SUNDERLAND CONQUISTA LA NISSAN LEAF: PERCHE’ L’ITALIA NON CI HA NEPPURE PROVATO?

UNO DEGLI ASPETTI POSITIVI DELLA GLOBALIZZAZIONE E’ LA POSSIBILITA’ DI “INGAGGIARE” IL MEGLIO DELL’IMPRENDITORIA MONDIALE, PORTARE IN CASA PROPRIA INVESTIMENTI E TECNOLOGIE DI AVANGUARDIA – I BRITANNICI LO SANNO FARE (“HIRE YOUR BEST EMPLOYER!”), NOI TENIAMO GLI IMPRENDITORI STRANIERI ALLA LARGA

La notizia da cui trae spunto questa riflessione è tratta da BBC One-Minute world News, 18 marzo 2010

La Nissan si era fruttuosamente insediata già dal 1985 a Sunderland, in una zona depressa del Nord-Inghilterra; ora, dopo essersi a lungo guardata intorno in Europa, ha deciso di dislocare ancora in quello stesso stabilimento la produzione per il mercato europeo della sua nuova vettura elettrica, la Leaf, che partirà dal 2113, con un investimento di 420 milioni di sterline.
La storia di Sunderland e della Nissan è la storia di una zona depressa del nord-Inghilterra e di un sindacato che hanno saputo “ingaggiare” un imprenditore eccellente, scommettendo sul suo piano industriale fortemente innovativo, anche a costo di rinunciare ai loro vecchi schemi di organizzazione del lavoro e relazioni industriali e a una parte delle vecchie garanzie salariali rigide (su questa vicenda v. il secondo capitolo del mio libro A che cosa serve il sindacato?). La scommessa comune è stata vinta: negli ultimi venticinque anni lo stabilimento di Sunderland si è collocato permanentemente al vertice della graduatoria mondiale di produttività nell’industria automobilistica; e al vertice si sono collocate anche, dopo i tre anni iniziali, le retribuzioni dei suoi quattromila dipendenti.
La cosa sconcertante non è che la Nissan non abbia scelto di dislocare né questa né alcuna altra sua produzione destinata al mercato europeo in un sito italiano, come avrebbe potuto essere quello di Arese, ora quello di Termini Imerese. La cosa sconcertante è che l’Italia in questi anni non abbia neppure provato a candidare uno di questi siti. Il fatto è che il nostro ordinamento del lavoro – frutto del combinato disposto di una legislazione nazionale illeggibile e di un contratto collettivo nazionale inderogabile – e il nostro sistema delle relazioni industriali non avrebbero consentito, se non al prezzo di mille difficoltà, un accordo simile a quello stipulato nel 1985  a Sunderland (rinvio in proposito al primo e al terzo capitolo dello stesso mio libro già menzionato sopra , chiedendo scusa per questa doppia autocitazione).
Solo ultimamente – e un po’ tardivamente – il Governo ha adottato in questo campo un’iniziativa che va nella direzione giusta: il bando internazionale di concorso per un nuovo insediamento industriale a Termini Imerese. Ma, dati gli handicap di partenza di cui soffre la zona interessata (deficit di infrastrutture, di efficienza delle amministrazioni pubbliche, di cultura industriale diffusa e di cultura delle regole),  è facile prevedere che questa iniziativa non sortirà buoni effetti se ci limiteremo ad attendere passivamente che gli imprenditori stranieri presentino i loro piani industriali: è indispensabile che noi andiamo a cercarli, mettendo “sul piatto” una esplicita disponibilità a negoziare i piani stessi a 360 gradi, a instaurare modelli nuovi di relazioni industriali e di organizzazione del lavoro, a offrire agli imprenditori interessati di rischiare con loro qualche cosa di nostro: per esempio – come fecero a Sunderland nel 1985 – accettando di subordinare il pagamento di un 20 per cento dei minimi retributivi attuali al raggiungimento di obiettivi di produttività o di redditività predeterminati.

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