PROFESSOR ICHINO, PERCHE’ LE DICO NO

LA LUNGA LETTERA DI DISSENSO DEL RESPONSABILE DELLE RISORSE UMANE DI UNA GRANDE AZIENDA. GLI REPLICO CHE GRAN PARTE DEGLI ARGOMENTI DA LUI ADDOTTI MI SEMBRA POSSANO ESSERE PORTATI A SOSTEGNO SIA DEL PROGETTO SEMPLIFICAZIONE, SIA DEL PROGETTO FLEXSECURITY

Lettera pubblicata sul sito www.aidp.it il 3 febbraio 2010, a seguito di un dibattito svoltosi a Milano, presso Assolombarda, il 1° febbraio 2010 – Segue una mia risposta

Esimio Professore, ieri ho avuto il piacere di presenziare a Milano al convegno “impatto della crisi sul mondo del lavoro e sulle politiche HR”.
Nel corso del Suo intervento, ho appreso le linee guida della riforma del diritto del lavoro alla quale Lei sta dedicando da tempo energia, passione e profonda conoscenza professionale.
Dalle sue parole ho compreso quello che da vari articoli di giornale e comparse televisive non avevo recepito, ossia il senso globale delle riforme che Lei sta auspicando e di cui si fa sponsor presso gli opposti schieramenti politici.
Spero di aver compreso bene e Le scrivo, Esimio Professore, per manifestarLe i punti sui quali sono critico o molto dubbioso, ma desidero innanzitutto esplicitarLe i miei complimenti: Lei si sta cimentando in un’impresa tra le più ardue possibili oggi in Italia, quella di generare un cambiamento in un sistema, quello del rapporto e del diritto del lavoro, che per sua stessa natura determina conseguenze sulle persone fisiche individuali e sul mondo imprenditoriale, ma che sicuramente ha una profonda eco in associazioni, partiti, movimenti ideologici.
Lei, Professor Ichino, sta mettendo le mani in un alveare e per questo desidero innanzitutto plaudire al Suo pubblico e manifesto coraggio.
Desidero d’altra parte esplicitarLe tutte le mie perplessità su alcuni punti da Lei illustrati come parte integrante della riforma cui sta alacremente lavorando.
Per quanto concerne la semplificazione del diritto del lavoro, cambiamento senza dubbio auspicabile anche solo per la semplice vetustà di alcune norme, Lei ha fatto riferimento più volte, anche citando dei confronti avuti con il prof. Tiraboschi, al concetto di “essenza” della norma.
Esimio Professore, credo che sia uno specchietto delle allodole dire agli imprenditori che operano sul territorio italiano che semplificando, riducendo il numero di norme cui fare riferimento, si genererà una semplificazione gestionale ed operativa reale.
Credo che in Italia sia sentimento comune tra gli operatori del settore che quanto più la norma è lacunosa, fumosa nei dettagli, tanto maggiore è la percentuale che di fronte ad un’azione giudiziale ci sia una sentenza favorevole al lavoratore, di per sé valutato come “naturale” parte debole del rapporto di lavoro.
A me pare che se veramente ci fosse una volontà comune e diffusa di mettere mano ad una riforma organica e complessiva del diritto del lavoro in Italia, la strada maestra debba necessariamente essere quella di una proposta elaborata dalle Organizzazioni Sindacali e Datoriali maggiormente rappresentative, sotto la supervisione di un pool di consulenti nominati dal Ministero del Lavoro.
Ma, Esimio Professore, questo cammino non credo che sia mai stato veramente auspicato proprio dagli stessi attori sociali, non per mancanza di coraggio o per paura di non giungere a riforme condivise, ma perché in fondo il sistema a noi Italiani va bene così.
Prenda il discorso degli ammortizzatori sociali: Lei è davvero sicuro che imprenditori e sindacati lo vogliano riformare?
Io sono a tutt’oggi convinto che sia un buon sistema per ammortizzare socialmente ed economicamente le ricadute negative sull’occupazione, sulla capacità di acquisto dei lavoratori dipendenti e sulla dinamica dei consumi in occasione di eventi connessi a crisi di mercato, strategie organizzative (ristrutturazioni, riorganizzazioni) e, purtroppo, di prospettive di impresa assai più negative (chiusure quasi sicure).
Si dirà da parte di molti: oggi se ne abusa. Rispondo con forza e sincerità: non è vero, non da parte di tutti.
Ci sono imprenditori che ricorrono alla Cassa solo dopo aver speso tutte le cartucce a loro disposizione, ci sono imprenditori che ogni giorno si indebitano pur di non ricorrerci, perché sanno che annunciarla ai loro collaboratori significa ammettere una sconfitta delle proprie strategie, anche se spesso dovuta a cause in realtà ben più grandi delle loro scelte imprenditoriali.
Ci sono imprenditori che hanno fiducia negli Istituti Pubblici che esaminano le domande di Cassa Integrazione, che non ricorrono a presunti imbonitori delle pratiche ministeriali, ma che attendono con trasparenza l’esito della valutazione, che è per sua stessa natura discrezionale, dei funzionari ministeriali a ciò preposti.
Ci sono impiegati e funzionari ministeriali che fanno bene il loro lavoro, che danno anche suggerimenti utili in ottica di collaborazione consultiva e non solamente giudizi conclusivi in ottica meramente inquisitoria ed autorizzativa.
E ci sono lavoratori che non ricorrono al lavoro in nero quando sono in Cassa, magari fanno qualche lavoretto a casa, ma la cosa che più auspicano è poter tornare a dare il loro contributo alla comunità, sociale, economica, intellettuale di cui fanno parte, per riceverne non solo remunerazione economica ma anche gratificazione sociale, da riversare nelle altre comunità (famiglia, amicizie, associazioni sportive e ricreative) di cui fanno parte.
E così anticipo, professor Ichino, la perplessità più grande che mi ha pervaso nell’ascoltarLa.
Mi riferisco al Suo intervento sulla riforma dei licenziamenti, da attuare in via sperimentale ed esclusivamente per i contratti a tempo indeterminato di nuova stipula.
Lei ha fatto riferimento al firing cost, all’indennità di disoccupazione, agli interventi formativi necessari alla riqualificazione, alle società di outplacement.
Le do solo qualche spunto molto realistico prima di arrivare alla critica più acuta.
Non è vero che il firing cost in Italia sia oggi così elevato rispetto alla media europea con cui dobbiamo a mio avviso confrontarci (Francia, Germania, Spagna, Svizzera, Austria), anche se non ho dei dati complessivi a supporto.
Non è vero che le società di outplacement ricollocano le figure professionali così velocemente come pubblicizzano (su questo, anche alcuni autorevoli esponenti aziendali in sala hanno manifestato la stessa esperienza).
Non è vero che abbiamo sistemi, pubblici, privati o misti, in grado di affrontare la tematica della riqualificazione professionale con risorse adeguate (su tutto, strumenti e budget di spesa).
Ma se anche tutto ciò avesse diverso riscontro, Esimio professore, anche se avesse ragione Lei, a me pare che Lei si sia dimenticato di un punto fondamentale: l’individuo, il suo intelletto svilito, i suoi investimenti (piccoli o grandi che siano stati) nel lavoro svolto che vanno in fumo, la sua socialità andata persa.
Lei sa, Esimio professore, cosa significa tornare a casa e non poter più condividere con orgoglio le proprie esperienze lavorative, il proprio accrescimento professionale con moglie e figli oppure, ancor peggio, dover ritrovare in solitudine un proprio equilibrio precario?
Perché nessuna proposta di legge su questo argomento prende in considerazione questo aspetto, magari prospettando un sostegno di tipo psicologico alla persona?
Non le sto dicendo che questa sia la soluzione, professor Ichino, perché in fondo penso che la parte imprenditoriale sana ed illuminata del Paese non voglia la riforma dei licenziamenti individuali, perché sa benissimo – per la mia esperienza – che quando qualcuno esagera c’è sempre un modo, spesso suggerito dagli stessi colleghi della presunta pecora nera, per arrivare a risolvere il rapporto di lavoro ad un costo sostenibile.
Ed è la stessa via che si percorre per evitare eventuali lungaggini giudiziarie ed elevati costi legali.
Sono stato prolisso, professore Esimio, e me ne scuso.
Da ultimo, desidero ribadirLe la mia visione sui punti da Lei trattati:

  • Sulla semplificazione del diritto del lavoro: benissimo, a patto che sia esaustiva in termini di ragionevole certezza di applicazione e non di mera essenza del contenuto della norma stessa;
  • Sulla riforma dei licenziamenti individuali: sono contrario alla proposta di modifica, a mio parere l’ultima delle priorità oggi nel settore privato.
  • Sulla riforma degli ammortizzatori sociali: benissimo, a patto che venga dalle Parti Sociali stesse. Il primo passo potrebbe essere quello di responsabilizzare maggiormente le Parti stesse, dirottando in un fondo comune a gestione condivisa gli importi dei contributi Cig (con una gestione maggiormente oculata, potremmo anche pensare che ne derivi un taglio del costo del lavoro).

Più in generale, esimio professore, credo che ciascuno di noi, lavoratore, datore di lavoro, funzionario ministeriale, Ispettore del Lavoro, avvocato, giudice, qualsiasi operatore del settore debba recuperare il buon senso nell’utilizzo della discrezionalità che, grande o piccola che sia, è requisito intrinseco a qualsiasi funzione che un essere umano ricopre all’interno di un sistema produttivo e socio economico.
La ringrazio sinceramente per il tempo che vorrà dedicare a queste mie osservazioni, ascoltare le Sue parole è stato veramente utile, avendo scatenato in me riflessioni profonde su argomenti e situazioni spesso vissuti in prima persona con spiccato senso di operatività.
La saluto cordialmente e Le rinnovo i miei più sentiti complimenti per le idee profuse nel mondo giuslavoristico Italiano, che valuto non avere ancora un livello medio di maturazione professionale adeguato a ricevere.

Luca Bollettino, Hr Manager at Saint Gobain Vetri SpA
[ Luca.Bollettino@saint-gobain.com ]

RISPOSTA
Sul progetto semplificazione – Se comprendo bene, gli argomenti che Lei adduce contro il disegno di legge n. 1873/2009 possono essere utilizzati in senso opposto: il progetto mira proprio a quella maggiore chiarezza, semplicità e leggibilità della disciplina legislativa della nostra materia, che anche Lei auspica e che costituiscono  il presupposto indispensabile per una maggiore effettività di quella disciplina, per la riduzione del contenzioso giudiziale e per il conseguimento di un più alto grado di certezza del diritto.
Sul progetto flexsecurity – Il progetto mira a realizzare proprio quella condizione di non solitudine e assistenza di buona qualità per il lavoratore licenziato, che anche Lei auspica e che l’ordinamento attuale ignora totalmente: pensi, innanzitutto, alla possibilità per il lavoratore – prevista dal disegno di legge – di convertire almeno in parte l’indennità di licenziamento in un preavviso lavorato più lungo, in modo da consentirgli di cercare il nuovo lavoro dalla posizione di occupato e non di disoccupato; ma anche in modo da consentirgli di spiegare con calma la prospettiva del cambiamento di occupazione ai propri familiari, senza presentarsi ad essi con lo stigma negativo di chi “è stato cacciato”.  Pensi, inoltre, al forte incentivo all’attivazione di servizi moderni di assistenza intensiva al lavoratore nella ricerca del nuovo posto di lavoro.
Quanto all’ordinamento attualmente vigente, davvero Lei considera il ricorso sistematico alla Cassa integrazione come un buon metodo per affrontare le crisi occupazionali? Non pensa che – quando la speranza di ripresa del lavoro non c’è più – questo sia invece un  modo per “nascondere il sudicio sotto il  tappeto”, congelando il problema senza risolverlo?
Lei accenna ai “metodi” particolari cui i Direttori del Personale sanno fare ricorso per liberarsi dei lavoratori “di troppo”: non  pensa che sarebbe meglio poter affrontare queste situazioni in modo più civile e alla luce del sole?
Lei sostiene che il
severance cost negli altri Paesi europei maggiori è pari o superiore a quello italiano. Ora, a me risulta che in Germania l’indennizzo massimo per il licenziamento ingiustificato ammonti a 18 mensilità dell’ultima retribuzione; in Spagna a una mensilità per anno di anzianità di servizio; in Francia a 6 mensilità più il costo della convention de conversion, che è pari mediamente a una annualità di retribuzione; in Gran Bretagna all’importo di 62.000 sterline, che viene ridotto dai giudici in relazione all’entità della retribuzione e dell’anzianità del lavoratore licenziato, nonché alle altre circostanze. In Italia il severance cost in linea generale non è prevedibile, stante l’alea circa l’esito e la durata del giudizio; ma ipotizzando (molto ottimisticamente) che l’imprenditore abbia il 50% di probabilità di vincere tutti i gradi del giudizio, egli deve mettere in conto un altro 50% di probabilità di vedersi accollare un costo soccombenza (anche soltanto in uno dei gradi) che ammonta a quattro, sei, o persino otto o dieci annualità di retrribuzione, a seconda della durata del giudizio, più i relativi contributi previdenziali, più le relative sanzioni civili e amministrative per omissione contributiva.
Ma oltre a queste considerazioni sulla rigidità derivante dalla disciplina vigente per l’impresa rientrante nel campo di applicazione dell’articolo 18, vorrei farLe osservare che lo scopo principale della riforma proposta è quello di ricondurre nel campo di applicazione del diritto del lavoro – e della disciplina dei licenziamenti in particolare – molti milioni di rapporti di lavoro sostanzialmente dipendente che oggi ne sono di fatto esclusi. Lasciare le cose come stanno significa tollerare un regime di
apartheid che divide gli iper-protetti dai poco o per nulla protetti. Significa accettare un progressivo imbarbarimento del nostro mercato del lavoro nell’area dove non operano le persone come Lei, pensose della dignità del lavoro umano, ma imprenditori spregiudicati e sovente anche spietati.        (p.i.)

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