I GIUDICI, I BRIGATISTI E LA NUOVA GENERAZIONE RASSEGNATA

VORREI VEDER NASCERE UN MOVIMENTO POLITICO DI GIOVANI CONTRO IL REGIME DI APARTHEID NEL MERCATO DEL LAVORO CHE LI ESCLUDE, CONTRO I TABU’ CHE I TERRORISTI DIFENDONO CON LA VIOLENZA (E DAI QUALI ANCHE IL GOVERNO DI CENTRODESTRA SI LASCIA PARALIZZARE)

Intervista a cura di Serenella Mattera, pubblicata su il Riformista del 2 gennaio 2010

La prima sezione della Corte d’assise d’appello di Milano ha revocato gli arresti domiciliari a quattro imputati delle “Nuove Brigate Rosse”, condannati in primo grado nel giugno scorso a tre anni e sei mesi di reclusione. Uno dei bersagli dei nuovi brigatisti era il professore Pietro Ichino, senatore del Partito democratico: in alcuni dei discorsi intercettati nel corso delle indagini, che hanno portato alla condanna di 14 persone, si parlava di un possibile attentato nei suoi confronti.
Senatore, cosa pensa della decisione dei magistrati?
I giudici sanno quel che fanno. Evidentemente hanno ritenuto che siano venute meno le esigenze cautelari nei confronti di questi imputati: nessuno può valutarlo meglio di loro.
Si sente meno sicuro ora che questi quattro sono di nuovo in circolazione?
No. La valutazione dei giudici, probabilmente fondata anche sulla marginalità del loro ruolo nel gruppo e sul loro comportamento nel processo, mi sembra molto plausibile. Non dimentichiamo che si tratta di custodia cautelare e non di esecuzione di una condanna definitiva.
Tornano liberi dai domiciliari in particolare Amarilli Caprio e Alfredo Mazzamauro, i due giovani studenti universitari che secondo la sentenza facevano proselitismo per conto del Partito comunista politico militare nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano, quella dove lei insegna. Quanto ritiene sia concreto oggi il rischio che le università diventino terreno di coltura di nuovi estremismi?
Non mi sembra che questo rischio si sia aggravato o si stia aggravando, rispetto agli anni passati; né che i nuovi brigatisti siano in qualche modo rappresentativi della nuova generazione di studenti. I veri gravi rischi che le nostre università corrono, senza che gli studenti paiano preoccuparsene affatto, sono altri: lo scadimento grave della qualità dell’insegnamento e della ricerca, il soffocamento economico dovuto anche agli stipendi pagati a professori e ricercatori improduttivi.
Il pacco bomba alla Bocconi di Milano, pochi giorni dopo l’aggressione a Silvio Berlusconi in piazza Duomo, è un episodio che ha allarmato. Ritiene ci siano ragioni di temere, visti anche i toni dello scontro politico, un ritorno a un clima da anni ’70?
La situazione attuale è molto diversa da quella di allora. Il rischio che corre oggi la nuova generazione non mi sembra tanto quello di una deriva violenta, quanto semmai quello della resa politica.
Che cosa intende per “resa politica”?
Intendo l’acquiescenza nei confronti di una società chiusa e gerontocratica, che condanna i giovani alla dipendenza dalle generazioni precedenti. I migliori vanno all’estero, gli altri sembrano rassegnati. Mi piacerebbe veder nascere un movimento politico dei ventenni contro il dualismo del mercato del lavoro e del welfare italiano, contro il regime di apartheid che nel tessuto produttivo li esclude dalla serie A e limita il loro accesso alle serie B e C. Contro la cultura del “familismo amorale”.
Al processo, nel giorno della sua testimonianza, i nuovi brigatisti, l’hanno definita un “massacratore di operai”. Massimo D’Antona nel 1999, Marco Biagi nel 2002; lei, secondo i pm e la sentenza di primo grado, era il successivo “bersaglio umano”. I giuslavoristi come obiettivo. Che spiegazione si è dato in questi anni?
Il bersaglio del terrorismo di sinistra non sono genericamente i giuslavoristi, o gli economisti del lavoro, ma quelli tra di essi che più si adoperano per la riforma necessaria del nostro mercato del lavoro, anche a costo di infrangere i vecchi tabù.
Vuole dire che i brigatisti sostanzialmente difendono il regime di apartheid di cui parlava prima, che penalizza proprio i giovani?
Voglio dire esattamente questo.
Che idea si è fatto delle cosiddette Nuove brigate rosse, delle accuse che muovono allo Stato, del loro linguaggio, del loro intonare l’Internazionale nelle aule di tribunale?
Nei loro documenti c’è qualche elemento di novità rispetto al passato; ma, complessivamente, nel comportamento dei nuovi brigatisti mi sembra che prevalga l’imitazione dei loro predecessori, la ripetizione di vecchi riti.
Oggi si parla di riforme. Ritiene ce ne siano le premesse? Quali, secondo lei, le priorità? Quale dovrebbe essere l’approccio?
Alcune si stanno già facendo, con l’apporto determinante del Pd nell’elaborazione dei contenuti: penso soprattutto a quella delle amministrazioni pubbliche e a quella dell’Università. In altri campi, il centrodestra parla, parla, ma è ancora in surplace: per esempio sulla riforma dei grandi organi costituzionali; e sul mercato del lavoro, dove fino a poche settimane fa il Governo teorizzava addirittura che non occorresse alcuna riforma.
Il processo di appello inizierà il prossimo 15 aprile. In primo grado i magistrati le hanno riconosciuto 100 mila euro di risarcimento, per la “forte limitazione della vita di relazione e il patema d’animo” causato da una vita sotto scorta. La difesa di sette degli imputati chiede adesso l’inammissibilità e la revoca della sua costituzione di parte civile. Cosa ne pensa?
Mi sembra che la motivazione della sentenza di primo grado contenga una risposta molto netta e convincente a questa tesi, che peraltro una parte delle stesse difese degli imputati non condivide.
Com’è la sua vita oggi?
Sono ancora sotto scorta; e non sono il solo tra gli studiosi dei problemi del lavoro. Quando non sarà più necessaria una protezione particolare per nessuno di loro, sarà un grande passo avanti sulla via della trasformazione dell’Italia in un Paese normale.

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