LA PRIVATIZZAZIONE DELLA PROTEZIONE CIVILE E LA RINUNCIA DEL GOVERNO A RIFORMARE LE AMMINISTRAZIONI

IL GOVERNO, CONVINTO CHE IL DIRITTO AMMINISTRATIVO SIA INCOMPATIBILE CON L’EFFICIENZA DELLE STRUTTURE STATALI, LE TRASFORMA FITTIZIAMENTE IN SOGGETTI DI DIRITTO PRIVATO. E NELLO STESSO TEMPO TRASCURA LA RIFORMA DEL MINISTRO BRUNETTA

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 17 febbraio 2010

Caro Direttore, forse c’è un nesso tra le scelte del Governo tendenti alla privatizzazione della Protezione civile, come in precedenza di altri settori dello Stato, e la mancata emanazione dei decreti necessari per il funzionamento della nuova autorità indipendente, chiave di volta della riforma Brunetta delle amministrazioni, insediata da due mesi ma ancora del tutto priva di risorse. I maliziosi, poi, possono vedere una terza coincidenza significativa: la candidatura del ministro Brunetta a sindaco di Venezia. L’impegno del Governo a riformare l’amministrazione statale si è già esaurito?

La Protezione civile S.p.A. era stata preceduta dalla Difesa servizi S.p.A., e prima ancora dalla Patrimonio S.p.A. e dalla Infrastrutture S.p.A.: tutte imprese formalmente private, cui vengono affidate funzioni eminentemente pubbliche e le risorse necessarie, pubbliche anch’esse. Privatizzare ha un senso, eccome, quando si tratta di assoggettare un servizio al regime e alle regole di un mercato concorrenziale moderno; ma quale concorrenza può mai attivarsi in funzioni come quella dell’amministrazione del patrimonio demaniale, o delle Forze armate, o della protezione civile?
            La “societarizzazione” di questi segmenti della struttura dello Stato mira a renderli più efficienti sottraendoli ai principi di imparzialità e di rendicontazione, al controllo del Parlamento, della Corte dei Conti; e ora anche ai principi di trasparenza totale e di valutazione indipendente sanciti dalla legge Brunetta del marzo scorso. Il risultato, però, è che il solo controllo possibile (poiché si tratta pur sempre di gestione di denaro pubblico) rimarrà quello esercitato dall’autorità giudiziaria contro corruzione, concussione e peculato. Salvo, poi, gridare al giustizialismo appena un P.M. avvisa che sta indagando. Ma non è forse proprio questa politica di eliminazione radicale dei controlli amministrativi quella che finisce col dilatare innaturalmente il ruolo del controllo giudiziale? O il Governo pensa di eliminare anche quest’ultimo controllo, considerando esso pure come ostacolo alla “politica del fare” e abolendo i reati di corruzione e peculato?
            Devolvere a un’impresa privata queste funzioni, che più pubbliche di così non potrebbero essere, può essere motivato in un solo modo: con l’idea che sottrarle alle regole del diritto amministrativo sia indispensabile perché esse possano essere svolte in modo efficiente. È esattamente la stessa cosa che accade diffusamente quando lo Stato o un ente locale, per evitare di assumere in ruolo dei nuovi dipendenti, se li fanno fornire “in appalto” da una cooperativa: alla base c’è la convinzione che il diritto del lavoro pubblico genererebbe rigidità e inefficienza, che dunque l’unico modo per far funzionare bene questi rapporti è sottrarli alle regole cui dovrebbero essere soggetti.
            Se questo è il problema, invece di eluderlo fingendo che gli interessi pubblici siano diventati privati, non sarebbe molto meglio affrontarlo di petto dicendo pane al pane e vino al vino? Non sarebbe, cioè, molto meglio conservare ciò che del pubblico può e deve essere conservato – obblighi di imparzialità, di rendiconto, di trasparenza totale ‑, eliminando invece tutti i vincoli procedurali che sono di troppo, riducendo l’inamovibilità dei dipendenti pubblici, consentendo ai dirigenti pubblici di riappropriarsi per davvero delle prerogative che devono essere proprie di qualsiasi dirigente d’azienda, ma anche responsabilizzandoli severamente per il raggiungimento dei risultati, con controlli oggettivi, premi per chi i risultati li raggiunge davvero e rimozione per chi si rivela incapace?
             Si dà il caso che proprio questa seconda sia la strada che il Governo era parso imboccare –non senza qualche contraddizione e molti mali di pancia ‑ con la riforma delle amministrazioni pubbliche avviata dal ministro Brunetta. La quale proprio a questo fine aveva istituito un sistema di valutazione dei risultati prodotti dalle strutture operative dello Stato, affidandone il coordinamento e il controllo a una nuova autorità indipendente (la Commissione centrale per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche), che si è insediata nel dicembre scorso. Senonché nei due mesi trascorsi da allora il Governo non ha trovato dieci minuti per approvare i decreti necessari affinché la Commissione possa retribuire i propri membri e i propri dipendenti, attivare i propri programmi operativi, o anche soltanto acquistare un computer. La Commissione ha già volonterosamente incominciato a lavorare; ma a tutt’oggi non è dato sapere quando le saranno assegnate le risorse indispensabili per il suo funzionamento. Dunque il Governo non crede più nella possibilità e priorità della riforma delle amministrazioni pubbliche? È questo che induce Renato Brunetta a ridursi a ministro della funzione pubblica part-time, candidandosi a sindaco di Venezia?

 

 

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