IL DISEGNO DI LEGGE SULL’AVVOCATURA HA SOLLEVATO LE CRITICHE DELL’ANTITRUST E DI UNA PARTE DI CLIENTI E IMPRESE PER LA SCARSA APERTURA ALLA CONCORRENZA
Articolo di Alessandro De Nicola pubblicato sul Sole-24 Ore del 17 aprile 2010
In un paese innominato il parlamento sta discutendo una riforma che riguarda un settore economico. L’Autorità Antitrust e gli economisti che hanno analizzato il progetto l’hanno già definito come anticoncorrenziale e inefficiente.
Tutti i clienti, consumatori e imprese, si dichiarano contrari al disegno di legge e pure molti produttori, i più giovani e intraprendenti, lo sono.
Non sarebbe il caso di fermarsi un attimo?
Se avete indovinato che stavamo parlando dell’Italia e della riforma dell’ordinamento forense, non fatevi illusioni, siete intuitivi quanto il resto della popolazione. Il fatto è che la situazione si presenta così surreale da risultare facilmente riconoscibile.
I fautori della controriforma la giustificano citando l’impoverimento degli avvocati, la qualità del servizio, il decoro della professione e altri nobili concetti. Tuttavia, alla prova dei fatti il ddl sull’avvocatura si rivela un’operazione che forse merita maggiori riflessioni.
Vediamo di capire perché. Le tariffe. Com’è noto la proposta reintroduce le tariffe minime abolite da Bersani (il quale fece l’errore di non togliere di mezzo in modo chiaro anche le massime) e proibisce il patto di quota-lite. Si dice che quest’ultimo sia contrario alla deontologia e provochi comportamenti opportunistici, mentre l’assenza di tariffe minime depaupera gli avvocati senza dare benefici ai consumatori e diminuisce la qualità del servizio.
Si tratta di asserzioni, come direbbe un giurista, sfornite di prova.
I guadagni degli avvocati sono cresciuti negli ultimi anni in linea con il Pil, mentre in teoria non avrebbe dovuto essere così, giacché i nuovi ingressi dovrebbero far scendere il reddito medio. Mi spiego: il reddito medio degli avvocati si aggira sui 51mila euro, ma quello degli under 45 è di 33mila. Ovvio che sia così, nei primi anni della professione si guadagna meno, poi, accumulando esperienza e clientela, si accresce il benessere.
Se la percentuale di giovani aumenta (come è successo vertiginosamente negli ultimi anni, basti pensare che dal 2001 al 2008 il numero degli iscritti alla cassa forense è aumentato del 54% pur essendo nel frattempo molti avvocati andati in pensione) il reddito medio dovrebbe diminuire, invece è rimasto stabile o in lieve miglioramento, segno che in generale la classe forense non se l’è passata male.
Il patto di quota-lite finora non ha provocato nessun reclamo conosciuto, segno che chi se ne è servito è rimasto contento: anzi, in generale, nonostante il numero degli avvocati cresca, quello delle sanzioni disciplinari dall’introduzione del decreto Bersani è diminuito: 196 nel 2007, 196 nel 2008, 168 nel 2009. Dov’è questo drammatico calo della qualità del servizio visto che i clienti paiono non protestare con gli Ordini?
Da un punto di vista teorico, inoltre, le tariffe sono un esemplare caso di barriera all’entrata che scoraggia la concorrenza e protegge gli incumbent mentre il patto di quota-lite favorisce l’accesso alla giustizia di chi è povero: se il suo avvocato non vince, il cliente non paga. In analisi economica del diritto si parla di allineamento degli interessi tra agent e principal.
La deontologia e la pubblicità. Non è chiaro perché gli avvocati abbiano una funzione più rilevante ad esempio delle banche o delle cliniche private o delle università che possono fare la pubblicità che vogliono (nei limiti previsti dalla legge, naturalmente).
Finora ci sono due casi post-Bersani portati all’onore della cronaca e tutt’e due sono provvedimenti di Ordini contro avvocati giovani che offrono servizi a basso prezzo a clientela non facoltosa. Si tratta di A.L.T. che aveva aperto lo studio su strada con vetrine (irriguardose, evidentemente) e Avvocati point.it che proponeva assistenze in cause di separazione a 620 euro. La pubblicità “decorosa” così come decisa dagli Ordini è estremamente soggettiva e tende a punire chi innova.
Società di capitali. Altro tabù della nostra classe forense. Ebbene, in Inghilterra gli studi legali si quoteranno, in Australia lo fanno già. Raccoglieranno capitale e si doteranno di mezzi tali da spappolare gli studi italiani costretti a ricorrere al credito bancario e a rimanere sottocapitalizzati. Incidentalmente, perché essere debitori incatenati a una banca sia meno lesivo dell’indipendenza rispetto a scegliersi (e gli avvocati sono tipi smaliziati) un socio finanziatore è un qualcosa che ancora non è chiaro. Tutti ricordano, d’altronde, che il divieto di società di capitali stabilito nel 1939 era una norma antisemita per proibire agli avvocati ebrei, messi al bando, di esercitare in anonimato.
Riserva, formazione continua, accesso. Le restrizioni all’accesso, gli obblighi di formazione e le riserve a favore degli avvocati iscritti all’Ordine serviranno a poco.
Nel suo ultimo libro The end of lawyers, il più grande esperto del mondo di economia forense, Richard Susskind, prevede che la tecnologia rivoluzionerà la professione. La consulenza legale sarà fornita via web da ovunque, senza limiti parrocchiali e vincerà chi avrà reputazione, valore aggiunto e capitali da investire. Il titolo di “avvocato specialista” sarà poco utile.
Basta così. L’unica cosa che servirebbe sul serio ai professionisti sono meno tasse e oneri, non minor libertà di accesso e imprenditoriale. L’establishment dell’avvocatura ha ancora tempo per riflettere e non propugnare riforme che rischiano di diminuire rilevanza e prestigio di un intero settore di vitale importanza per il nostro paese.