SEVERGNINI: L’IMPOSSIBILE LAVORO DI SERIE A

PER FAR RIPARTIRE L’ITALIA OCCORRE UN SISTEMA CHE UNISCA FLESSIBILITA’ E SICUREZZA, UNA VERA E PROPRIA RIVOLUZIONE: SE LA VECCHIA SINISTRA NON NE E’ CAPACE, CI PROVI IL GOVERNO

Beppe Severgnini –  Corriere della Sera dell’11 febbraio 2010, rubrica Italians – interviene nel dibattito seguito alla mia “Lettera sul lavoro” (8 febbraio)  sulla necessità di un nuovo diritto del lavoro per le nuove generazioni e per il futuro del Paese

E io cosa dico ai ragazzi della scuola di giornalismo?
E voi cosa dite ai vostri figli e ai vostri nipoti? E noi cosa diciamo a chi guarda l’Italia da fuori, e pensa che siamo lungimiranti come talpe in una notte di nebbia? Da incorniciare il pezzo di Pietro Ichino sul Corriere di lunedì: «Nessuno pensa al welfare dei figli». Riassumo: il lavoro di serie A non c’è (le imprese ne sono terrorizzate: è più facile separarsi dal consorte che dal dipendente). C’è solo lavoro di serie B («a progetto» o comunque a termine) e lavoro di serie C (stage semigratuiti senza formazione, assunzione con partita Iva per mansioni professionali, d’ufficio, di cantiere, di negozio, di call center, di magazzino). Mezzo milione d’italiani che ha perso il lavoro nei mesi scorsi – la crisi non era solo «psicologica», Capo? – aveva impieghi di questo tipo: serie B e serie C. Se quest’ultima vogliamo chiamarla «Lega Pro», come nel calcio, possiamo farlo: ma non è una gran consolazione.
Ovviamente – questo Ichino non l’ha scritto, ma lo sa – la nostra società è basata sul lavoro di serie A: dall’autostima al mutuo in banca, poco si ottiene con un contrattino a progetto. Che avrebbe dovuto essere un mezzo, secondo la legge Biagi, non un fine. Ma si sa come vanno le cose: fatta la legge (dagli adulti), trovato l’inganno (dei giovani). Non solo. L’infausto 3+2, l’abitudine al «fuori corso» e la microuniversità sotto casa – spesso un’inutile baronia, gradita solo ai docenti modesti e ai genitori egoisti – hanno svalutato la laurea. Negli ultimi anni, la differenza di stipendio tra un lavoratore laureato e un diplomato è diminuita del 6,2%. Brunetta dice: «Dietro la difesa dei padri a scapito dei figli c’è la difesa dell’esistente contro il cambiamento, della conservazione contro l’innovazione». Ichino lo invita a passare ai fatti, lasciando perdere le battute da talk-show. Io non sono dotto come il professore né polemico come il ministro, ma chiedo a quest’ultimo: scusi, ma il suo collega Tremonti non va cantando la lode del posto fisso? E poi: se il lavoro è un’emergenza, perché avete passato mesi ad accastastare proposte di riforma della giustizia, invece di lanciarvi in una rivoluzione del lavoro?
Perché di questo c’è bisogno: una rivoluzione. La sinistra non ne è capace: provateci voi. Occorre un sistema che unisca flessibilità e sicurezza, e rimetta in moto la macchina italiana. I nostri stipendi netti sono del 32% inferiori alla media Ue e stanno al 23° posto nella classifica Ocse dei 30 Paesi più industrializzati. Ovviamente: il posto fisso, in Italia, si paga. La sicurezza è talmente rara che il prezzo è salito alle stelle. Certo, c’è chi in tutto questo ci sguazza. Ricordiamo che nel 2009 solo 149 mila contribuenti (tre su mille!) hanno dichiarato un reddito lordo sopra i 150 mila euro. Tra questi gli autonomi, i professionisti e gli imprenditori sono solo 20 mila. Ma questo è un altro film. Se il ministro Brunetta volesse farcene la recensione, gliene saremmo grati.

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