisce che la second opinon sia poi più attendibile o il secondo avvocato non sia lui il cialtrone di turno pronto ad accaparrarsi il cliente?) o la creazione di organismi di controllo in progress dell’operato del difensore (con la presenza di un magistrato, poi, davvero non è concepibile) Non si può, lo diciamo senza timore di essere tacciati di corporativismo, non comprendere come le ragioni dell’attuale crisi dell’avvocatura vadano individuate nel sistema (assai poco meritocratico) di accesso e nella mancanza di controlli di professionalità per la permanenza negli albi (troppi avvocati moltiplicano i guasti del sistema e fanno perdere credibilità all’intera categoria forense: lo aveva denunciato già agli inizi degli anni venti Piero Calamandrei in un suo saggio noto appunto come «Troppi avvocati»).
Occorre recuperare una adeguata qualificazione professionale dell’avvocato, qualificazione che è garanzia per il cliente ed il cittadino ed è garanzia per la legalità ed il rispetto le regole in un giusto processo. La proposta di riforma dell’ordinamento forense oggi all’esame del Senato è in grado, a nostro avviso, di coniugare entrambe queste esigenze. In particolare, le Camere Penali ritengono che solo attraverso un miglior rigore nell’accesso, la specializzazione e la formazione continua obbligatoria si consentirà all’avvocatura di essere all’altezza delle sfide poste dall’attuale crisi, con professionisti in grado di offrire al cliente, in modo trasparente, prestazioni adeguate e qualificate. Purtroppo, in nome di una mal coniugata idea di liberalizzazione, si sono schierati contro la riforma della professione forense attualmente in esame, non solo i c.d. poteri forti (banche, assicurazioni, industriali) e le lobby che li rappresentano, ma anche settori, molto trasversali, della politica. E va registrata la contraddittorietà – o meglio la schizofrenia – di una posizione che da un lato si presenta come ostile ad ogni forma di rigore nell’accesso e nella permanenza, solleva dubbi sulla specializzazione, si scandalizza dei minimi tariffari richiamandosi ai principi del libero mercato e della concorrenza, dall’altro invoca originali e stravaganti tutele per il consumatore/cliente. Vi è chi continua a sostenere che l’avvocatura, con oltre 200.000 iscritti, sia un settore privo di dinamiche concorrenziali.
Il Prof. Ichino è studioso troppo attento per non sapere che non esistono soluzioni fuori dalla riqualificazione culturale e professionale della categoria che passi dal rigore nelle pratiche per l’accesso alla professione, dal potenziamento dei controlli dei Consigli dell’Ordine sui requisiti per la permanenza, dalla formazione continua e dalla specializzazione. In servizi che investono settori molto delicati, nonchè diritti ed interessi che trovano tutela costituzionale (il diritto di difesa, la libertà personale, la tutela giurisdizionale dei diritti etc.), le soluzioni non possono fornirle ” il mercato e le sue regole” in quanto tali, ma un assetto ed una regolamentazione della professione forense che sia in grado da una parte di fornire professionisti adeguati, preparati, responsabili e corretti, dall’altro che sia in grado di avere, in un sistema interno di regole severe, gli anticorpi necessari a eliminare disonesti e cialtroni ed a ridurre i rischi dell’inadeguatezza: il mercato, così regolato, farà il resto.
Oreste Dominioni
Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane

LA MIA RISPOSTA E UNA DOMANDA AI COLLEGHI GIUGGIOLI E DOMINIONI
Nel mio articolo non ho sostenuto che la situazione di conflitto di interessi costituisca la regola, nel rapporto tra avvocato e cliente. Né ho sostenuto che essa costituisca una peculiarità della professione forense: al contrario, ho osservato che essa può presentarsi in qualsiasi rapporto di consulenza professionale. E ho sottolineato come l’onestà del professionista – dell’avvocato in particolare – costituisca la migliore garanzia per il cliente nella grande maggioranza dei casi. Tuttavia, come in tutte le categorie, anche in quella degli avvocati si presenta ogni tanto il caso del professionista disonesto (o di quello incompetente). La questione è solo questa: riteniamo adeguata l’assistenza che oggi l’Ordine professionale offre al cliente che incappi in una di queste situazioni, o anche soltanto abbia il dubbio di esservi incappato? A me sembra che si possa e si debba fare di più. Non sono d’accordo con il Presidente delle Camere Penali quando afferma che la second opinion non può essere utile (certo, può non essere risolutiva; ma nella maggior parte dei casi può fornire al cliente dubbioso un’informazione aggiuntiva preziosa).
Né sono d’accordo con il Presidente del Consiglio dell’Ordine di Milano, quando sottolinea l’impossibilità per l’Ordine di predisporre un servizio di consulenza sulle”innumerevoli questioni riferite alle più disparate materie che potrebbero essere portate dai cittadini”: il servizio dovrebbe essere limitato ai casi in cui un cliente ha un dubbio sull’onestà o sulla competenza del proprio legale.
Qui io pongo ai colleghi Giuggioli e Dominioni una domanda (anzi due):
   –
 se i casi di questo genere sono pochi, che cosa impedisce all’Ordine di offrire assistenza al cliente preoccupato?
   – se invece i casi di questo genere sono molti, non è forse proprio questo un motivo che dovrebbe indurre l’Ordine ad attivarsi con urgenza, chiedendo ai migliori e più disponibili tra i propri iscritti un servizio volontario (che potrebbe essere garantito mediante turni di un paio d’ore alla settimana)? non  sarebbe questa una garanzia che aumenterebbe notevolmente il prestigio del ceto forense e l’affidamento che in esso può riporre la collettività?�
A me sembra che dovremmo essere noi avvocati a chiedere questo per primi. Insieme a tante altre cose, certo; ma perché il disegno di legge in discussione al Senato non dovrebbe parlare anche di questo?   (p.i.)

 

 

 

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