SULLA POSIZIONE DEGLI AVVOCATI DIPENDENTI DA ALTRI AVVOCATI

L’ORDINAMENTO FORENSE SANCISCE L’INCOMPATIBILITA’ TRA L’ISCRIZIONE ALL’ALBO E LA POSIZIONE DI LAVORATORE DIPENDENTE. MA SONO MOLTO NUMEROSI GLI AVVOCATI – NON SOLO GIOVANI – CHE OPERANO IN POSIZIONE DI SOSTANZIALE DIPENDENZA DA UNO STUDIO LEGALE. E’ GIUSTO CHE ESSI SIANO ESCLUSI DA OGNI PROTEZIONE?

Lettera pervenuta il 26 febbraio 2010 – Segue una mia breve risposta

L’articolo 3 della legge professionale  degli avvocati stabilisce la incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato “con qualunque impiego o ufficio retribuito”.
Per il Consiglio nazionale forense  l’esistenza di un rapporto continuativo e retribuito di collaborazione fa venir meno “quella posizione di indipendenza, sia morale che economica, che è caratteristica fondamentale della professione forense, intesa come professione liberale”.
E però quella posizione di “indipendenza morale ed economica” non appartiene a tanti avvocati che forniscono di fatto una prestazione lavorativa continuativa in favore di altri colleghi dai quali dipendono economicamente. In barba alla liberalità della professione!
Dal 1995 ad oggi c’è stato un vero boom di rapporti di collaborazione tra avvocati. Giovani colleghi collaborano come parasubordinati di fatto se non addirittura subordinati dovendo osservare orari e direttive. Il divieto della legge professionale – che è del 1933! – di fatto non viene rispettato ma salvando l’ipocrisia della legge consente ai colleghi che si avvalgono della prestazione continuativa di altri colleghi di non stipulare alcun contratto scritto e di instaurare il rapporto (o anche di cessarlo) senza regole.
Eppure in Spagna o in Francia per non parlare degli Usa è regolamentata la figura dell’avvocato che lavora per un altro avvocato.Quando in Italia?
Viola L.

Lo scopo della norma citata in questa lettera (art. 3 del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578) è di garantire l’indipendenza dell’avvocato dal suo cliente. Di fatto, però, la norma finisce col vietare anche un rapporto di dipendenza tra l’avvocato e lo studio legale che lo ingaggia come collaboratore fisso. Quest’ultimo effetto potrebbe giustificarsi sul presupposto che l’iscritto all’albo degli avvocati sia comunque un soggetto che dispone di alternative nel mercato del lavoro, perché è in grado di conoscerlo e, all’occorenza, di “mettersi in proprio” se il trattamento riservatogli dal collega committente non lo soddisfa. Nella realtà, oggi, le cose non stanno sempre esattamente così. Si pone pertanto il problema di un almeno parziale superamento dell’incompatibilità posta dall’ordinamento forense, che consenta una estensione agli “avvocati dipendenti da avvocati” di una parte almeno delle protezioni proprie del lavoro dipendente, nelle situazioni nelle quali le dimensioni dello studio committente consentano di presumere una sua maggiore capacità di sopportare il rischio di sopravvenienze negative. Per esempio, nel quadro del progetto delineato nel nuovo Codice del lavoro semplificato – d.d.l. n. 1873/2009 – si potrebbe pensare all’applicazione anche a loro, quando il reddito annuo non superi il limite dei 40.000 euro previsto dal secondo comma dell’art. 2094, dell’indennità di malattia e del diritto all’indennità di licenziamento di cui all’articolo 2119.     (p.i.)

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