IL SAGGIO PRESENTATO DA LORENZO BORDOGNA, UNO DEI MASSIMI ESPERTI ITALIANI DELLA MATERIA, QUANDO E’ STATO CONSULTATO DALLA COMMISSIONE AFFARI COSTITUZIONALI DEL SENATO
SENATO DELLA REPUBBLICA
COMMISSIONE 1 – AFFARI COSTITUZIONALI
AUDIZIONE 10 settembre 2008
Intervento di Lorenzo Bordogna, Professore Ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro – Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi di Milano, Presidente del Corso di Laurea in Management Pubblico – Università degli Studi di Milano
A. Osservazioni generali
1. Il ddl Brunetta-Tremonti n. 847/2008 (“Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico”) riguarda i temi principali che sono dal 1992-93 al centro del processo di riforma della Pubblica Amministrazione: disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (art. 1); contrattazione collettiva nazionale e integrativa (art. 2); valutazione delle strutture e del personale (art. 3); merito e premialità (art. 4); dirigenza pubblica (art. 5); sanzioni disciplinari e responsabilità dei dipendenti pubblici (art.6)
Il ddl Ichino-Treu-Finocchiaro e altri firmatari, n. 746/2008, copre un punto cruciale di questi temi, ovvero quello della trasparenza e della valutazione delle strutture pubbliche e dei dipendenti. Un punto cruciale perché nella Pubblica amministrazione la valutazione svolge un ruolo fondamentale, essendo spesso assenti o strutturalmente deboli i meccanismi di mercato che servono a misurare e correggere le performance delle organizzazioni e a segnalare, attraverso l’exit, l’insoddisfazione di clienti/utenti. Un punto, anche, che ha portata ‘trasversale’, perché ha importanti ricadute su molti altri aspetti del funzionamento delle pubbliche amministrazioni, del trattamento del personale e delle relazioni sindacali.
I due ddl hanno in comune un tratto di fondo: entrambi collegano la riforma del lavoro pubblico, ed in particolare delle relazioni sindacali nel settore, con la riforma più generale della Pubblica amministrazione, della sua organizzazione. Questo era un tratto caratterizzante anche della riforma del 1992-93 (Cassese-Amato) e in parte del 1997-98 (Bassanini-D’Antona). In particolare, in quel disegno il potenziamento della contrattazione collettiva come principale metodo di regolazione del rapporto di lavoro e delle relazioni sindacali doveva essere preceduto da, o almeno procedere di pari passo con, il rafforzamento e la responsabilizzazione del datore di lavoro pubblico, sia a livello centrale che decentrato (Bordogna 2007a). Come insegnano gli studiosi più accreditati in materia (nella maniera più chiara il grande teorico inglese del pluralismo, H. A. Clegg), solo in presenza di un genuino contrasto di interessi tra le due parti il metodo negoziale può sviluppare i suoi preziosi effetti benefici (flessibilità, adattabilità, condivisione delle soluzioni adottate, ecc.); in caso contrario, la contrattazione collettiva è una mistificazione, i suoi esiti sono inefficienti ed è quasi inevitabile che si sviluppino comportamenti collusivi tra le parti invece che effetti benefici. Nel nostro caso, comportamenti collusivi a spese di altri livelli dell’amministrazione, ed in ultima istanza dei contribuenti. La responsabilizzazione del datore di lavoro pubblico, specie a livello decentrato, era ed è quindi una pre-condizione essenziale per una applicazione virtuosa del metodo negoziale di regolazione degli interessi.
Nella prassi applicativa, soprattutto dopo il 1997-98, questo legame tra riforma del lavoro pubblico e responsabilizzazione dell’amministrazione e del datore di lavoro pubblico non si è realizzato, o si è realizzato in misura insoddisfacente. Per quanto riguarda in specifico le relazioni sindacali, da più parti si è sottolineato come alcune delle maggiori distorsioni registrate negli anni recenti (specie un uso improprio nella contrattazione integrativa di istituti, anche virtuosi, introdotti dalla contrattazione nazionale, che ha portato a forti divaricazioni con il settore privato) siano precisamente riconducibili ad una debolezza del datore di lavoro a livello decentrato (si possono vedere i contributi di Dell’Aringa 2007, Vignocchi 2007, e Bordogna 2007a, indicati in bibliografia). Il mancato riconoscimento di questo aspetto, e della specificità del datore di lavoro pubblico rispetto a quello privato, ha portato a sottovalutare i possibili effetti perversi di una importazione ingenua nel settore pubblico –ovvero senza adeguati accorgimenti istituzionali- di tecniche e pratiche che nel settore privato possono operare in maniera virtuosa, come è stato il caso del potenziamento della contrattazione decentrata dopo il 1998-9. Accorgimenti istituzionali volti precisamente ad assicurare che la attribuzione di maggiore autonomia a livello decentrato in materia negoziale sia strettamente correlata alla responsabilità in capo al datore di lavoro decentrato di reperire le risorse che decide di utilizzare nella contrattazione e nella gestione del personale a tale livello (OECD 2007a; Bordogna 2008). E’ precisamente da questa dissociazione tra autonomia e responsabilità degli attori, in primo luogo del datore di lavoro, che sono derivate molte delle criticità sopra richiamate.
E’ quindi condivisibile l’intento dei due ddl di intervenire su questo punto, sulle condizioni di contesto che possono assicurare un rafforzamento del ruolo e della responsabilità del datore di lavoro pubblico, specie a livello decentrato, e per questa via consentire di raccogliere i benefici del metodo negoziale anziché i suoi effetti perversi. Ed opportunamente entrambi i ddl condividono l’impostazione per cui potenziare il datore di lavoro pubblico significa in primo luogo rafforzare la responsabilità dirigenziale, nonché i sistemi di valutazione delle strutture e del personale. In questo quadro anche la riforma dei meccanismi premiali e della contrattazione collettiva può sortire effetti positivi.
2. Per raggiungere questi obiettivi, però, non sembrano opportune nel ddl 847 né la strada di una rilegificazione del rapporto di lavoro e della contrattazione, che potrebbe riportare la situazione non solo a prima della riforma del 1992-93, ma anche a prima del 1983, né una normazione troppo dettagliata ed intrusiva (quasi dirigistica) di materie che è bene lasciare invece all’autonomia e responsabilità delle amministrazioni e dei loro dirigenti. Ciò di cui c’è bisogno è di alcuni criteri generali per rafforzare la responsabilità del datore di lavoro pubblico e dare maggiore credibilità alla contrattazione collettiva, non di pre-determinare per legge e prescrivere nel dettaglio, una volta per tutte, modelli organizzativi o comportamenti gestionali che debbano essere universalmente adottati –come indicato invece in vari punti del ddl 847. La pubblica amministrazione è peraltro una realtà ormai molto diversificata al suo interno, nella quale le attività legate alle tradizionali funzioni autoritative dello Stato sono da tempo state affiancate, e largamente superate in termini di occupati, da attività di produzione ed erogazione di servizi, che obbediscono ad una diversa logica organizzativa e gestionale. E’ irrealistico, e sarebbe teoricamente errato, pensare di potere gestire tayloristicamente una realtà tanto eterogenea con un unico modello organizzativo ottimale, prescritto per legge a tutte le amministrazioni indipendentemente dall’attività che svolgono e dal contesto in cui operano. Va invece reso credibile, e non una mera finzione retorica come spesso è stato nella recente prassi applicativa, quanto affermato nell’art. 5, secondo comma, del dlgs. 165/2001 (che modifica solo leggermente l’art. 4 dlgs. 29/1993), secondo il quale “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro”.
Questa strada è peraltro coerente con l’obiettivo della “convergenza del mercato del lavoro pubblico con quello del lavoro privato” indicato nell’art. 1, comma 1 lettera a del ddl 847. Nella consapevolezza che, se nel settore privato il datore di lavoro ha naturalmente e direttamente responsabilità delle risorse che autonomamente decide di mettere nella contrattazione e nella gestione del personale, questa responsabilizzazione nel settore pubblico non si dà ‘in natura’ ma va attentamente e pazientemente costruita, predisponendo un contesto di vincoli ed incentivi che incoraggino il dirigente ad esercitare effettivamente, e congiuntamente, autonomia e responsabilità.
Indicazioni troppo intrusive e dirigistiche sono invece in contrasto non solo con la norma vigente del d.lgs. 165, appena richiamata, ma anche con il principio opportunamente esplicitato nell’art. 5, c. 2, lettera a dello stesso ddl 847, ove si afferma “la piena autonomia e responsabilità del dirigente, in qualità di datore di lavoro pubblico, nella gestione delle risorse umane”, attraverso il riconoscimento della sua “competenza esclusiva” in una serie di materie (enfasi aggiunta).
Ciò considerato, segnalo qui sotto alcune osservazioni più specifiche riguardo a tre temi centrali del ddl 847, relativi alla dirigenza, alla valutazione e alla contrattazione collettiva.
B. Osservazioni specifiche
Dirigenza
Nella Pubblica amministrazione il ruolo di datore di lavoro è normalmente svolto dai dirigenti: la regolazione di questa figura, specie dei dirigenti di più alto livello, è quindi cruciale. Fatte salve le osservazioni sopra sviluppate, mi limito a segnalare in primo luogo due aspetti che non trovano spazio nel ddl 847, che a mio avviso meritano invece considerazione, oltre ad altre osservazioni più particolari.
a. Il primo aspetto, ai fini del rafforzamento della figura del dirigente in materia di gestione del personale e delle relazioni di lavoro, riguarda l’opportunità di mantenere la contrattualizzazione (collettiva) della fascia più alta della dirigenza stessa, quella che principalmente rappresenta e svolge le funzioni del datore di lavoro pubblico, o di valutare se non sia invece il caso di ricorrere a metodi di regolazione alternativi, pur senza tornare a forme di legificazione.
L’esperienza comparata fornisce esempi interessanti in proposito. In Gran Bretagna, ad esempio, nell’amministrazione centrale dello Stato (Civil service, che occupa attualmente circa 500 mila dipendenti), la fascia più alta del personale, composta da circa 3800 senior civil servants, è regolata attraverso il sistema dei Pay review bodies. Questi sono organismi ristretti e indipendenti, composti da esperti (professori universitari, alti dirigenti privati e pubblici), i quali annualmente raccolgono documentazione, analizzano la situazione economica, sentono (separatamente) le parti, ed alla fine stilano un rapporto in cui sono formulate raccomandazioni al Governo, compresi gli incrementi retributivi. Il Governo normalmente accetta queste proposte. Quindi né contrattazione collettiva, da un lato, né, dall’altro lato, legificazione e regolazione unilaterale dei trattamenti dei dirigenti di più alto grado dell’Amministrazione centrale, ma un metodo intermedio che si potrebbe chiamare di “negoziazione a distanza”. Si noti, peraltro, che questo sistema dei Pay review bodies ormai si applica in Gran Bretagna ad una larga fetta (oltre il 30%) dei dipendenti pubblici, tra cui praticamente l’intera sanità pubblica (oltre 1 milione di dipendenti) ed i docenti delle scuole pubbliche. Se non si vuole adottare questo sistema, occorrerebbe forse prevedere procedure ad hoc per la contrattazione collettiva di questa fascia di personale (l’alta dirigenza), e forse anche per la loro rappresentanza sindacale, al fine di evitare evidenti conflitti di interesse ed il rischio di pratiche collusive.
b. In secondo luogo, è opportuno considerare che nella pubblica amministrazione italiana, oltre alla debolezza dei criteri meritocratici per l’accesso alla dirigenza, vi è anche un problema di numerosità dei dirigenti in rapporto all’insieme degli occupati. Senza considerare la dirigenza medica e veterinaria del comparto sanità, e pur tenendo conto di differenze da comparto a comparto, i dirigenti italiani sono molto numerosi rispetto al totale dei dipendenti pubblici, con una marcata proliferazione dalla fine degli anni Novanta anche dei dirigenti di più alto grado (dirigenti generali). Questa proliferazione pone un duplice problema. Da un lato un problema organizzativo, perché è evidente che risulta difficile fare funzionare in maniera efficace una struttura in cui troppo diffuse sono le responsabilità dirigenziali; ciò significa, peraltro, che molti dirigenti sono probabilmente tali solo di nome, ma non esercitano le funzioni e le responsabilità che dovrebbero corrispondere alla carica. E, in secondo luogo, un problema di costi, anche perché le retribuzioni dei dirigenti sono dalla fine degli anni Novanta cresciute in misura molto maggiore di quelle del restante personale, avvicinandosi alle retribuzioni dirigenziali del settore privato.
E’ bizzarro, peraltro, che spesso il dibattito politico e la stampa quotidiana si concentrino con grande clamore su un aspetto che è (relativamente) secondario, almeno in termini comparativi, ovvero il numero eccessivo dei dipendenti pubblici italiani, e invece trascuri del tutto una anomalia che è reale e che ha effetti che dovrebbero destare maggiore preoccupazione, rappresentata dalla quota eccessiva di dirigenti. Circa il numero dei dipendenti pubblici, l’analisi comparata mostra che in Italia, in rapporto al totale della popolazione, esso è notevolmente inferiore non solo a quello dei paesi nordici, ma anche di Francia e Gran Bretagna: nel 2004/2005, i pubblici dipendenti italiani (forze dell’ordine e forze armate incluse, in totale poco più di 3,5 milioni di lavoratori) erano il 6,1% sul totale della popolazione, in Francia 8,6%, in UK 9,9%, in Finlandia 12,6%, in Danimarca 15,6% ed in Norvegia 16,8% (Bordogna 2007b). In Italia vi è semmai un problema di distribuzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni –distribuzione funzionale, settoriale e territoriale; non un problema di numeri eccessivi. Mentre il problema esiste per quanto riguarda i dirigenti.
Si potrebbe quindi valutare se introdurre un principio o criterio direttivo relativo al contenimento del numero delle posizioni dirigenziali, specie di più alto livello, che potrebbe essere collocato nel comma 2 dell’art.5, prima della lettera a.
c. Ai fini di incoraggiare l’esercizio effettivo della responsabilità dirigenziale, il comma 2 lettera d dell’art. 5 prevede di escludere “la conferma dell’incarico dirigenziale ricoperto in caso di mancato raggiungimento dei risultati”. Questo presuppone tuttavia che all’atto di conferimento dell’incarico siano specificati gli obiettivi da raggiungere. Tale elemento della specificazione degli obiettivi nel procedimento di conferimento dell’incarico dirigenziale non è menzionato nel ddl 847 mentre andrebbe esplicitamente inserito e enfatizzato. Infatti l’esperienza recente per quanto riguarda i Ministeri suggerisce che i problemi di mancata o non accurata valutazione dei dirigenti spesso nascono da carenze su questo versante, con gli effetti a cascata che ne derivano sul funzionamento dell’intera organizzazione (v. Presidenza del Consiglio dei Ministri-Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle amministrazioni dello Stato, Processi di programmazione strategica e controlli interni nei ministeri: stato e prospettive. Rapporto di legislatura, Roma, marzo 2006, p. 93). Ed è presumibile che queste carenze si registrino anche negli altri comparti pubblici. Naturalmente, in certi casi la specificazione degli obiettivi può essere difficoltosa, a causa della possibile articolazione pluriennale degli stessi o del necessario concorso di più soggetti o più amministrazioni per il loro conseguimento, o anche in ragione della natura stessa dell’incarico. Tali problemi sono conosciuti in letteratura e sono affrontati in altre esperienze nazionali. Non sono dunque insuperabili, ma suggeriscono l’opportunità di non eccedere in prescrizioni troppo dettagliate in proposito, pur non rinunciando al principio generale di prevedere la determinazione degli obiettivi al momento del conferimento dell’incarico dirigenziale. Si possono vedere, in tale direzione, i suggerimenti contenuti nella Relazione della Commissione per lo studio e l’elaborazione di linee guida per un sistema di valutazione del personale delle pubbliche amministrazioni (Dipartimento della Funzione Pubblica, luglio 2007).
d. Il comma 2 lettera e prevede di ridefinire e ampliare le competenze del Comitato dei garanti di cui all’art. 22 del d.lgs. 165/2001. Occorre considerare se non sia preferibile coordinare questa materia con le norme sulla valutazione (art. 3), opportunamente integrate/modificate secondo le indicazioni del ddl 746/2008 (Ichino, Treu).
e. Un esempio di prescrizione troppo intrusiva è offerto dal comma 2 lettera f, sebbene la formulazione non del tutto chiara del testo renda incerta anche la valutazione. Se si vuole indicare un principio di selettività, ovvero evitare l’attribuzione generalizzata a tutti i dirigenti di una struttura della misura massima del trattamento accessorio, si tratta di un orientamento condivisibile, considerata anche la prassi negativa verificatasi negli anni recenti, specie nei Ministeri (documentata dal già citato Rapporto di legislatura del Comitato tecnico scientifico, 2006). Ma è consigliabile evitare quantificazioni precise, tenendo presente che una sorta di ‘selettività obbligatoria’, con specificazione della percentuale massima di personale interessato, è già stata sperimentata in Italia tra il 1994 e 1997 e in altri paesi (UK), e l’evidenza empirica mostra che non ha dato buona prova, o addirittura ha avuto effetti controproducenti in termini di conflitti intra-organizzativi, demotivazione del personale , abbassamento di morale, ecc. (v. ad es., sul caso britannico, Marsden 1994).
Valutazione delle strutture e del personale
a. Come già osservato, un efficace sistema di valutazione è fondamentale nella Pubblica amministrazione, mancando o essendo deboli altri meccanismi, come il mercato e la possibilità di exit, che segnalano la performance insufficiente e l’insoddisfazione degli utenti. In generale, su questo tema è auspicabile una integrazione del ddl 847 con il ddl 746/2008 (Ichino, Treu primi firmatari).
Occorre tuttavia considerare che la valutazione non è un fine in sé ma uno strumento di gestione delle organizzazioni, funzionale a molte e diverse finalità: per esercitare controlli efficaci, per apprendere e migliorare l’organizzazione, per ‘render conto’ a principali interni e esterni, per orientare utenti e cittadini nelle loro scelte, per formulare e riformare le politiche pubbliche, ed anche certamente per introdurre incentivi a strutture e personale. Allestire sistemi efficaci di valutazione è un processo lungo e complesso, e richiede in primo luogo di selezionare gli obiettivi principali che si vogliono raggiungere attraverso questo strumento. Occorre inoltre essere consapevoli dei possibili effetti inattesi, o anche perversi, che spesso si accompagnano a processi di valutazione della performance e del personale; effetti che sono ben documentati nella letteratura scientifica in argomento, specie nel settore dell’istruzione e della sanità (v. ad esempio, tra i numerosissimi riferimenti possibili, vari saggi in Oxford Review of Economic Policy, Summer 2003; Johnsen 2005). Oltre agli inevitabili oneri burocratici connessi ad ogni processo di performance appraisal, si possono ricordare il rischio di incentivare una concentrazione eccessiva sugli obiettivi di breve periodo, quelli più facilmente soggetti a valutazione, a scapito di quelli di medio e lungo termine; il rischio, strettamente connesso al precedente, di produrre una distorsione delle risorse e dell’attenzione di una struttura e del suo personale per soddisfare i targets oggetto di valutazione, eventualmente a scapito di obiettivi più importanti ma non rilevati, e quindi trascurati; fino a incoraggiare veri e propri comportamenti strategici e di gaming, di aggiramento e di inganno delle procedure di valutazione. L’esperienza internazionale, specie dei paesi anglosassoni, e la letteratura in argomento suggeriscono quindi una applicazione non ingenua dei processi di valutazione, grande accuratezza e ponderazione nel disegnare le procedure e gli indicatori relativi, e la necessità di monitorarne con continuità l’effettivo funzionamento per correggerne i possibili effetti inattesi o perversi, in un processo di affinamento costante, di prova ed errore.
Inoltre, le medesime esperienze mostrano che i sistemi di valutazione delle strutture e del personale sono più efficaci se inseriti nel, o collegati al, processo di pianificazione strategica e programmazione operativa del Governo. Nel nostro ordinamento questa connessione è prevista dal d.lgs. 286/99 per l’amministrazione centrale. La prassi applicativa è però stata molto lacunosa, come denunciato dal già citato Rapporto di legislatura (marzo 2006) del Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle amministrazioni dello Stato. Nell’ultima legislatura, sotto la guida del Ministro dell’Economia, con espliciti rinvii all’esperienza inglese delle spending reviews, vi sono stati tentativi di maggiore raccordo tra pianificazione strategica, programmazione operativa e processi di valutazione e controllo, che non ha però coinvolto la valutazione delle strutture e del personale.
Questo aspetto è trascurato nel ddl 847 e sarebbe opportuno che trovasse spazio come principio generale nell’art. 3.
b. Considerata la complessità del processo di valutazione, ed anche la diversità delle pubbliche amministrazioni da comparto a comparto (l’amministrazione centrale non è la scuola o la sanità), è sconsigliabile voler individuare per legge sistemi universali di valutazione o definire criteri troppo intrusivi, non rispettosi delle inevitabili specificità settoriali. Non in tutte le amministrazioni e in tutte le strutture, ad esempio, la customer satisfaction è un importante criterio di valutazione; in alcuni casi può essere perfino controproducente, o creare conflitti di interesse. Sembra opportuno invece esplicitare (art. 3 comma 2) il principio generale che il processo di valutazione deve interessare in primo luogo le fasce alte dell’organizzazione, dirigenza e quadri. In tal modo si supera anche il dilemma: valutazione delle strutture/valutazione del personale. Valutare la struttura significa necessariamente valutare anche i dirigenti che ne hanno la responsabilità, e viceversa.
Un altro principio generale che è forse opportuno indicare nell’art. 3 comma 2 è che la valutazione, in particolare della dirigenza, deve riguardare sia la performance relativa agli obiettivi assegnati, sia i comportamenti organizzativi, ivi compresa la dimensione della valutazione del personale sottoposto (dirigente e non).
c. Ai fini di incentivare la diffusione dei processi di valutazione è condivisibile la previsione di cui all’art. 5 comma 2 lettera i, che proibisce di corrispondere indennità di risultato ai dirigenti la cui amministrazione di appartenenza non abbia introdotto sistemi di valutazione dei risultati. Questa previsione dovrebbe riguardare in primo luogo l’introduzione e l’applicazione di sistemi di valutazione della dirigenza stessa: se i dirigenti non sono adeguatamente valutati, non possono ricevere premi di risultato. Il che presuppone, come sopra osservato, che nel procedimento di attribuzione dell’incarico dirigenziale vengano indicati gli obiettivi da raggiungere. Occorre tuttavia essere consapevoli che, nella recente esperienza italiana, anche dove esistono norme in tal senso, il problema è soprattutto quello di una prassi applicativa che è stata largamente insufficiente, con una diffusione irregolare e un utilizzo spesso inappropriato. Come denuncia esplicitamente il già ricordato Rapporto di legislatura del Comitato tecnico scientifico (marzo 2006, p. 93), “le amministrazioni dello Stato continuano a corrispondere alla dirigenza una indennità di risultato in modo normalmente generalizzato. Questo modo di procedere rischia non solo di apparire iniquo e di comportare un incremento ingiustificato della spesa pubblica, ma di vanificare la stessa possibilità di una trasformazione delle amministrazioni secondo i principi della responsabilizzazione, della programmazione e della gestione per obiettivi. Infatti quando i dirigenti, in assenza di una valutazione rigorosa, ottengono una remunerazione di risultato, viene a cadere qualsiasi stimolo a migliorare l’efficienza e la qualità dei servizi”. Bene quindi la previsione della norma in oggetto, ma il problema sarà soprattutto di sorvegliarne la prassi applicativa.
La previsione all’art. 5 c. 2 lettera i, potrebbe poi riguardare anche l’introduzione di sistemi di valutazione del personale di cui i dirigenti stessi hanno responsabilità, in modo da incoraggiarli ad adottare orientamenti coerenti in tale direzione. Dunque, condizionare l’erogazione dell’indennità di risultato dei dirigenti sia alla attivazione da parte delle amministrazioni di appartenenza di procedure che riguardano la valutazione dei risultati dei dirigenti stessi, sia alla introduzione da parte dei dirigenti di procedure di valutazione del personale di cui hanno responsabilità. Quest’ultimo aspetto richiede tuttavia una qualificazione, qui sotto specificata (punto d).
d. La previsione di cui all’art. 3 comma 2 lettera c punto 1 del ddl 847, che stabilisce il principio dell’estensione della valutazione a tutto il personale dipendente, sembra infatti un altro esempio di prescrizione troppo intrusiva, incoerente con il principio di cui all’art. 5 comma 2 lettera a, volto a rafforzare la “piena autonomia e responsabilità” dei dirigenti nella gestione delle risorse umane. Occorre infatti considerare se non sia opportuno lasciare all’autonoma discrezionalità del responsabile della struttura la decisione circa l’ambito di applicazione dei processi di valutazione del personale, la loro estensione a tutto o a parte del personale (con eventuali limiti verso i livelli inferiori dell’inquadramento professionale), così come il loro grado di formalizzazione, onde evitare che i costi dell’operazione superino i vantaggi. Questa è una tipica decisione che dovrebbe rientrare nella sfera della “piena autonomia e responsabilità del dirigente, in qualità di datore di lavoro pubblico” e nella sua “competenza esclusiva”, come recita il citato comma 2 lettera a. Poi, naturalmente, occorre che il dirigente stesso sia valutato anche in merito a questa decisione.
Ciò che si vuole sottolineare è che l’aspetto cruciale è di introdurre processi effettivi di valutazione della fascia alta della struttura, dirigenti e quadri, non di prescrivere l’obbligo per legge di estendere la valutazione a tutto il personale dipendente. Esiste forse qualcosa del genere nel settore privato? Non solo. Come già sopra osservato, norme relative ai processi di valutazione esistono già nell’ordinamento: il problema non è moltiplicare gli obblighi, ma di evitare che questi vengano aggirati nella prassi applicativa, il che è più facilmente realizzabile se gli obblighi ed i controlli relativi sono concentrati sulla fascia alta del personale.
e. La previsione di cui all’art. 3, comma 2, lettera c punto 2 è cruciale, perché da inadeguata professionalità ed esperienza dei componenti degli organismi di valutazione sono derivate molte difficoltà applicative di norme sul processo di valutazione, già previste nell’ordinamento. Comunque li si voglia trasformare, la competenza professionale specifica e l’esperienza dei componenti di tutti gli organismi di valutazione e controllo -dal Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle amministrazioni dello Stato, ai Servizi di controllo interno (Secin), ai Nuclei di valutazione, ai vari organismi di valutazione settoriale- sono di cruciale importanza.
f. Le lettere d e e del comma 2 dell’art. 3 del ddl 847 riguardano un aspetto che può avere grande rilievo nell’effettiva attivazione di processi di valutazione delle strutture e del personale. Un aspetto che è consigliabile considerare sia alla luce dell’esperienza italiana recente sia in un quadro comparativo. Se infatti è condivisibile, in linea generale, che la valutazione del personale debba restare interna all’amministrazione, da parte del livello superiore, come previsto per le amministrazioni centrali dal dlgs 286/99, si deve tuttavia prendere atto che la prassi applicativa nelle stesse amministrazioni centrali italiane è stata largamente insufficiente, secondo quanto esplicitamente denunciato nel già ricordato Rapporto di legislatura del Comitato tecnico scientifico (marzo 2006). La previsione all’art. 3 comma 2 lettera d, del ddl 847, di un “organismo centrale” interno al Dipartimento della funzione pubblica e relativo alle sole amministrazioni centrali rischia quindi di ripetere un’esperienza già conosciuta che non ha dato buoni frutti –oltre a non coprire le altre amministrazioni, che costituiscono la parte più rilevante della Pubblica amministrazione. Non è chiaro quale apporto migliorativo la soluzione prospettata possa dare rispetto all’esperienza passata.
Si pone invece il problema di favorire la diffusione ed il rafforzamento del processo di valutazione, anche al di fuori delle amministrazioni centrali, in realtà che spesso sono a stretto contatto con i cittadini e gli utenti finali dei servizi della Pubblica amministrazione. Può essere utile a tale fine la creazione, almeno per un certo periodo, di un organismo terzo e indipendente, la cui missione non è di sostituirsi né agli organismi di controllo e valutazione interni alle singole amministrazioni, né ai processi di valutazione settoriali delle strutture (nella scuola, nella sanità), ma di svolgere funzioni di stimolo all’introduzione di processi di valutazione nelle amministrazioni in cui sono già previsti dalla normativa ma non applicati. Funzioni quindi di stimolo, di validazione dei sistemi introdotti, di coordinamento, di monitoraggio (ad esempio che siano soddisfatti i criteri di accessibilità, trasparenza e pubblicità dei dati relativi alla valutazione delle pubbliche amministrazioni), ed altre analoghe funzioni al servizio dei processi di valutazione -non già funzioni di esercizio diretto della valutazione delle oltre 10 mila strutture in cui si articola la pubblica amministrazione italiana e dei 3,5 milioni di dipendenti pubblici.
Questo organismo potrebbe anche avere la funzione di monitorare che negli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali, in primo luogo di quelli di grado più elevato, vengano specificati gli obiettivi da raggiungere, sui quali è poi possibile innestare a cascata l’intero processo di valutazione della catena dirigenziale e dell’organizzazione. E di monitorare altresì che la valutazione della performance sia parte integrante dei procedimenti di conferimento, revoca o non riconferma dell’incarico dirigenziale.
Anche su questo aspetto, relativo alla compresenza di processi di valutazione e controllo da parte di organismi interni e organismi o autorità indipendenti, l’esperienza britannica può fornire utili suggerimenti (riflessioni in proposito si possono trovare nella Relazione della Commissione per lo studio e l’elaborazione di linee guida per un sistema di valutazione del personale delle pubbliche amministrazioni, Roma, Dipartimento della Funzione Pubblica, luglio 2007).
Un altro aspetto molto importante relativo ai processi di valutazione delle strutture è quello della comparabilità dei dati sui servizi resi dalla pubblica amministrazione. E’ infatti la comparabilità che può svolgere la duplice funzione sia di aiutare cittadini e utenti nell’esercizio della scelta, ove questa sia disponibile (ad esempio di una scuola o di un ospedale), sia le pubbliche autorità nelle decisioni di allocazione delle risorse. Istruttiva in tale direzione può essere ancora l’esperienza britannica, dove gli organismi indipendenti di valutazione settoriali (Office for Standards in Education-OFFSTED; Healthcare Commission) stilano annualmente una graduatoria delle scuole e degli ospedali, rispettivamente attraverso lo strumento delle school league tables da un lato e dall’altro dello star rating system per gli ospedali, parzialmente modificato nel 2007. Tali graduatorie tengono conto di un insieme complesso di dimensioni e di variabili, ma sono alla fine sintetizzate in un unico indicatore di semplicissima lettura (una scala ordinale; il numero di stelle per gli ospedali, fino ad un massimo di 3) e di altrettanto facile comparabilità, sono ampiamente pubblicizzate e commentate sulla stampa nazionale e locale, e servono sia per orientare le scelte di famiglie e pazienti, sia, nel caso degli ospedali, per l’attribuzione di risorse e autonomia aggiuntive alle strutture che si collocano al vertice della graduatoria.
Questi criteri di semplicità e soprattutto di comparabilità dei risultati della valutazione (per settore omogeneo di servizi) potrebbero quindi essere utilmente aggiunti a quelli già indicati nell’art. 3 comma 2 lettera e del ddl 847, di accessibilità, pubblicità e trasparenza.
Contrattazione collettiva e integrativa
Molti studi hanno sottolineato varie criticità dell’esperienza contrattuale a partire dalla fine degli anni ’90, in verità riguardanti maggiormente la contrattazione integrativa che quella nazionale.
Nella contrattazione nazionale si individuano in genere due aspetti problematici, tra loro strettamente collegati. In primo luogo un forte ritorno di ingerenza della politica, con l’emergere prepotente di una trattativa impropria, quella sull’entità delle risorse, spostata al di fuori dei circuiti negoziali previsti dalla normativa del 1992-93, su tavoli impropri e con attori impropri. Trattativa impropria, ma quella che veramente ‘conta’, spesso anche sbandierata con grandi effetti mediatici. Nel settore pubblico è ovviamente inevitabile che le risorse per la contrattazione nazionale siano determinate dalla responsabilità politica. Tuttavia, il ritorno sulla scena di molteplici ministri, formalmente estranei al circuito negoziale istituzionale previsto dalla legge, in rappresentanza di partiti politici o addirittura di correnti interne ai diversi partiti, rischia di ricreare una situazione anomica e ‘balcanizzata’, molto simile a quella vigente negli anni ’80 sotto il regime della legge quadro del 1983, con una sostanziale delegittimazione del ruolo dell’Aran. Se così deve essere, il che non è affatto auspicabile, allora sarebbe preferibile che la trattativa per i contratti nazionali si spostasse per intero nelle mani del Ministro dell’Economia, come avviene in altri paesi europei – pur tenendo conto delle prerogative delle autonomie locali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione. A questa rinnovata ingerenza della politica e dei partiti si collega anche il secondo aspetto critico della contrattazione nazionale, ovvero i sistematici e, spesso, enormemente dilatati ritardi nei rinnovi contrattuali, non di rado firmati a periodo di riferimento già scaduto ed in prossimità di importanti scadenze elettorali.
Entrambi questi aspetti critici, in particolare il primo, non sono adeguatamente considerati nel ddl 847 e meriterebbero invece maggiore attenzione, specie se si vuole rafforzare l’autorevolezza dell’Aran, come il ddl 847 propone. Circa, in specifico, i ritardi nei rinnovi dei contratti, non sembra una soluzione di per sé sufficiente la riduzione della durata dei contratti stessi o l’eliminazione della differenza di durata tra regolamentazione giuridica ed economica.
Viceversa, il ddl 847 sembra inutilmente intrusivo e dirigistico su aspetti che andrebbero invece lasciati all’autonomia negoziale delle parti, senza irrigidimenti da parte della legge. Non si vede, ad esempio, per quale ragione si debba prescrivere per legge la “riduzione del numero dei comparti e delle aree di contrattazione”, o la modificazione della durata dei contratti e la coincidenza del “periodo di regolamentazione giuridica con quello di regolamentazione economica” (art. 3, comma 2, lettera i, punto 4 e punto 5). Sembra più opportuno conservare la flessibilità della regolazione esistente, confermando da un lato l’indicazione generale di coerenza con il settore privato, come quella attualmente prevista dall’art. 40, comma 3, del d.lgs. 165/2001, ma, dall’altro, lasciando agli attori stessi le determinazioni in merito a durata dei contratti e struttura contrattuale, fatti salvi alcuni principi generali già in vigore (struttura bipolare, area separata per i dirigenti). Se, nelle circostanze presenti, si ritiene che vi sia stata una proliferazione eccessiva di comparti e aree contrattuali, il Governo può ben fare valere i propri orientamenti a normativa vigente, utilizzando il proprio ruolo nell’organismo di coordinamento dei Comitati di settore, i cui indirizzi influiscono sugli accordi quadro sui comparti contrattuali. Ma, in circostanze differenti, le parti potrebbero convenire circa l’opportunità di una maggiore articolazione di comparti e aree contrattuali, ed è bene che abbiano la flessibilità regolativa per poterlo fare, se così concordano, senza irrigidimenti di legge. Analogo discorso vale per la durata dei contratti collettivi.
Le distorsioni maggiori, secondo molti osservatori, si sono però registrate nella contrattazione integrativa, sia pure con differenze non irrilevanti e non casuali da comparto a comparto. Opportuni possono quindi essere alcuni interventi che rafforzano i controlli e i vincoli su questa contrattazione (ddl 847, art. 2, comma 2, lettere f, g, e i punto 6, e indirettamente anche lettera l), anche se per ora indicati in maniera troppo generica per poterli valutare con precisione.
Tuttavia, in generale, è sconsigliabile l’impostazione che sembra connotare tutto l’art. 2, secondo la quale le distorsioni e gli eccessi registratisi nella contrattazione collettiva negli anni passati, specie a livello decentrato, sarebbero principalmente rimediabili attraverso un processo di rilegificazione e di ridefinizione dei confini tra legge e contratto, a favore della prima. Questa soluzione, che sembra riportare alla (infausta) legge quadro del 1983 o a situazioni precedenti, presenta due difetti principali:
-in primo luogo irrigidisce ed uniforma la regolazione di materie che, per una efficace gestione delle amministrazioni, dovrebbe restare flessibile e differenziata, come, ad esempio, le materie, già sopra segnalate, di cui all’art. 3, comma 2, lettera i, punto 4 e punto 5, o in parte anche quelle al comma 2, lettera b, punti 2 e 3 (sulle quali ultime l’eventuale regolazione per legge dovrebbe essere molto leggera e consentire flessibilità applicativa);
-in secondo luogo non rafforza la responsabilizzazione del datore di lavoro pubblico, specie a livello decentrato, che è invece il vero problema che ha dato origine a molti dei problemi manifestatisi negli anni recenti.
Se buona parte delle distorsioni e degli eccessi dell’esperienza contrattuale recente si devono alla dissociazione tra autonomia e responsabilità degli attori, specie del datore di lavoro pubblico decentrato, la soluzione dovrebbe essere non quella di ridurre l’autonomia, che è un elemento cruciale per una gestione efficace delle amministrazioni, ma di rafforzare la responsabilità del datore di lavoro e dei suoi rappresentanti. Tra gli eccessi del contrattualismo e della cogestione, da un lato, e la regolazione per legge, dall’altro, vi è la strada maestra del rafforzamento dei poteri e delle responsabilità gestionali del datore di lavoro, specie a livello decentrato, come recita l’art. 5, dlgs 165/2001. Una strada questa che è peraltro coerente con l’obiettivo della “convergenza del mercato del lavoro pubblico con quello del lavoro privato” indicato nel ddl 847 nell’art. 1, comma 1 lettera a, nonché con i principi di piena autonomia, responsabilità e competenza esclusiva del dirigente nella gestione delle risorse umane, come recita l’art. 5, comma 2 lettera a.
Alcune misure comprese nell’art. 2 del ddl 847 (potenziamento dei controlli sui costi e maggiore cogenza dei vincoli di bilancio nella contrattazione integrativa, riforma dell’Aran nella contrattazione nazionale) vanno in tale direzione, così come le misure di potenziamento del ruolo dei dirigenti, nonché altre misure, esterne al ddl 847, volte a rafforzare la responsabilità finanziaria e di bilancio delle amministrazioni decentrate (federalismo fiscale). La rilegificazione va invece nella direzione della riduzione dell’autonomia, in contrasto non solo con l’art 5 dlgs 165/2001, ma anche con gli importanti principi del più volte citato art. 5, comma 2 lettera a del ddl 847. Le distorsioni della contrattazione collettiva degli anni recenti vanno risolte non riducendo l’autonomia dei datori di lavoro pubblici decentrati, ma rafforzandone la responsabilità.
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