L’ECONOMISTA “PADRE” DEL PARTITO DEMOCRATICO HA APERTO L’ASSEMBLEA COSTITUTIVA DELLA NUOVA CORRENTE ESPONENDONE PROBLEMATICAMENTE LE RAGIONI D’ESSERE, MA NON PRENDENDO POSIZIONE A FAVORE DI QUESTA SCELTA POLITICA
Relazione di Michele Salvati al convegno di Cortona del 18 dicembre 2009 di “Area Democratica”. Per chiarezza nei confronti di lettori ed elettori, preciso in proposito che non intendo aderire né a questa né ad altre “correnti” del Partito Democratico, perché non condivido la scelta di costituirle. Per quel che riguarda in particolare quella che fa capo a Dario Franceschini, ne condivido la concezione del Partito e l’obiettivo di riforma istituzionale, ma ho esposto a suo tempo i punti non secondari di mio dissenso.
Mi è stato affidato il compito di introdurre il dibattito e cercherò di svolgerlo in spirito di servizio, prospettando i problemi di cui dovete discutere con chiarezza e obiettività, l’obiettività raggiungibile da una persona che ha creduto a un’idea politica di partito democratico e ci crede ancora. In via generale i problemi che dovete affrontare sono due: (a) se ci siano le condizioni per la costituzione di un’Area Democratica all’interno del PD; e (b), se la costituzione di un’Area Democratica sia opportuna, per il partito e per il Paese. Il primo problema ha a che fare con la definizione di un nucleo di convinzioni minime, di un massimo denominatore comune, che i partecipanti all’area dovrebbero condividere. In un grande partito, aree o correnti sono inevitabili e possono essere opportune. All’interno di un’area, di una corrente, ulteriori suddivisioni sono evitabili e inopportune, se non si vuole ricadere nel caso descritto dalla teoria dei frattali: per quanto ci si divida per ricercare una mitica omogeneità, in ogni frammento si riproducono gli stessi motivi di divisione. Il secondo problema è diverso: anche se ci fosse tra molti di voi una solida e sincera condivisione di quel nucleo di convinzioni minime, comunque definito, ugualmente la costituzione e la formalizzazione di un’area potrebbe essere sconsigliata da motivi di opportunità politica, dalle condizioni in cui versano il partito e il Paese, oggi e nell’immediato futuro. Prendo le cose un po’ da lontano, per inquadrare la discussione nel contesto in cui si colloca l’azione dei partiti di centrosinistra in Europa e del Partito Democratico in Italia, ma vengo poi rapidamente ai due grandi problemi che ho appena indicato. Destra, sinistra e crisi economica La crisi fa male alle sinistre riformiste europee. Lo dice l’evidenza che tutti conoscete e lo conferma il ragionamento.
La sinistra, la sinistra riformista, il centrosinistra, la sinistra di governo –uso queste espressioni come sinonimi, a meno che non distingua esplicitamente – non ha in via generale un messaggio forte e credibile in questi tempi di crisi economica mondiale. Un messaggio più forte e credibile di quello delle destre. Romano Prodi, in un articolo sul Messaggero dello scorso agosto, ha sostenuto che questa situazione è paradossale: non è forse sempre stata, la sinistra, critica nei confronti del capitalismo o quantomeno dei suoi eccessi? E non è stata provocata, la crisi, dagli eccessi deregolativi ed iper-liberistici di questa fase del capitalismo? Non potrebbe dunque rivendicare, la sinistra riformista, questa progenitura critica? E rivendicare gli strumenti di controllo e regolazione che fanno parte della sua cassetta degli attrezzi?
La realtà è che la sinistra riformista ha da tempo abbandonato le sue critiche di principio al capitalismo, spingendosi persino, in alcuni dei suoi leader più prestigiosi, ad esaltare i fasti della globalizzazione: insomma, la sinistra riformista è stata presa in contropiede dalla crisi. La realtà è anche che i principali strumenti di regolazione, quelli di origine keynesiana, sono diventati patrimonio comune di tutti i partiti di governo, siano essi di destra o di sinistra. Un patrimonio disponibile a chi è più pronto ed abile a usarli e venderli sul mercato del consenso. E la realtà è infine che, nei Paesi europei – Paesi piccoli e medi, strettamente vincolati dai mercati internazionali – gli elettori percepiscono chiaramente che sinistra e destra non possono differenziarsi molto sul piano delle politiche macroeconomiche. Le cose sarebbero assai diverse se l’Unione Europea fosse capace di strategie macroeconomiche autonome, prevalendo sull’indipendenza degli stati membri. Ma così non è.
La possibilità di differenziazione tra destra e sinistra rimane tuttavia molto ampia sul piano delle misure microeconomiche e di politica sociale, sul piano delle riforme strutturali e della distribuzione del reddito: ma non è affatto detto che ciò avvantaggi la sinistra, come meglio vedremo fra poco riferendoci all’Italia. E la crisi fa bene alle destre. Non soltanto perché esse possono adottare strumenti regolativi e di intervento pubblico con la stessa libertà delle sinistre: come abbiamo appena visto, nessun partito di destra di governo si impicca a concezioni dottrinarie di laissez-faire. Ma soprattutto perché esse possono usare in modo spregiudicato, nel contesto di apprensione generato dalla crisi, l’appello tradizionalistico, antimoderno e illiberale che sta nelle loro corde e che la sinistra non può usare senza contraddire i suoi principi. Un appello alla difesa delle comunità nazionali e regionali, contro gli stranieri, contro gli immigrati: questo riscuote un grande successo presso i ceti più poveri, che concorrono con gli immigrati sui mercati del lavoro, nei servizi sociali e sanitari, negli alloggi.
La massiccia immigrazione spiega dunque in parte non piccola la perdita di consenso delle sinistre: il messaggio universalistico, solidaristico e umanitario della sinistra, per quanto qualificato, per quanto severo, convince assai meno di quello della destra, di una destra disposta, in alcune sue componenti, a percorrere l’intera strada che conduce da un ragionevole comunitarismo ad una aperta xenofobia. Insomma, le destre restano in vantaggio in un discorso di chiusura difensiva, legge e ordine, prima i cittadini e poi gli altri. La crescita, la speranza, la fiducia giovano alle sinistre, la paura alle destre. Ma la fiducia e la speranza devono essere credibili, corrispondenti a condizioni reali e ad atteggiamenti profondi dei cittadini.
Veltroni nel 2008 aveva fatto una bellissima campagna elettorale tutta basata su quei valori. Non sono risultati credibili. E in Italia neppure Obama sarebbe riuscito a farli sembrare tali. Quanto abbiamo ricordato in modo sommario spiega in buona misura, mi sembra, la prevalenza di governi di destra in questa fase storica. Poi ogni Paese fa storia a sé e la regola presenta numerose eccezioni. Se andiamo a vedere le eccezioni si possono scorgere altre due influenze, meno pronunciate, ma sufficientemente generalizzabili. La prima riguarda la vulnerabilità di chi governa in una situazione di crisi. In questo caso il disagio sociale spesso si riverbera sul governo: se pensiamo al 2013 e alle condizioni dell’economia italiana a quella data – alla disoccupazione che avrà raggiunto livelli difficilmente tollerabili, alla crisi di interi settori produttivi e di ampie aree territoriali – difficilmente il centrodestra potrà difendere la tesi che non si poteva far di più e che la colpa è tutta attribuibile a circostanze esterne. Soprattutto se altri Paesi a noi vicini se la cavano meglio. Ma il centrodestra potrebbe sostenere un’altra tesi: che lo sfidante, l’opposizione, non sarebbe in grado di fare di più e di meglio del governo che giunge al termine del suo mandato. E qui opera la seconda influenza. Non basta che la situazione del paese sia grave, per mandare a casa il governo in carica. E’ anche necessario che lo sfidante sia credibile. E la credibilità si basa su tre caratteri: sul carisma del leader, sulla percezione di compattezza e affidabilità della coalizione politica che lo sostiene, sul messaggio che trasmette, ancor più che sulla coerenza tecnica e sul dettaglio del programma che propone. Affidarsi solo al disagio sociale provocato dalla crisi e dall’incapacità del governo di farvi fronte, confidando che qualsiasi leader, qualsiasi coalizione, qualsiasi messaggio alternativo sia in grado di prevalere, può rivelarsi una pericolosa illusione. I recenti casi delle elezioni greche e portoghesi, la sconfitta del governo di destra in carica nel primo caso, e dello sfidante conservatore nel secondo, illustrano bene queste due influenze.
In disperata sintesi, questa è la lezione che possiamo trarre dall’esperienza europea e queste sono le tendenze e le influenze generali che possiamo vedere all’opera: tendenze e influenze che operano anche in Italia. Ma, come dicevo, ogni Paese è un caso a sé, e il caso del nostro mi sembra che aggiunga difficoltà al compito che il centrosinistra deve affrontare per aver successo nella sua critica al governo in carica. Un compito, lo ripeto, che consiste nel definire un leader, un partito, un messaggio competitivi e credibili. Le difficoltà maggiori mi sembrano quelle che passo ad elencare.
1. – La prima riguarda la natura dei problemi economico-sociali che il governo e la politica si trovano ad affrontare in Italia: un messaggio credibile non riguarda solo questi problemi, e ci torneremo, ma è indubbio che una risposta convincente sul piano economico-sociale è parte importante di un messaggio vittorioso.
Più sopra dicevo che, se sul piano delle politiche macroeconomiche è difficile differenziarsi con la destra, ci si può differenziare fortemente su quello delle politiche strutturali, sociali e distributive: in queste i margini di manovra dei singoli stati sono potenzialmente molto ampi. Potenzialmente. Lo sono anche di fatto, nel nostro Paese? Assai di più che nei Paesi con i quali ci confrontiamo, nel nostro una risposta efficace alla crisi comporta la necessità di riforme strutturali molto incisive e molto difficili. L’Italia soffre insieme di una crisi macroeconomica di origine esterna e di una debolezza strutturale di origine interna. Se mi si consente il gioco di parole, l’Italia era già in crisi prima che la crisi scoppiasse: una crisi interna che si era manifestata in un anomalo ristagno della crescita del reddito e della produttività per tutto lo scorso decennio, un ristagno che trae la sua origine in tratti profondi del nostro sistema istituzionale, economico e sociale. La breve e intensa attività riformatrice degli anni ‘90 non era riuscita a incidere con la profondità necessaria su questi tratti e basta menzionare tre grandi capitoli per dare un’idea del radicamento degli ostacoli che occorre affrontare. Capitolo settore produttivo privato: qui mi riferisco alla specializzazione e alla frammentazione della struttura produttiva, alla sua debole competitività in un contesto globalizzato e sempre più competitivo. Con tutta la simpatia, la gratitudine e la comprensione che possiamo avere per la piccola impresa così com’è oggi, è evidente che la politica economica deve orientare lo sviluppo verso il consolidamento, la modernizzazione gestionale, la differenziazione produttiva, la selezione delle imprese più grandi e competitive. Una politica economica molto difficile, dai risultati incerti e tardivi, poco gratificante in termini di consenso. Capitolo settore pubblico. Qui c’è un problema generale e tanti problemi particolari, tutti difficili. Il problema generale è quello dell’inefficienza delle amministrazioni pubbliche, che è sia un problema di disegno istituzionale (federalismo, per intenderci subito), sia un problema di riforma gestionale delle pubbliche amministrazioni (Brunetta-Ichino, sempre per intenderci rapidamente).
E poi ci sono tanti problemi particolari, che riguardano i singoli settori che forniscono servizi essenziali per le famiglie, le imprese, il contesto civile. Riformare la giustizia non è la stessa cosa che migliorare la sanità; intervenire sui servizi di pubblica sicurezza è cosa ben diversa dall’aggredire i problemi della scuola e dell’università. Anche qui, misure di riforma efficaci non sono certo fonte di consenso politico. Terzo grande capitolo, il Mezzogiorno: per tenere insieme il Paese, ancor prima che per ri-vitalizzare la nostra economia, bisogna mettere in moto un processo di crescita economica e civile più sostenuto nel Mezzogiorno che nel resto dell’Italia. Bisogna capire la ragione degli insuccessi delle riforme passate e disegnarne di nuove, nella consapevolezza che questo disegno non sarà certo fonte di consenso immediato.
Scusate la sommarietà dei richiami, ma qui siete tutti buoni intenditori e avrete colto subito il messaggio politico. Che è doppio. Il primo è già stato richiamato: un processo di riforma strutturale, indispensabile per rilanciare l’Italia del dopo crisi su quella pista di sviluppo che aveva abbandonato assai prima della crisi internazionale, si scontra con problemi seri di consenso. E’ dunque vero che in questi campi i margini di intervento nazionale sono potenzialmente più ampi che in campo macroeconomico; ma i vincoli politici possono risultare ancora più stringenti. E sono forse più stringenti per la sinistra che per la destra, se si pensa alla riforma del settore pubblico, dove si collocano i maggiori bacini di consenso della sinistra. E se si pensa ai rapporti più stretti che la sinistra ha tuttora con i sindacati e al fatto che non di rado i sindacati si frappongono a riforme incisive, che minacciano il benessere e il quieto vivere dei loro rappresentati. Il secondo messaggio è che un programma di riforme strutturali come quelle cui ho alluso è difficile derivarlo da tratti distintivi, da principi fondanti, della destra e della sinistra: nel grosso, riforme miranti a maggiore efficienza in condizioni di equità non sono di destra e di sinistra, sono efficaci o inefficaci. Se così stanno le cose, e se si tiene conto delle difficoltà di fare accettare ad una società stanca, abbarbicata alle proprie piccole sicurezze, sfiduciata nella politica, un processo di trasformazione strutturale, logica vorrebbe che i tratti essenziali di questo processo fossero ampiamente condivisi, che un forte spirito bi-partisan aleggiasse nel sistema politico. Questo spirito non aleggia e neppure svolazza, e qui veniamo ad una seconda difficoltà che incontra il centrosinistra nel proporre un leader/un partito/un messaggio credibili.
2. – E’ una difficoltà assai meno strutturale e profonda di quelle che abbiamo appena elencato, ma forse ancor più fastidiosa e comunque sconosciuta alle sinistre riformistiche che operano in Paesi più fortunati del nostro. Si chiama Silvio Berlusconi. Come reagire al fenomeno Berlusconi? La sua presenza non soltanto aggrava le difficoltà di riforma, rendendo poco credibili politiche condivise. Poco credibili non soltanto politiche condivise in materia di riforme costituzionali, pur necessarie; ma anche riforme relative ai problemi economico sociali prima ricordati. Berlusconi spacca il popolo della sinistra; aggrava divisioni tradizionali in essa latenti; provoca accuse reciproche -di indignazione fine a se stessa o di compromessi di basso livello- tra diversi pezzi del centrosinistra; allontana l’attenzione dai problemi profondi del paese facendola convergere su quello che è effettivamente un grave problema, ma uno solo, e che rischia di divorare tutti gli altri. Berlusconi impermeabilizza quel confine tra destra e sinistra che nei paesi civili è poroso e soggetto a cambiamenti, pianta muri più alti e profondi di quelli israeliani ed egiziani a Gaza.
Tutti sanno che manifestazioni come quella di due settimane fa a Roma non strappano un solo voto alle destre, ma molti dirigenti del partito sono indotti a partecipare non solo per esprimere una sincera indignazione, ma nel timore di perdere voti a sinistra, timore più che giustificato. Non è facile dare un’immagine credibile del profilo riformistico del partito, non lasciando però dubbi circa l’opposizione intransigente alle distorsioni costituzionali provocate dai conflitti d’interesse del premier e dal suo scontro con la magistratura. E non è facile reagire al “clima incivile” –è ormai una litania- che si è venuto a creare: Di Pietro, ma non solo Di Pietro, sono solo l’altra faccia del fenomeno Berlusconi e sopravvivono e cadranno insieme. Il problema è contingente, certo, ma probabilmente è destinato a durare almeno per i prossimi tre anni. E tre anni sono molto lunghi: sono quelli in cui il PD deve dare un’immagine di sé coerente per prepararsi alle elezioni. Sono quelli in cui il partito deve decidere qual è l’assetto costituzionale ed elettorale che auspica: l’urgenza di liberarsi al più presto di Berlusconi (e delle reazioni che suscita) può indurre a scelte che possono avere pesanti ripercussioni nel lungo periodo, del tipo: se in Italia il bipolarismo produce i Berlusconi, sbarazziamoci del bipolarismo. Ma questo è un problema sul quale torno fra poco.
3. – Terzo gruppo di difficoltà. Le sinistre riformiste di altri Paesi non provengono da traumi politici come quello che il nostro ha attraversato nei primi anni 90. E i partiti socialdemocratici che prevalgono in Europa non sono il frutto di fusioni di personale politico proveniente da partiti un tempo fieramente avversi. Sono contenitori culturali robusti, nei quali il contenuto può variare, e di molto, senza compromettere gravemente l’identità del partito, definita da tradizioni lunghe, sostenuta da memorie, affetti, riti, consuetudini. Sarebbe strano se in Italia, nel Partito Democratico, non ci fossero ancora problemi di amalgama, situazioni diffuse in cui le vecchie provenienze e le vecchie culture politiche pesano e provocano sotto-identità non giustificate dalle risposte agli effettivi problemi che il partito incontra oggi, negli anni 2000, e non da quelli del secolo scorso. L’amalgama non riuscirà appieno, le sottoidentità vecchie sono destinate a pesare, fino a che non emergerà una nuova cultura condivisa, finché il “Cari democratici/democratiche” con cui iniziate i vostri interventi non vi verrà spontaneo come i “Cari compagni/compagne” o i “Cari amici/amiche” con cui vi rivolgevate ai militanti dei vecchi partiti.
Cultura condivisa non vuol dire assenza di distinzioni interne, assenza di sottoidentità, assenza di aree o correnti: vuol dire una cultura che può legare insieme distinzioni interne alimentate da risposte parzialmente diverse a problemi nuovi, ai problemi degli anni 2000. E a me sembra che il dibattito che si è svolto nel congresso, le tre mozioni che in esso si sono sfidate, abbiano fatto un buon passo nella direzione di costruire una cultura comune, e definire sensibilità diverse legate a problemi dell’oggi e compatibili, mi sembra, con quella cultura. Ma la strada è ancora lunga.
Chiudo questa prima parte, di inquadramento generale. I problemi principali che il PD deve affrontare per trasmettere un’immagine chiara e convincente agli italiani, per trattenere i suoi elettori più indignati e nello stesso tempo sfondare il muro di Gaza interposto da Berlusconi tra “noi” e “loro” – tra i “comunisti” e i loro servi sciocchi da una parte, e il meraviglioso “popolo delle libertà”, dall’altra – credo che siano quelli che ho ricordato. Problemi più seri di quelli che altri partiti riformisti europei devono affrontare.
Confortati da risultati elettorali che, seppur negativi, non sfigurano nel confronto con quelli ottenuti da partiti simili in altri contesti europei, passo ora agli interrogativi di cui dicevo all’inizio, e che riguardano più da vicino Area Democratica. Li ripeto per memoria. Il primo riguarda un nucleo sufficiente di convinzioni comuni che tutti i partecipanti all’area dovrebbero condividere, una sorta di massimo comun denominatore. Il secondo interrogativo riguarda la stessa opportunità di costituire un’area nelle condizioni in cui versano il partito e il Paese. Non contrasta – la costituzione di un’area – con l’obiettivo di dare al partito un’immagine coesa e convincente? Non indebolisce o frammenta il suo messaggio? Non compromette l’autorevolezza del suo leader? Carisma del leader, chiarezza del messaggio, compattezza del partito e della coalizione sono condizioni indispensabili al successo elettorale, non dovremmo mai dimenticarlo. Veniamo dunque al primo interrogativo, al nucleo minimo sufficiente di convinzioni comuni.
Due idee di Partito Democratico. Anche se Romano Prodi e i suoi non lo vogliono riconoscere, l’idea originaria di Partito democratico è uno sviluppo coerente dell’idea dell’Ulivo: avendone discusso a lungo con Nino Andreatta, non ho dubbi in proposito. Errori ci sono stati, e tanti, dei quali tutte le componenti dell’Ulivo portano la responsabilità. Per memoria ricapitolo a sommi capi la sequenza attraverso la quale si arrivò alla costruzione del PD. Per non andare troppo indietro, parto dalle polemiche sulle liste unitarie per le elezioni del 2006, e ricordo le trionfali primarie di Prodi, la marcia indietro di Rutelli e il suo rilancio pokeristico: perché non il Partito Democratico, dopo le elezioni? Ricordo l’accettazione di tutti -di tutti, lo ripeto- di questa proposta, il crollo del governo dell’Unione nei sondaggi sino alla pesante sconfitta nelle amministrative del 2007, il panico successivo circa i rischi di tenuta del governo, la necessità di anticipare la nascita del nuovo soggetto politico, la designazione di Veltroni da parte della cupola dell’Ulivo e il nuovo rito plebiscitario delle primarie, la caduta del governo Prodi, le crescenti difficoltà di Veltroni come segretario, le sue dimissioni e poi il congresso secondo il nuovo statuto. E’ una storia che conoscete meglio di me e di cui l’intera leadership allargata dell’Ulivo porta la responsabilità. E’ vero, ammetterete. Molti di voi aggiungerebbero però di non portare alcuna responsabilità per le scelte di Veltroni segretario, per i suoi contatti con Berlusconi per una nuova legge elettorale, per il famigerato “andare da soli” poi smentito dall’infausta alleanza con Di Pietro. Giusto. Ma riconoscerete ancora che alle elezioni non si poteva andare con una nuova Unione e per di più monca del suo pezzo centrista: la storia non si fa con i se, ma è ragionevole prevedere che la sconfitta sarebbe stata altrettanto sonora e coll’ulteriore svantaggio di un PD compromesso nel suo sforzo identitario di partito di centrosinistra, di un partito tutto orientato a sinistra e schiacciato sulla tradizione laico-socialista.
Al di là degli errori, credo sia doveroso riconoscere che – nascendo il PD in quel momento inopportuno – necessariamente la sua nascita creava problemi al governo, proprio come il governo creava problemi al PD. Il PD creava problemi al governo perché non poteva non prendere una posizione critica nei confronti di alcune forze che il governo sostenevano, pena l’appannamento della sua identità, l’adesione supina all’Unione. E il governo creava problemi al PD perché il PD non poteva non sostenerlo con lealtà, al di là delle moderate critiche che gli rivolgeva, e quindi, agli occhi degli elettori, la sua presa di distanza da un governo sempre meno popolare non era credibile sino in fondo. E credo anche che Veltroni –penso al discorso del Lingotto- sia stato guidato da un’idea di PD non lontana da quella intorno alla quale Franceschini ha costruito la sua mozione. Un’idea, nella sostanza, basata su quattro pilastri: li descrivo rapidamente perché essi possono definire il massimo comun denominatore, il nucleo di convinzioni politiche dalle quali un’Area Democratica può essere circoscritta.
1. Una collocazione politico-culturale del partito non riconducibile esclusivamente alla tradizione socialista, e dunque non catalogabile come l’ultima metamorfosi del Pci, come la Cosa 3. E questo non soltanto perché si giudica essenziale, nella miscela costitutiva del partito, la tradizione del riformismo cattolico. Ma perché si considera la tradizione socialdemocratica come una tradizione esaurita nelle sue risposte storiche, anche se pienamente vitale nei suoi valori fondanti, di libertà, eguaglianza, democrazia, laicità, solidarietà verso i più deboli.
2. Il secondo pilastro è uno sviluppo del primo. Esso riguarda l’identificazione dei grandi problemi di riforma che presenta l’Italia di oggi, e il modo in cui affrontarli. Sono i problemi cui ho fatto cenno nella prima parte di questa introduzione: mi riferisco ancora al discorso del Lingotto e soprattutto ai recenti scritti di Giuseppe Berta sulla crisi delle socialdemocrazie. Qui mi limito a dire che un partito il quale riconosca le difficoltà e il limiti che oggi incontra la tradizione socialdemocratica farà proposte di riforma diverse da un partito il quale invece accentui la continuità con quella tradizione. Diversità non estreme, probabilmente mediabili, come suggerirò in seguito, ma sicuramente significative: basta pensare ai servizi pubblici locali o alla legislazione del lavoro, per rendersene conto.
3. Il terzo pilastro riguarda la natura del partito come organizzazione. Dalla constatazione della crisi dei partiti ideologici di massa del secolo scorso si era arrivati alla prospettiva non tanto di un partito “leggero”, ma di un partito a geometria variabile, con un ruolo significativo degli elettori non iscritti: elettori chiamati a consultazioni di massa in occasione di significativi momenti decisionali. Sia mediante primarie in senso proprio, per designare i candidati del partito a cariche istituzionali. Sia attraverso la scelta finale di alcune cariche del partito stesso.
4. Il quarto pilastro riguarda la collocazione del partito all’interno del sistema politico. Il sistema politico auspicato è quello della Seconda Repubblica, un sistema bipolare, depurato dai difetti che ha sinora manifestato. La ragione dell’auspicio risiede in due convinzioni: la prima è che si tratti di un sistema sia più efficiente (legislature lunghe), sia più democratico (scelta del governo da parte degli elettori); la seconda è che i suoi difetti nell’esperienza italiana siano emendabili. Emendabile la legge elettorale, con un sistema uninominale a doppio turno. Migliorabile il contesto costituzionale, bozza Violante o simili proposte. E soprattutto superabile il motivo di fondo della disfunzionalità attuale, Berlusconi, il suo stile di governo, le reazioni che provoca.
Berlusconi è stato l’artefice principale del bipolarismo all’italiana: all’italiana, appunto, con i caratteri negativi che conosciamo. L’auspicio è che, quando Berlusconi uscirà di scena, il bipolarismo non esca di scena con lui, cosa possibile, forse probabile. Si tratta di un auspicio non diverso da quello che, nell’altro campo, esprime Gianfranco Fini. Credo che Panebianco sbagli a pensare che Fini voglia collocarsi in un partito di centro in un contesto proporzionale. Semmai vuol convincere Casini a partecipare ad un centrodestra civile in un contesto bipolare, un partito che emargini le pulsioni incivili che albergano nella Lega.
Questi quattro pilastri, ma soprattutto il primo e il quarto, sono il nucleo della posizione politica che avete condiviso appoggiando la mozione Franceschini, e dunque il nucleo potenziale di Area Democratica. Un corollario immediato e importante del primo e del quarto pilastro è quella cosa che è stata chiamata “vocazione maggioritaria” e sulla quale occorre dissipare alcuni equivoci. Non è pretesa di andare da soli. E’ semplicemente la convinzione di poter rappresentare la maggioranza relativa degli elettori e, in virtù di questo, poter aspirare al governo in un sistema bipolare. Assai probabilmente attraverso una coalizione con partiti minori, che però non contestino l’egemonia del partito maggiore e la sua aspirazione a guidare il governo. Proprio perché il partito maggiore non è una Cosa 3, non è l’ultima metamorfosi del Pci, non c’è bisogno di un Prodi per guidare la coalizione: il PD ha il diritto di designare un politico, un suo dirigente, alla presidenza del consiglio e, se il PD è il partito descritto nel primo pilastro, anche gli elettori moderati non dovrebbero avere reazioni negative. Nel congresso ha prevalso una concezione politica piuttosto diversa da quello che ho appena descritto e che, per facilitare il confronto, descrivo nello stesso modo, quattro pilastri e un corollario.
1. La collocazione politica e culturale del partito è quella della sinistra democratica e riformista: in Europa essa è rappresentata dai partiti socialdemocratici e non si vede perché in Italia non dovrebbe, a regime, essere lo stesso. Certo, il riformismo cattolico è un ingrediente essenziale del PD. Ma la presenza di riformismi a forte motivazione religiosa è significativa anche in altri partiti socialisti europei e, di nuovo, non si vede perché non dovrebbe avvenire lo stesso nel nostro Paese. A regime, naturalmente, una volta attenuatesi le memorie dei diversi partiti d’origine.
2. Il secondo pilastro riguarda le riforme in campo economico-sociale, quelle più significative per definire l’identità di un partito riformista, e dunque le risposte ai problemi evocati nella prima parte di questa introduzione. Le menziono soltanto, perché questo pilastro è perfettamente simmetrico al pilastro corrispondente della concezione di partito descritta più sopra: attenzione al sindacato, rapporti stretti con le rappresentanze dei ceti produttivi, e non è necessario proseguire. Una difesa intelligente di una pratica di riforme socialdemocratiche adatta ai tempi e alle condizioni italiane l’ha fatta Salvatore Biasco sia nel suo libro, sia, e più esplicitamente, in un articolo sull’ultimo numero del Mulino.
3. Circa l’organizzazione del partito, anche se la partecipazione della cerchia esterna degli elettori non è rinnegata, l’idea è quella di un partito tradizionale, di una associazione di cui i soci, gli iscritti, sono i domini. E la democrazia, di conseguenza, è una democrazia degli iscritti. Certo, si riconosce che i grandi partiti ideologici di massa sono in difficoltà ovunque. Ma tentare di superare questa difficoltà attraverso un ibrido della forma partito europea e di quella americana può rivelarsi un rimedio peggiore del male. In un contesto ancora assai lontano dal bipartitismo –è in questo che ci possono essere primarie in senso proprio- e quando per vincere sono necessarie coalizioni con forze politiche che non accettano primarie dominate dal PD, come fare? Insomma, le primarie sono più un impedimento che un vantaggio. E anche la designazione finale delle più alte cariche del partito da parte degli elettori crea più problemi di quanti ne risolva.
4. Circa poi il sistema politico ed elettorale, il quarto pilastro dice semplicemente che il bipolarismo non è un dogma di fede e che alle leggi elettorali non ci si impicca: si tratta di mezzi, non di fini. Certo, non si nega che, quando il bipolarismo funziona bene, esso è un sistema politico più efficiente e più democratico che un sistema pluripartitico, con di una legge elettorale proporzionale, con governi fatti e disfatti in parlamento. Ma è solo Berlusconi la causa del cattivo funzionamento del bipolarismo all’italiana? O il bipolarismo è inadatto ad un Paese di guelfi e ghibellini come il nostro, perché eccita contrapposizioni estreme e impulsi populistici, perché impedisce le mediazioni di elite politiche moderate e sapienti? E poi, al di là dei guasti che provoca nel Paese, sicuramente il bipolarismo danneggia la sinistra. Esso la costringe ad alleanze con le sue frange radicali e rafforza un pregiudizio antisinistra già forte nel paese per ragioni antiche.
L’Italia è un Paese “naturaliter” di destra, come disse un vostro dirigente, e solo alleanze sapienti possono avvicinare il partito all’area di governo. Anche per questa concezione il corollario segue dalla combinazione del primo e dell’ultimo pilastro, dalla concezione del partito e del sistema politico auspicabili. Proprio perché il partito è concepito come un tradizionale partito socialdemocratico e di sinistra – e non come partito nuovo e di centrosinistra – prevale la sfiducia che esso possa ambire a governare il Paese prevalendo in uno scontro diretto, bipolare, con il centrodestra e dunque realizzando nei fatti la sua “vocazione maggioritaria”.
La sfiducia viene da lontano, dal Pci, e allora era ovviamente giustificata: anzi, più che giustificata, perché a livello nazionale il Pci non avrebbe potuto governare neppure con la malleveria della Dc. Ma è rimasta in molti che provengono da quella esperienza, da coloro che si sono formati ai tempi del compromesso storico e dall’analisi berlingueriana delle tragiche vicende cilene, una forte diffidenza rispetto all’idea che un partito di sinistra possa governare il paese da solo, non protetto dalla garanzia di forze centriste. Ma questo avviene – credo – perché essi hanno tuttora in mente un partito di sinistra che spaventa gli elettori moderati, e non hanno assimilato il passaggio tra questo e un partito di centrosinistra che gli elettori moderati non dovrebbe spaventarli.
L’area democratica. Ci sono le condizioni? E’ opportuna? Ho estremizzato consapevolmente il contrasto tra le due diverse concezioni di partito e di sistema politico per portare alla luce con maggiore nettezza i problemi di cui dovreste discutere oggi. Li riprendo in esteso. Il primo problema è quello di un nucleo comune di convinzioni politiche, condiviso all’interno dell’area e respinto invece in altre aree del partito. La contrapposizione è sicuramente meno rigida di come l’ho rappresentata, e i quattro pilastri non sono così strettamente connessi come li ho rappresentati. Avrete infatti notato che non ho particolarmente insistito sul terzo pilastro, sull’organizzazione interna e le primarie. Non ho insistito, non sono andato a fondo, non perché pensi che si tratti di un problema poco importante, ma perché credo sia relativamente indipendente dagli altri. Il problema però rimane e va discusso: che non si faccia una primaria, una sola, per le candidature regionali –anche dove sarebbe possibile perché la primaria non ostacola candidature di coalizione- dà da pensare. La concezione “primarista” può essere abbandonata, lo zelo primarista può essere smorzato, ma non dovrebbero essere abbandonati o smorzati stancamente, sotto silenzio. Si tratta di una parte importante delle statuto, e vale per la vita interna del partito ciò che vale per il Paese: se le leggi che esistono non sono rispettate crescono la sfiducia e il distacco dei militanti. L’idea delle primarie è stata un pezzo importante della costituzione materiale del PD. Se lo statuto è considerato troppo rigido, troppo complesso, in alcune parti addirittura inattuabile, lo si discuta esplicitamente.
Anche i primaristi più convinti si rendono conto che non è facile una miscela tra una concezione di partito americana ed una europea; che l’appello agli elettori propri è difficile in un sistema pluripartitico, dove sono necessarie mediazioni e negoziazioni; che il rapporto tra elettori e iscritti per la nomina dei dirigenti va ricalibrato. Ma infischiarsi dello statuto, passare la cosa sotto silenzio, far finta di niente, non compromette solo la democrazia delle primarie, ma anche la vecchia democrazia associativa, quella degli iscritti. E avrete anche notato come non abbia insistito a fondo sulle conseguenze dell’una o dell’altra concezione di partito sul programma di riforme, riforme liberal-democratiche o socialdemocratiche. Non ho insistito non perché pensi che differenze non ci siano o siano irrilevanti: tra un Ichino e un Damiano le differenze sono evidenti. Non ho insistito per due motivi. Il primo è che tra i critici e i sostenitori intelligenti della socialdemocrazia, tra i Berta e i Biasco, un punto di mediazione sostenibile non è difficile trovarlo, sia in generale che riferma per riforma. Il secondo motivo non riguarda la teoria e l’ideologia, ma la cucina politica. Per intenderci: fino a che punto scontrarsi col sindacato sull’articolo 18? Fino a che punto scontrarsi con il partito degli amministratori sui servizi pubblici locali? Il benessere dei consumatori, l’innovazione, l’efficienza delle istituzioni pubbliche configgono piuttosto spesso con interessi e insediamenti tradizionalmente difesi e mediazioni e compromessi sono necessari. La prima concezione di partito, un orientamento liberal-democratico, ne vorrebbe di meno; la seconda concezione e l’orientamento più tradizionale ne vorrebbe di più. Ma è questione di misura e l’accordo non è impossibile. L’accordo è più difficile, mi sembra, sugli altri due pilastri, e sui corollari che ne seguono: questa é la ragione dello scontro tra le due aree del partito e per questo vi ho insistito. Vi sembra una raffigurazione caricaturale o troppo estrema? Purtroppo, e sottolineo purtroppo, a me non sembra. Guardate alla reazione spontanea che alcuni esponenti delle due aree hanno avuto nei confronti della fuoriuscita di Rutelli e pochi altri e altre, e del fatto che molti di più sembrano stare con la valigia in mano. Qui si mischiano sia i problemi di amalgama mal riuscito, sia le concezioni del partito che abbiamo rappresentato, ed ora insisto su queste. Rutelli, come ho ricordato, è stato l’autore (il colpevole?) dell’accelerata finale che ha dato vita al PD e per i sostenitori della prima concezione la sua fuoriuscita è un segnale preoccupante: al di là di motivazioni personali, significa che a suo giudizio la vittoria della seconda concezione è una vittoria definitiva, che lo spazio per combattere sperando di convincere il grosso del partito è inesistente. Per i fautori della seconda concezione, non solo non si tratta di un segnale preoccupante, ma – esagero solo un poco – di un evento desiderato. “Bene – questo è il giudizio implicito – così si rafforza un’area politica di centro con la quale potremo allearci già da subito, e soprattutto quando sarà possibile tornare ad un sistema elettorale proporzionale. Nel frattempo potremo raccogliere, senza troppi malumori interni, i transfughi alla nostra sinistra, quelli che si sono pentiti della loro esperienza in partitini radicali e vogliono tornare in un grande partito a ispirazione socialdemocratica”. Sto facendo una caricatura?
E’ venuto ora il momento di concludere, affrontando il secondo problema che dovete discutere: se vi convince la raffigurazione che ho dato delle due grandi concezioni di partito e di contesto politico che albergano nel PD, se non vi sembra troppo estrema – dunque se esistono buone ragioni per la costituzione di un’Area Democratica – è opportuno costituirla nelle attuali condizioni del partito e del Paese? Come portare avanti le concezioni di quest’area in un partito nel quale ha prevalso nettamente la concezione opposta? E’ possibile farlo senza compromettere all’esterno l’immagine del partito, la chiarezza del suo messaggio e l’autorevolezza del suo segretario? Un indebolimento di questi caratteri – vi abbiamo insistito fin troppo a lungo – prepara sconfitte elettorali e il patriottismo di partito dovrebbe prevalere su quello di area. Proprio come il patriottismo di Paese dovrebbe prevalere su quello di partito. Chi ha intenzione di costituire un’area ha naturalmente una risposta pronta: se la linea del partito è “sbagliata” è questo che porta alla sconfitta, non chi combatte per una linea “giusta”. A un osservatore esterno come sono io – anche se molto “partecipante”, come direbbero i sociologi – questa risposta convince sino a un certo punto. Un comune cittadino fa fatica a prender parte per il giusto e lo sbagliato, specie quando questi giudizi riguardano problemi astrusi e politichesi come riforme elettorali e costituzionali o concezioni di partito: vede solo un conflitto interno che non riesce a capire e dà un giudizio negativo. E’ quindi importante, se si decide di costruire un’area, non dare questa impressione esterna e quindi riflettere a fondo sui temi e sui modi in cui organizzare il confronto interno.
Circa i temi ho già osservato che alcuni si prestano in modo più facile a compromessi accettabili e senza pericolose ricadute esterne: sono il secondo e il terzo dei nostri pilastri. A mio giudizio, non è impossibile raggiungere un compromesso accettabile sulla questione delle primarie e ottenere che questo sia sancito da una modifica dello statuto: una modifica che poi comporti una applicazione seria dello statuto stesso. E non è impossibile raggiungere mediazioni accettabili su molti temi di politica economico-sociale, un compromesso tra liberaldemocratici e socialdemocratici seri e non estremisti, tra i Berta e i Biasco per tornare ai nostri eroi eponimi. Su molti di questi temi, oltretutto (esempi: istruzione e università, riforma della pubblica amministrazione, lavoro-pensioni-welfare, politica industriale, Mezzogiorno…) la varietà di opinioni nel PD, mi sembra, non si lascia accorpare per mozioni e per aree. La cosa importante è costruire dei policy networks efficienti, affiancati dai migliori esperti esterni, e assicurarsi che vi partecipino attivamente degli esponenti dell’Area, se decidete di costituirla. E’ più facile invece che il confronto si inasprisca su alcuni temi sui quali i dissensi sono più forti e le possibilità di mediazioni minori (esempi, ma spero di sbagliarmi: riforma costituzionale, federalismo, giustizia, laicità). Dove non credo di sbagliarmi è sulla inconciliabilità del contrasto sulla legge elettorale e sulle prospettive future del sistema politico, e in particolare sulla politica delle alleanze: qui non c’è che affidarsi, per evitare pericolose ricadute esterne, alla lealtà e al senso di responsabilità di tutti.
Lealtà e senso di responsabilità: queste virtù saranno tanto più praticate quanto più l’area e i suoi principali esponenti – sempre se decidete di costituire un’area – avranno uno spazio nelle reali sedi decisionali del partito quanto meno commisurato al loro peso elettorale, se non al valore delle loro proposte… e con questa osservazione sono arrivato ai modi in cui l’area può organizzarsi, alla cucina. La cucina è importante e tra voi ci sono politici che possono insegnarvi come la cucina delle correnti funzionava, sia in un partito che tranquillamente le riconosceva, sia in un altro che le aveva ma si rifiutava di riconoscerle. La funzione di una corrente è quella di tener viva e sviluppare una posizione politica, di assicurare che i suoi esponenti non siano emarginati, al centro e alla periferia, di lavorare per il suo rafforzamento e la sua prevalenza in futuro. Un’area deve avere dei leader: come ricorderete, in molti partiti le correnti addirittura si definivano attraverso il nome del leader.
Un’area deve avere dei mezzi. Deve avere un’organizzazione, delle persone che lavorano allo scopo di sostenerla e svilupparla. Deve avere la possibilità di organizzare iniziative, convegni, seminari, scuole. E questo ci fa ritornare al problema dell’organizzazione del partito: come si organizza un’area nel contesto di un partito che fa primarie ed elegge i suoi dirigenti col voto degli esterni, dei simpatizzanti? Questa è una novità, anche per i più esperti di correnti nei vecchi partiti. Mi vergogno di andare avanti perché, a differenza di molti di voi, io in cucina non ci sono mai stato. E dunque concludo qui. Mi era stato affidato un compito analitico. Di sollevare problemi, non certo di risolverli.
Ovviamente ho opinioni e forse sono trapelate: ma non era per difendere queste opinioni che mi avete conferito l’incarico di aprire il vostro confronto. Spero soltanto di aver assolto il compito in modo adeguato, di aver messo in ordine il tavolo della discussione, di aver sollevato problemi che avete voglia di affrontare ed è utile discutere. E vi auguro buon lavoro.