TRA GLI ASPETTI POSITIVI L’AFFERMAZIONE NETTA DEI PRINCIPI DI TRASPARENZA TOTALE E DI VALUTAZIONE INDIPENDENTE. TRA QUELLI NEGATIVI LA RILEGIFICAZIONE DELLA MATERIA, CON LA CORRISPONDENTE RIDUZIONE DELL’AUTONOMIA COLLETTIVA, CHE SOTTINTENDE UNA FONDAMENTALE SFIDUCIA DEL LEGISLATORE NELLA CAPACITA’ DEL MANAGEMENT PUBBLICO DI RIAPPROPRIARSI DELLE PROPRIE PREROGATIVE DIRIGENZIALI
Il testo che segue, di Alessandro Bellavista (ordinario di diritto del lavoro nell’Università di Palermo), costituisce una appendice – redatta in funzione della pubblicazione degli atti congressuali – alla sua relazione introduttiva al congresso dell’Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e Sicurezza Sociale svoltosi a Catania dal 21 al 23 maggio 2009, sul tema “Il datore di lavoro pubblico”. V. anche, , nel Portale della trasparenza e della valutazione, il testo della legge n. 15/2009 e del decreto delegato, n. 150/2009.
Quasi simultaneamente alla definizione della presente relazione, il Governo aveva esitato lo schema di decreto legislativo attuativo della legge n. 15/2009. E, in effetti, l’esposizione orale dei punti salienti della relazione e gli interventi al riguardo dei congressisti hanno avuto come sfondo anche la bozza di decreto che già circolava, mediante la sua pubblicazione sul sito istituzionale del Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione. A seguito del completamento del percorso procedurale, delineato nella legge n. 15/2009 e, in particolare, acquisiti l’intesa e il parere della Conferenza unificata, il Governo, nella seduta del 9 ottobre 2009, ha emanato il testo definitivo del decreto legislativo: e cioè, il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, avente come titolo “Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”.
L’esposizione dettagliata dei contenuti del decreto va al di là dei limiti di questa appendice che ha il solo scopo di riprendere alcuni dei punti trattati dalla relazione e verificare se e in che modo le relative indicazioni della legge delega siano state recepite. Anzitutto, va detto che il decreto, al pari della legge delega, contiene luci e ombre. Quanto alle luci, è da apprezzare il tentativo del legislatore di costruire un modello normativo volto ad imporre a tutte le pubbliche amministrazioni di realizzare i principi della valutazione indipendente e della trasparenza totale, con la finalità del miglioramento della qualità dei servizi offerti e perseguendo il risultato ultimo della soddisfazione dei cittadini-utenti. Tuttavia, il sistema congegnato è in toto vincolante solo per le amministrazioni statali, mentre gli enti territoriali hanno un relativo margine di adeguamento non del tutto chiaro e che può permettere anche soluzioni contrastanti con lo scopo perseguito dal legislatore.
Il decreto, in sintonia con la legge delega, resta laconico sulla responsabilità delle amministrazioni statali che non attuano il modello di valutazione e trasparenza o non raggiungono un adeguato livello di performance (ormai la lingua italiana è decaduta a tal punto che il legislatore fa uso di termini d’importazione!). A questo proposito, è sorprendente l’art. 15 del decreto, intitolato “responsabilità dell’organo di indirizzo politico-amministrativo”. La disposizione, in evidente contraddizione con il suo titolo, si limita a fissare i compiti degli organi di indirizzo politico-amministrativo quanto all’attuazione del modello definito dal legislatore. Però, essa non prevede alcuna sanzione nei confronti degli organi di indirizzo politico-amministrativo nel caso di mancato adempimento delle relative prescrizioni. La non attuazione del sistema di misurazione, valutazione e trasparenza della performance comporta sanzioni solo a carico dei dirigenti, e, qualora non vengano conseguiti gli obiettivi predefiniti, anche a danno dei lavoratori sotto il profilo della mancata erogazione degli incentivi previsti dalla contrattazione integrativa. Inoltre, nel decreto manca l’attuazione della previsione della legge delega secondo cui le amministrazioni pubbliche che avessero raggiunto una soglia di efficienza inferiore allo standard predefinito sarebbero state gravate da un obbligo di riallineamento, la cui violazione logicamente avrebbe dovuto essere assistita da un adeguato meccanismo sanzionatorio. L’unico riferimento al riguardo è che la collocazione dell’amministrazione nella graduatoria di performance, predisposta dalla nuova Commissione di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 150/2009, incide sulla distribuzione della quantità di risorse disponibili per la contrattazione integrativa. Peraltro, il Governo ha scorporato dal decreto la parte relativa alla cosiddetta class action, che al momento risulta essere regolata in uno schema di decreto legislativo in fase di elaborazione.
Insomma, tutto il decreto, anche qui come nella legge delega, è pervaso dal mito della superiorità della regolazione unilaterale del lavoro pubblico rispetto a quella per via contrattuale. Forse alcune precisazioni sarebbero state necessarie. In effetti, in alcuni casi, la contrattazione collettiva nazionale e, molto più frequentemente, quella integrativa sono andate oltre i limiti fissati dalle rispettive fonti (per la prima, la legge; per la seconda, la legge e lo stesso contratto nazionale). L’interazione tra i due livelli contrattuali ha prodotto molteplici effetti perversi: la negoziazione su materie tipicamente organizzative, rientranti nelle prerogative dirigenziali e quindi non contrattabili, alla strega di una coerente lettura del quadro normativo di riferimento; la creazione di istituti fantasiosi e bizzarri, la cui applicazione ha sempre determinato un incremento della spesa pubblica; il disegno di un sistema di partecipazione sindacale estremamente intricato, in cui talvolta è impossibile comprendere quali siano le materie oggetto delle singole forme di partecipazione (informazione, consultazione, concertazione, contrattazione) con l’inevitabile propensione, nella realtà effettuale, a fare confluire il tutto in una sostanziale cogestione analoga a quella tanto deprecata in voga sotto il regime della legge quadro del 1983.
E’ quindi condivisibile l’obiettivo dichiarato dall’art. 1 del decreto di assicurare “il rispetto degli ambiti riservati rispettivamente alla legge e alla contrattazione collettiva” e, come con ostinazione si precisa in ben altre due disposizioni (cfr. gli artt. 32 e 53), “il rispetto della ripartizione tra le materie sottoposte alla legge, nonché, sulla base di questa, ad atti organizzativi e all’autonoma determinazione dei dirigenti, e quelle sottoposte alla contrattazione collettiva”. Tuttavia, proprio questa finalità poteva essere meglio realizzata con piccoli interventi di manutenzione normativa e soprattutto con una più coerente strategia contrattuale del negoziatore pubblico.
Così, il decreto sceglie la strada di una forte riduzione dello spazio negoziale. In sostanza, su alcune materie tipicamente inerenti al rapporto di lavoro (sanzioni disciplinari, valutazione delle prestazioni e percentuali di personale aventi diritto al trattamento accessorio, mobilità, progressioni economiche), la contrattazione collettiva (nazionale e integrativa) potrà intervenire solo nei ristretti limiti fissati dalla dettagliata e inderogabile regolazione legislativa. Ad esempio, è stabilito in modo perentorio che vi dovranno essere quote di personale escluse dal godimento dei premi di produttività, indipendentemente dal livello di performance raggiunto dall’amministrazione presso cui prestano servizio. Meno rilevante è la previsione esplicita di alcune materie escluse dalla contrattazione collettiva, poiché si tratta di oggetti rientranti nell’organizzazione e che, già prima della riforma, erano ritenuti non contrattabili in base al quadro normativo di riferimento.
Il sistema contrattuale nazionale risulta oggi intensamente centralizzato, tramite una forte riduzione dei comparti (che dovrebbero essere al massimo quattro) e con l’attribuzione del ruolo di vero e proprio dominus al Governo, comprimendo in modo netto l’autodeterminazione delle varie amministrazioni. Così, dovrebbe scomparire il comparto Università; e la Conferenza dei Rettori, che prima esprimeva un proprio comitato di settore, si limiterebbe ad essere sentita dal Governo al fine della predisposizione dell’atto di indirizzo all’Aran. Laddove l’autonomia degli enti è consacrata costituzionalmente, il decreto ammette l’esistenza di uno o più comparti per gli enti territoriali, e di due correlativi comitati di settore, ma sancisce che “le risorse per gli incrementi retributivi per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali delle amministrazioni regionali, locali e degli enti del Servizio sanitario nazionale sono definite dal Governo…previa consultazione con le rappresentanze istituzionali del sistema delle autonomie”. La disposizione è probabilmente talmente invasiva che il decreto è costretto, in premessa, nella parte motivazionale, a sottolineare che “gli enti territoriali chiedevano di prevedere che la determinazione delle risorse per gli incrementi retributivi destinati al rinnovo” dei suddetti contratti “avvenga previa concertazione con le proprie rappresentanze”.
La contrattazione integrativa è messa drasticamente sotto tutela ed è assoggettata a stringenti limiti, quanto alle procedure da seguire, e a densi controlli sul rispetto delle compatibilità economiche e delle relative competenze regolative.
L’impressione è che il legislatore delegato non si fidi proprio delle amministrazioni pubbliche quando agiscono a livello nazionale e integrativo come attori negoziali: vale a dire quando svolgono una funzione tipica del datore di lavoro.
Beninteso, com’è stato acutamente da tempo osservato, la precondizione per un virtuoso utilizzo del metodo della regolazione contrattuale dei rapporti di lavoro nel settore pubblico è rappresentata dall’esistenza di un effettivo contrasto di interessi tra le due parti della negoziazione. Se si tiene conto dell’esperienza precedente all’apertura al metodo contrattuale e cioè della fase della gestione per via unilaterale delle dinamiche del lavoro pubblico, si è proprio sicuri che la soluzione migliore sia proprio quella del ritorno a tale tecnica? Se nel contesto del lavoro pubblico manca un effettivo contrasto di interessi tra chi dovrebbe svolgere le funzioni di datore di lavoro e i lavoratori dipendenti, chi è che assicura che le ragioni politiche ed elettorali non prevalgano comunque anche ripristinando la regolazione unilaterale? Quantomeno, la contrattazione collettiva ha il pregio di rendere trasparenti i fenomeni collusivi, mentre la storia insegna che la regolazione unilaterale, di unilaterale ha avuto solo l’apparenza, perché in realtà è stata frutto di contrattazioni informali e di pressioni di vario genere. Il rischio che si ripropongano vicende del genere è evidente. Va poi considerato che proprio la centralizzazione del sistema contrattuale nazionale, con il conseguente ruolo di dominus del Governo, favorirà l’emersione di istanze e di incentivi politici-elettorali ed enfatizzerà il primato dello scambio politico nelle relazioni sindacali rispetto alla considerazione delle esigenze tipiche di un qualunque datore di lavoro. Così, un tale sistema permette un rientro in pompa magna della politica in ogni momento della gestione del lavoro pubblico e presenta poi il pericolo di contraddire apertamente il tanto esaltato principio di distinzione tra politica e amministrazione, che ormai, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, rappresenta un inderogabile valore costituzionale: il quale dovrebbe imporre l’allontanamento, sia formale sia sostanziale, della politica dal concreto governo del lavoro pubblico.
Altro punto di intervento del decreto è la dirigenza amministrativa. L’obiettivo dichiarato è quello di assicurare “il rafforzamento dell’autonomia, dei poteri e della responsabilità della dirigenza”. L’autonomia della dirigenza, com’è noto, può essere compromessa dalla “cattura” del dirigente da parte degli organi politici e/o ad opera della controparte sindacale. L’effettività della capacità di resistenza del dirigente di fronte alle organizzazioni sindacali dei lavoratori dipende però dalla possibilità di non essere esposto a richiami dei vertici politici per addolcire il tono della gestione dei rapporti sindacali, allo scopo di tenere conto di esigenze elettorali o di pace sociale lato sensu. Pertanto, l’autonomia dirigenziale è essenzialmente autonomia rispetto agli organi politici e, solo dopo, nei confronti di altre forme di pressione.
In primo luogo, il decreto interviene sulla disciplina del conferimento degli incarichi e pone nuovi limiti alla discrezionalità dei vertici politici nella scelta dei dirigenti da preporre agli incarichi. Ora, l’art. 40 del decreto novella l’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 e, recependo gli spunti provenienti dalla contrattazione collettiva delle aree dirigenziali, prevede un meccanismo di pubblicizzazione dei posti di funzione disponibili in modo tale da consentire ai dirigenti di ruolo di presentare la loro candidatura e lasciando intendere che la scelta dovrebbe basarsi su una procedura di tipo paraconcorsuale: in effetti, la disposizione dice che l’amministrazione “valuta” le disponibilità dei dirigenti che abbiano presentato la loro candidatura. Ovviamente, solo l’esperienza applicativa dell’enunciato sarà in grado di fornire un apprezzamento in ordine alla sua pregnanza. Però, è chiaro che essa apre ad un intenso controllo giudiziale sul rispetto dei requisiti per il conferimento degli incarichi, pure arricchiti dall’art. 40 del decreto con l’aggiunta del principio che si debba tenere conto della valutazione riportata dal dirigente negli incarichi precedenti. Poi, la disposizione afferma, e fin qui nulla di nuovo, che la revoca può avvenire solo nei casi di responsabilità dirigenziale. Importante è l’intervento normativo che pone qualche limite alle forme di revoca mascherate per mezzo della mancata conferma dell’incarico una volta che questo sia giunto a scadenza. Infatti, il nuovo comma 1-ter dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 precisa che “l’amministrazione che, in dipendenza dei processi di riorganizzazione ovvero alla scadenza, in assenza di una valutazione negativa, non intende confermare l’incarico conferito al dirigente, è tenuta a darne idonea e motivata comunicazione al dirigente stesso con un preavviso congruo, prospettando i posti disponibili per un nuovo incarico”. L’enunciato comporta un miglioramento della situazione esistente, in cui, alla scadenza dell’incarico, il dirigente, anche se valutato positivamente, è di fatto nelle mani del titolare del potere di investitura, quanto alla decisione di confermarlo nell’incarico cessato o di assegnargli altri posti di funzione. La tutela garantita dalla clausola di salvaguardia, presente in alcuni contratti delle aree dirigenziali, offre solo una garanzia economica e, per giunta, la medesima clausola è sicuramente illegittima perché, come ha di recente nuovamente ribadito la Corte dei conti, è in contrasto con norme inderogabili di legge. Va qui sottolineato che la soluzione più semplice, conforme al principio di distinzione tra politica e amministrazione e tale da assicurare un reale rafforzamento dell’autonomia dirigenziale, sarebbe quella di prevedere sic et simpliciter che, in mancanza di valutazione negativa, il titolare del potere di nomina debba confermare il dirigente nell’incarico scaduto, e che eventualmente possa adibirlo ad altro incarico solo con il suo consenso. In questo modo, si immetterebbe nel sistema un incentivo per attivare il circuito autonomia-responsabilità, perché solo dalla valutazione (quindi da un fatto oggettivo) dipenderebbe la sorte del dirigente, eliminando ogni spazio di discrezionalità degli organi politici quanto alla decisione se confermare o meno l’incarico scaduto. Dalla timidezza della disposizione del decreto emerge come il legislatore sia stato sensibile alle preoccupazioni della politica di perdere il controllo sulle amministrazioni e soprattutto di mantenere il sostanziale governo delle stesse lasciando i dirigenti, formalmente titolari esclusivi dei poteri di gestione, in una posizione di debolezza e precarietà. La verità di questa affermazione risulta anche da quella parte del nuovo art. 24 del d.lgs. n. 165/2001, novellato dall’art. 45 del decreto, secondo cui la mancata attivazione del sistema di valutazione predisposto dalla riforma, decorso il periodo transitorio ivi fissato, produce l’unica conseguenza del divieto di corrispondere la retribuzione di risultato ai dirigenti. Se, come emerge da tutte le disposizioni del decreto, l’attivazione effettiva del sistema di valutazione dipende dall’iniziativa dell’organo di indirizzo politico-amministrativo, allora, proprio per garantire l’efficacia del comando del legislatore, bisognava anche prevedere che, in caso di non predisposizione del suddetto sistema, l’organo di indirizzo politico-amministrativo avrebbe dovuto confermare i dirigenti negli incarichi scaduti. Così, l’organo di indirizzo politico-amministrativo sarebbe spinto a muoversi nella direzione propugnata dal legislatore, altrimenti perderebbe una leva fondamentale per il governo delle amministrazioni.
D’altra parte, l’autonomia dirigenziale appare fortemente condizionata dalle rigide prescrizioni legislative che fissano nel dettaglio i percorsi da seguire quanto all’esercizio dei poteri gestionali, come nel caso delle sanzioni disciplinari, dell’attribuzione dei premi, dell’individuazione degli esuberi di personale. Qui risalta una sfiducia del legislatore nei confronti della dirigenza pubblica, ritenuta incapace di decidere con autonomia e alla quale è necessario fornire una rigorosa road map per orientarsi nello svolgimento delle sue funzioni tipiche. Mutatis mutandis, il resto del personale è considerato alla stregua di carne da cannone, il cui comportamento va indirizzato tramite un uso accorto del bastone (il potere disciplinare) e la carota (i premi e la carriera). Il modello prefigurato è quello della pubblica amministrazione come una caserma ovvero che adotta uno schema, alla Foucault, del tipo “sorvegliare e punire”. Con ciò si trascura quanto sia importante invece un’articolata strategia di coinvolgimento, in modo tale da agire con pazienza sul piano culturale e fare sì che gli stessi dipendenti vedano il lavoro come fonte di benessere, e non di sofferenza; ridefiniscano in senso positivo il rispettivo ruolo e assumano come propri i valori e la missione dell’amministrazione di riferimento.
Peraltro, i meccanismi di voice a disposizione dei cittadini-utenti, disegnati dalla legge delega, non sono stati al momento coerentemente attivati dalla legislazione delegata. L’assenza di sanzioni nel caso di non adempimento delle procedure di partecipazione dei cittadini alle scelte delle amministrazioni (public review) e la già citata inattuazione della parte della legge delega relativa alla class action di fatto rendono i cittadini-utenti sforniti di qualunque strumento di fronte ad amministrazioni inefficienti e privano il sistema di una forma di controllo dal basso che potrebbe contribuire a creare quelle condizioni di contesto tali da determinare (più che le sole norme giuridiche) una responsabilizzazione del datore di lavoro pubblico simile a quella del datore di lavoro privato, nella direzione della costruzione di un “padrone serio” anche per il lavoro pubblico.