OLTRE ALLA TRATTAZIONE DELLE CAUSE IN MODO SEQUENZIALE, INVECE CHE “IN PARALLELO”, ANCHE UN MIGLIORE GOVERNO DELLA MOBILITA’ DEI MAGISTRATI CONSENTIREBBE RIDUZIONI SIGNIFICATIVE NELLA DURATA MEDIA DEI PROCEDIMENTI: UN TERRENO SUL QUALE DOVRA’ CIMENTARSI IL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, CHE E’ PROSSIMO AL RINNOVO
Articolo di Andrea Ichino pubblicato sul Sole 24 Ore del 30 aprile 2010
Nel mezzo di discussioni accese sui massimi sistemi per riformare la giustizia italiana, può essere utile soffermarsi anche su quei problemi tecnici urgenti le cui soluzioni avrebbero effetti positivi sensibili senza scatenare (almeno in un paese normale) contrapposizioni ideologiche “muro contro muro”. Uno di questi problemi è il ritardo nei tempi della giustizia generato dai trasferimenti dei magistrati tra gli uffici. La durata dei processi che nella loro vita sono riassegnati a un giudice diverso da quello iniziale si allunga notevolmente fino a raddoppiare in alcuni tribunali italiani. È un dato che emerge dagli studi condotti insieme a Decio Coviello (università di Tor Vergata) e Nicola Persico (New York University). Quale azienda potrebbe permettersi che il trasferimento di un suo dipendente comporti ritardi di questa entità nei tempi di completamento dei compiti a lui affidati? L’effetto dei trasferimenti non ci sembra sia mai stato menzionato nell’acceso dibattito sul che cosa fare per ridurre l’abnorme durata dei processi in Italia. Eppure, una gestione migliore della mobilità dei giudici potrebbe arrivare a dimezzare il problema in modo molto più efficace e politicamente accettabile di altre proposte sul tappeto. Questa dovrebbe essere una priorità del nuovo Csm che tra breve i magistrati eleggeranno.
Ogni giudice italiano ha diritto a chiedere un trasferimento ogni tre anni. È ragionevole ipotizzare che questo “gioco delle sedie” abbia effetti tanto più indesiderabili quanto maggiore è il numero di giudici trasferiti ogni anno, quanto maggiore è il tempo necessario al giudice subentrante per chiudere ogni singolo processo rispetto al tempo che avrebbe impiegato il giudice originario e quanto maggiore è il carico pendente di ciascun magistrato trasferito. Per limitare i danni è quindi necessario agire su ciascuno di questi tre fronti.
Incominciando dall’ultimo, i nostri studi suggeriscono che una riduzione del carico pendente a parità di carico di lavoro complessivo si otterrebbe con un modo diverso di lavorare dei singoli giudici. Lavorando in modo sequenziale, ossia tenendo “meno pentole contemporaneamente sul fuoco”, la durata media di tutti i processi si ridurrebbe per ogni giudice e il carico pendente trasferito a un eventuale sostituto sarebbe inferiore a parità di altre condizioni. Andrebbe poi valutata sperimentalmente la possibilità di ridurre le nuove assegnazioni a un giudice di cui sia certo il trasferimento in una data futura, in modo che questi possa concentrarsi sullo smaltimento dell’arretrato. Andrebbe anche presa in considerazione la possibilità di ritardare il suo trasferimento fino all’esaurimento del suo carico pendente.
Quand’anche, però, il carico pendente di un magistrato trasferito fosse ridotto al minimo possibile bisogna capire perché la durata di un singolo processo aumenti quando il suo giudice originario passa ad altro ufficio. Alcuni motivi di ritardo sono inevitabili in qualsiasi contesto organizzativo. Ma i “tempi morti” tra la partenza del giudice trasferito e l’arrivo del sostituto (i cosiddetti “ruoli congelati” a volte per più di un anno!) devono essere ridotti. Il problema deriva almeno in parte dal sistema concorsuale nazionale su cui è basato il reclutamento dei magistrati: un sistema che, oltre ad altri difetti, non assicura la possibilità di pianificare per tempo e con continuità la copertura dei posti divenuti vacanti per i pensionamenti. E questo ancor più negli anni recenti in cui la frequenza dei concorsi, per motivi a noi ignoti, si è notevolmente diminuita. Ma oltre a questo i “tempi morti” derivano anche dallo scarso coordinamento dei trasferimenti anche nei casi in cui nessun pensionamento entra in gioco.
Rimane infine il terzo ordine di problemi che riguarda il numero complessivo di trasferimenti. È evidente che le conseguenze negative dei trasferimenti si risolverebbero in un batter d’occhio se non si facessero trasferimenti. Tuttavia, se da un lato una mobilità eccessiva dei magistrati è inopportuna, altrettanto inopportuna è una immobilità completa. In base a quale criterio è stato scelto il termine dei tre anni per poter chiedere un trasferimento? Non sarebbe preferibile un termine più lungo?
In conclusione, ci sembra necessario agire in tre modi: favorendo il lavoro sequenziale dei singoli giudici e lo smaltimento dei carichi pendenti prima del trasferimento, riducendo i “tempi morti” tra partenze e arrivi e valutando l’opportunità di allungare il periodo minimo di permanenza in un ufficio. Con questi tre interventi il Csm potrebbe ottenere risultati significativi per una riduzione della durata dei processi e per un miglioramento dell’efficienza della giustizia.