Ma né la Cgil, né il consulente del ministero del Welfare e allievo di Marco Biagi, Michele Tiraboschi, seguono Ichino. Naturalmente da due punti di vista diversi. Susanna Camusso, segretario confederale della Cgil, crede che in Italia ci sia «un eccesso di legislazione» e che l’approccio giusto sia quello della semplificazione. Possibile, si chiede la sindacalista, che siamo l’unico Paese al mondo ad avere 45 tipologie contrattuali diverse? Semplificare, per la Camusso, significa ridurre il menù a tre situazioni base: il contratto a tempo indeterminato; l’apprendistato legato alla formazione; i contratti a termine solo per la stagionalità, come era una volta «Il fatto che in questi anni – spiega Susanna Camusso – si sia fatta avanti la convinzione che sia vincente la diminuzione dei diritti e dei salari è profondamente sbagliata e la prova è arrivata con la crisi: di certo l’articolo 18 non impedisce alle imprese di licenziare.
Il ragionamento di Michele Tiraboschi parte dalla forte asimmetria tra i profili professionali richiesti dalle aziende e quelli offerti dai giovani. «Ci sono moltissime imprese che vorrebbero assumere giovani anche a tempo indeterminato – afferma il professore di diritto del lavoro all’università di Modena – ma non trovandoli li prendono con contratti precari per avere il tempo di prepararli». Per Tiraboschi la proposta di Ichino «lascia il tempo che trova, perché resto convinto che non sono le leggi a creare il lavoro, ma gli investimenti nel sapere e nella conoscenza». Un’altra «falla» nella costruzione giuridica di Ichino, secondo il consulente, risiede nel contratto unico fino a tre anni, entro i quali il giovane può essere mandato a casa. «Lascia spazio a troppi abusi – spiega – e poi è uguale per tutti, tende all’appiattimento e non valorizza i bravi». Quando Tiraboschi parla di sapere e conoscenza, si riferisce soprattutto alla necessità di integrare al massimo la filiera scuola-università-impresa-lavoro per formare giovani secondo le reali necessità del mercato. «E assurdo che ci siano migliaia di giovani laureati in scienze umanistiche, magari col massimo di voti, che finiscono a fare i precari nei call center, infelici e sottopagati». La soluzione, per il docente che ha raccolto l’eredità di Biagi, sta soprattutto nel riscattare la centralità del lavoro manuale. «Inspiegabili pregiudizi hanno fermato la scelta verso il mondo dei mestieri, alla base della forza del made in Italy».
IL VERO RISCHIO? UN BUCO GENERAZIONALE
Il commento di Edoardo Segantini sul Corriere della Sera del 9 febbraio 2010
n intervento serio e concreto del giuslavorista Pietro Ichino sul Corriere della Sera di ieri riporta il tema dei giovani non garantiti alle sue vere, allarmanti proporzioni dopo l’imbarazzante campagna sui «bamboccioni», in cui si è aggiunta al danno anche la beffa.
La generazione che si affaccia sul mercato del lavoro – scrive Ichino – è prigioniera di un vero e proprio regime di apartheid. Dove un lavoro di serie B (a progetto o comunque a termine) sta diventando una meta agognata. Perché sempre meglio di un lavoro di serie C (stage semigratuito o altri camuffamenti come la «partita Iva dei poveri» e la creazione di cooperative a cui il servizio viene appaltato), ancor meno garantito e ancora più precario.
Il diritto del lavoro, afferma lo studioso, «sta perdendo la sua natura di standard minimo di trattamento universale per assumere la natura di un ordinamento eminentemente derogabile: chi vuole lo applica e chi non vuole no». I risultati si sono visti in questa crisi, dove a pagare il prezzo più alto della recessione sono stati e sono i giovani, e dove a saltare per primi sono stati i circa cinquecentomila lavoratori di serie B e di serie C. Con la conseguenza che oggi, secondo le stime dell’Ocse, il 60 per cento dei disoccupati italiani ha meno di 34 anni.
A questo punto ci sarà sicuramente qualcuno che obietterà: tutte storie, se un ragazzo è in gamba, intelligente, determinato, sa quello che vuole, nel mondo d’oggi trova un mare di opportunità. Non di rado chi fa obiezioni del genere ha costruito la propria carriera su una ferrea (ed elastica) rete di relazioni o è lui stesso un super-garantito che, fosse calato in quel mare, annegherebbe subito.
Il fatto è – si ricava dall’analisi di Ichino – che il mercato del lavoro deve saper funzionare per tutti, non solo per le eccezioni sopra la media. Non solo per l’uno su mille che ce la fa.
Se i giovani italiani più intraprendenti espatriano – aggiungiamo noi – è perché altrove guadagnano di più. Stiamo parlando di una piccola minoranza: il 3 per cento dei laureati occupati italiani, secondo i dati dell’organizzazione AlmaLaurea. Dopo cinque anni dall’acquisizione del titolo di studio, all’estero percepiscono in media 2.078 euro contro i 1.332 di chi resta in patria.
Lo svantaggio retributivo iniziale si prolunga nel tempo. Se si prende il Rapporto Italia 2010 dell’Eurispes, si vede che gli stipendi medi lordi annui dei laureati italiani sono tra i più bassi d’Europa, anche per effetto del cuneo fiscale: 15.318 euro contro 17.653 della Spagna, 18.641 della Francia, 21.192 della Germania e 27.339 del Regno Unito.
Ichino propone la costruzione di un welfare state che sia capace di tutelare i giovani, si applichi a tutti i rapporti di lavoro senza possibilità di astuzie e scappatoie (attualmente la legge ne consente una quantità) e sia adatto al nostro tempo. Cioè non sia pensato per garantire un impossibile «posto fisso» dei vecchi tempi, un lifetime employment alla giapponese di una volta, ma una rete di sicurezza efficace nel mercato di oggi. Fin qui Ichino.
L’assenza di questo welfare per le nuove generazioni non è dannosa soltanto per i giovani e per le loro famiglie, che ne sopportano il prezzo più alto (soprattutto se se ne misura l’effetto di blocco sui progetti di vita), ma per lo stesso sistema delle imprese. Le quali, come documenta uno studio inedito del Boston Consulting Group, stanno correndo un serio rischio demografico: quello di trovarsi, entro quattro o cinque anni, in presenza di un «buco» generazionale. Cioè senza una generazione.
Il rischio nasce dall’invecchiamento della forza lavoro, soprattutto di quella più qualificata, che entro il 2015-2016 andrà in pensione. Oggi, stimano i consulenti americani, la maggioranza delle aziende italiane ha tempi di pianificazione degli organici brevissimi, massimo due o tre anni, i più brevi d’Europa. La combinazione dei due fattori (l’invecchiamento del personale e la scarsa lungimiranza nei piani di assunzione), cui si aggiunge un’insufficiente consapevolezza del problema, espone anche le aziende, e non solo i ragazzi, al rischio di un futuro spezzato. Pericoloso ai fini della capacità competitiva.
Oggi – per usare una battuta di Silvio Berlusconi pre-politico a proposito di Franco Tatò, che all’epoca era amministratore delegato della sua Mondadori («Quando Franco mi guarda mi sento un costo da abbattere») – la gente in azienda si sente esattamente così: solo un costo da abbattere. Ma in questo caso non è una battuta.
Tra qualche anno la vera risorsa scarsa saranno le persone. Sarebbe perciò auspicabile che su questo terreno sia le imprese che la politica mettessero sul tavolo del confronto le idee migliori: l’evasione sociale è una piaga grave quanto l’evasione fiscale.