I GIOVANI, CHE OGGI L’ARTICOLO 18 NON LO VEDONO NEANCHE DI LONTANO, NON CHIEDONO L’INAMOVIBILITA’, MA UN LAVORO DECENTE E LA FINE DELL’ATTUALE APARTHEID A LORO DANNO. NON RENDE LORO UN BUON SERVIZIO CHI RIFIUTA ADDIRITTURA DI APRIRE IL DISCORSO SUL COME RIPROGETTARE E RISCRIVERE IL DIRITTO DEL LAVORO PER LE NUOVE GENERAZIONI
Editoriale pubblicato su Europa il 27 aprile 2010, in risposta all’articolo di Luigi Mariucci su l’Unità del 24 aprile – Segue una risposta di Luigi Mariucci, pubblicata su Europa il 5 maggio 2010
“Il diritto del lavoro che ci insegnate è cosa che riguarda la vostra generazione, non la nostra”, mi dicono i miei studenti. E hanno ragione: quel sistema di protezioni inderogabili, quel modello di rapporto stabile a tempo indeterminato di cui parla il manuale su cui li facciamo studiare ha pochissimo a che fare con quello che essi di fatto incontrano nel tessuto produttivo reale. Può anche accadere che un giovane fortunato, dopo qualche anno di anticamera, venga “stabilizzato”; ma questo non è “dovuto”: è soltanto una, e non certo la più probabile, delle cose che gli possono accadere nel nostro tessuto produttivo attuale, anche in una impresa “normale”.
Va detto chiaro e tondo che di questa realtà la legge Biagi del 2003 non ha alcuna responsabilità: non c’è una sola forma di lavoro precario che non preesista a quella legge e che quella legge non abbia, semmai, regolato in maniera più severa rispetto a prima. Questo, e non altro, è accaduto per le collaborazioni continuative autonome (ora “lavoro a progetto”), per i contratti di formazione e lavoro (ora apprendistato), per i contratti di lavoro “a chiamata”. Quanto all’abuso della partita Iva, anch’esso preesiste alla legge Biagi e non ne è stato affatto facilitato: ha avuto soltanto impulso dalle forti restrizioni imposte da quella legge in materia di collaborazioni autonome. Lo staff leasing? Prevede un rapporto di lavoro stabile, con articolo 18. Se insistiamo a prendercela con la legge Biagi, continueremo a mancare clamorosamente il bersaglio e a non cavare un ragno dal buco.
I progetti che sono stati presentati nell’ultimo anno alla Camera e al Senato dai parlamentari del Pd (Ichino, Madia e Nerozzi-Bobba) rispondono a una rivendicazione che la Cgil ha fatto propria al congresso di Rimini di quattro anni fa: quella, cioè, di allargare il campo di applicazione del diritto del lavoro a tutta l’area della dipendenza economica dall’azienda, che è assai più ampia rispetto a quella del lavoro subordinato. Tutti e tre quei progetti di legge convergono su di una definizione precisa di questa nozione: deve intendersi come “economicamente dipendente” il lavoro personale prestato continuativamente per un’unica azienda, quando il lavoratore ne trae complessivamente più di due terzi del proprio reddito di lavoro complessivo, e il reddito stesso non supera i 40.000 euro annui (la soglia è ridotta a 30.000 euro nel progetto Nerozzi-Bobba). Una definizione discutibile e perfettibile, certo, anche per raccogliere le giuste osservazioni in proposito di Tiziano Treu (Europa, 23 aprile); ma essa ha il pregio di ricomprendere tutte le posizioni di falso lavoro libero-professionale “con partita Iva”, consentendone l’individuazione diretta anche soltanto sulla base dei tabulati dell’Inps o dell’Erario, senza bisogno di sofisticate disquisizioni giuridiche.
I tre progetti convergono anche su di un altro punto molto importante: la riforma non toccherà alcuna posizione di lavoro stabile già costituita, ma soltanto i rapporti di lavoro che nasceranno d’ora in poi nell’area allargata della “dipendenza economica”. E a questi – tutti – si applicherà la tutela forte (articolo 18) contro le discriminazioni e contro il licenziamento disciplinare non giustificato. Altro che “aggiramento dell’articolo 18”! Questa tutela, mentre non viene tolta a nessuno che oggi ne goda, per i rapporti destinati a nascere da qui in avanti vede aumentare drasticamente l’area di applicazione, fino a ricomprendere un’intera nuova generazione che ne è oggi esclusa. La divergenza fra i tre progetti riguarda soltanto il regime applicabile al licenziamento per motivi oggettivi, cioè economici od organizzativi. Il progetto Nerozzi-Bobba prevede per i primi tre anni un indennizzo per il lavoratore licenziato, in misura peraltro doppia rispetto a quella normalmente vigente negli altri Paesi europei. Il mio progetto prevede invece l’introduzione di un regime di flexsecurity ispirato al modello scandinavo. In entrambi i casi, dunque, anche per il licenziamento “economico” si offre alla nuova generazione una protezione che non teme confronti su scala internazionale.
Se le cose stanno così, che senso ha continuare – come fa anche Luigi Mariucci sull’Unità di sabato scorso – a rifiutare persino di aprire una discussione di merito su questi progetti, per il solo fatto che “toccano” l’articolo 18? I giovani, che oggi l’articolo 18 non lo vedono neanche di lontano, non chiedono l’inamovibilità, ma un lavoro decente e la fine dell’attuale apartheid a loro danno. Non rende loro un buon servizio chi rifiuta addirittura di aprire il discorso sul come riprogettare e riscrivere il diritto del lavoro per l’Italia di domani.
A differenza di quanto accade a Pietro Ichino i miei studenti di Venezia non mi dicono che il diritto classico del lavoro non li riguarda. Si stupiscono invece delle deturpazioni che il diritto del lavoro ha subito, nell’ultimo decennio, e mi chiedono: «Ma perché oggi uno può essere assunto con uno stage, un contratto a termine, una collaborazione senza alcun limite e senza nessuna garanzia di stabilità?»
A queste domande rispondo che il mondo è cambiato, che la globalizzazione senza regole ha spinto la competizione sul versante del dumping sociale, che in Italia si è affermata una legislazione puramente ancillare verso le esigenze immediate del mercato e che andrebbe corretta. Cerco di farli pensare, non di illuderli con soluzioni miracolistiche.
Con Pietro Ichino dovremmo essere d’accordo, intanto, su un punto: non si afferma la stabilità per decreto, tanto meno con una legge sul contratto unico, che poi unico non è. Aggiungo che non si favorisce la stabilizzazione dei rapporti di lavoro eliminando le tutele per chi oggi le ha, a partire da quella norma simbolo costituita dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Del resto descrivere il mercato del lavoro secondo una divisione verticale tra insiders e outsiders è una caricatura.
I dualismi nel mercato del lavoro italiano sono molti: il principale resta quello nordsud, il drammatico differenziale tra tassi di occupazione, specialmente femminile e giovanile, e di incidenza del lavoro sommerso nelle diverse aree territoriali. A una situazione complessa non si risponde con soluzioni semplificate.
Perciò preferisco pensare che il Pd dovrebbe tenere ben ferme alcune priorità, adottando un sano metodo realistico.
La prima consiste in una proposta precisa in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, in chiave universalistica, tale da superare, di fronte alla crisi, l’attuale frammentato uso dei cosiddetti ammortizzatori sociali in deroga. La seconda consiste nel proporre misure di contrasto alla precarietà fondate più sugli incentivi che sugli obblighi: si potrebbero introdurre misure dirette ad assegnare una sorte di dote, in termini di crediti o bonus, ai lavoratori assunti con contratti precari a vario titolo da spendere poi in termini di incentivi fiscali e contributivi ai fini di una successiva assunzione a tempo indeterminato.
È legittimo, nel frattempo, ragionare delle necessarie semplificazioni dell’attuale caotica legislazione, lavorando a un nuovo codice del lavoro. Su questo le proposte di Ichino sono utili nel metodo, per quanto discutibili nel merito. Al momento le urgenze sono altre. La principale mi pare sia quella di dire una parola conclusiva sul modo in cui il Pd intende rappresentare il lavoro essendo “fondato sul lavoro”. Si tratta di rappresentare il lavoro “in tutte le sue forme”, compreso il lavoro dell’impresa, degli artigiani, dei professionisti. Ma a partire da un nocciolo duro, costituito dai circa 13 milioni di lavoratori dipendenti a vario titolo. Se non si parte da lì non si va da nessuna parte. (Luigi Mariucci)