UNA GENERAZIONE A RISCHIO

I 780.000 POSTI DI LAVORO ITALIANI PERSI NELLA CRISI, SECONDO I DATI PUBBLICATI DALL’ISTAT IN QUESTI GIORNI, SONO QUASI TUTTI RAPPORTI A TERMINE O ATIPICI. E QUASI TUTTI DI GIOVANI. AI QUALI STIAMO PREPARANDO UN FUTURO DI LAVORO SENZA SICUREZZA DI CONTINUITA’ DEL REDDITO, CON POCA FORMAZIONE E PROSPETTIVE PENSIONISTICHE MOLTO POVERE. E’ UN’INTERA GENERAZIONE SACRIFICATA DALLE GENERAZIONI PRECEDENTI, SULLA QUALE E PER LA QUALE IL PAESE NON E’ CAPACE DI INVESTIRE.

Articolo di Pietro Garibaldi, ordinario di economia del lavoro nell’Università di Torino, pubblicato su La Stampa del 18 dicembre 2009 

     Mentre i segnali di ripresa per il 2010 fortunatamente si intensificano, dal lato dell’occupazione l’onda lunga della recessione si sta abbattendo a piena forza sul mercato del lavoro.
     I dati sull’occupazione del terzo trimestre sono davvero brutti e mostrano chiaramente che le categorie più colpite dall’onda lunga della recessione sono i giovani e il resto dei lavoratori precari. Il vero rischio è che in Italia si stia per perdere un’intera generazione, come già avvenuto in Giappone durante la grande crisi degli Anni 90. In questi anni i giovani lavoratori italiani sono entrati sul mercato del lavoro con minori tutele, con più bassa probabilità di ricevere formazione professionale e con salari, a parità di istruzione e altre condizioni, più bassi. Ora che è arrivata la grande crisi, a pagarne le conseguenze sono ancora loro.
     A livello di intero Paese, un calo di mezzo milione di posti di lavoro in un anno non si vedeva dal 1992. In quel terribile anno l’Italia, nel mezzo di Tangentopoli e di drammatiche stragi, registrò per la prima volta dal dopoguerra un calo dei consumi aggregati. Il peggioramento rispetto a quel terribile anno è spiegabile. All’inizio degli Anni Novanta per ridurre l’occupazione era necessario licenziare, una pratica difficile e odiosa per tutti i datori di lavoro. Oggi, viceversa, è sufficiente non rinnovare alla scadenza un contratto a termine o a progetto. Non stupisce quindi che tra il mezzo milione di posti di lavoro persi, 220 mila siano concentrati tra i lavori a termine e altri 150 mila tra i lavoratori autonomi, dove si ritrovano i contratti a progetto, l’esempio più clamoroso di lavoratori precari. Tra l’altro, nelle inchieste dell’Istat, 40 lavoratori su cento dichiarano che nella sostanza il loro progetto non esiste e che svolgono semplicemente un lavoro subordinato. Non credo che si debba tornare alle rigidità del 1992 e che sia stato un errore introdurre varie forme di lavoro flessibile in Italia. L’incredibile crescita di posti di lavoro che abbiamo registrato tra l’inizio del decennio in corso e l’arrivo della recessione, è avvenuta proprio grazie a quella flessibilità e all’opportunità delle imprese di inserire in azienda giovani lavoratori in via sperimentale.
     Durante la grande recessione stiamo però scoprendo l’altra faccia della medaglia della flessibilità introdotta. Il vero problema è che a subire le conseguenze della grande recessione sull’occupazione sono principalmente i giovani. Il tasso di disoccupazione giovanile è passato dal 18 % del 2008 al 27 % degli ultimi mesi. Non è vero, come spesso si sente dire, che la disoccupazione giovanile ha pochi effetti sulla vita lavorativa. È invece vero che chi inizia male sul mercato del lavoro avrà per tutta la vita salari più bassi e minori opportunità occupazionali. Alcuni studi per diversi Paesi lo hanno chiaramente dimostrato. Uno studio inglese ha addirittura dimostrato che una prolungata disoccupazione giovanile può avere effetti sulle condizioni di salute di lungo periodo.
     Il Paese non può permettersi di perdere un’intera generazione. La risposta più strutturale al problema del dualismo italiano sarebbe forse quella di introdurre un contratto unico a tutele progressive e crescenti, in modo da dare ai giovani una prospettiva di lungo periodo, mantenendo al tempo stesso alle imprese la possibilità di sperimentare l’adeguatezza dei nuovi assunti. Sarebbe una riforma senza alcun costo per le casse dello Stato. Introdurre un salario minimo nazionale, che tra l’altro esiste nella maggior parte dei paesi avanzati, sarebbe una seconda coraggiosa riforma per ridurre la precarietà. Anche questa senza alcun impatto sulla spesa pubblica. Il sussidio di disoccupazione per i giovani, viceversa, avrebbe un costo per le casse dello Stato, ma sarebbe comunque una riforma doverosa. Di queste e altre idee di riforma si è in realtà parlato in questi giorni in commissione lavoro al Senato. Ma ai centinaia di migliaia di giovani che hanno perso il lavoro, e che fanno fatica a trovarne uno nuovo, una seria discussione politica non è sufficiente. Hanno diritto a risposte concrete.

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