L’ALTO MAGISTRATO DIFENDE E PRECISA IL RUOLO DEL GIUDICE DEL LAVORO NEL CONTROLLO DEL MOTIVO ECONOMICO-ORGANIZZATIVO DI RECESSO DEL DATORE, IN LINEA CON LA CONTROVERSA NORMA INSERITA NEL DDL N. 1167. REPLICO ARGOMENTANDO SULLA IRRAZIONALITA’ DELLA DISCIPLINA VIGENTE E SULLA SUPERIORITA’ DI UN SISTEMA DI PROTEZIONE IMPERNIATO SULL’IMPOSIZIONE ALL’IMPRESA DEL SEVERANCE COST
Scambio di messaggi svoltosi fra il 1° e il 4 dicembre 2009, a seguito del mio articolo pubblicato domenica sul Corriere della Sera del 29 novembre 2009, con Corrado Guglielmucci, per molti anni magistrato della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione
Carissimo Pietro,
ti faccio i miei complimenti per la consueta chiarezza con cui vengono diffuse problematiche complesse nel tuo articolo di domenica concernente la nuova formulazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo [nel d.d.l. n. 1167, approvato dal Senato il 26 novembre scorso – n.d.r.].
Tu esprimi la preoccupazione che l’attribuzione al giudice del potere di valutare se il licenziamento sia rispondente all’interesse dell’azienda ampli – in maniera indefinita – il suo potere valutativo dell’esistenza di tale interesse, che peraltro potrebbe risultare di difficile esercitabilità per difetto di adeguata competenza. Io penso che questo “vuoto” – trattandosi di una norma elastica – possa essere colmato con l’integrazione di standard e prassi operative proprie di un determinato settore produttivo, cui il giudice deve fare necessariamente ricorso attesa la natura della norma; e la sua opzione resta sindacabile in sede di legittimità, come più volte affermato dalla Corte [di Cassazione – n.d.r.]. Sicchè la norma in questione potrebbe esser riformulata nel senso che “il giudice valuta la rispondenza del licenziamento all’interesse generale dell’azienda, e a tal fine fa riferimento agli standard e alle prassi operative proprie del settore produttivo in cui si colloca l’azienda che abbia risolto il rapporto di lavoro, per incompatibilità di uno o più lavoratori con l’organizzazione aziendale che la stessa ritenga per sé conveniente”.
Tanti cari saluti
Corrado Guglielmucci
Grazie, Corrado, per queste osservazioni critiche, che attingono alla tua cospicua esperienza di giudice di Cassazione. A mia volta ti propongo alcune osservazioni e interrogativi in proposito.
1. Continuo a vedere una contraddizione tra il principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali, costantemente affermato in linea teorica dalla giurisprudenza di Cassazione e di merito, e il controllo delle scelte inerenti al licenziamento di personale per motivi economici od organizzativi, anche ridefinito nel modo che tu proponi. Per brevità rinvio in proposito al mio scritto Problemi aperti in materia di giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
2. Non riesco a comprendere come potrebbe svolgersi, in concreto, il controllo del giudice sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento secondo il criterio che tu proponi. Per esempio, se un’azienda meccanica licenzia uno o più fresatori, magazzinieri o fattorini, ritenendo di poterne fare a meno, come è ragionevolmente pensabile che il giudice decida della validità di questi licenziamenti alla stregua degli “standard e prassi” di altre aziende dello stesso settore? Forse che tutte le aziende del settore devono avere lo stesso rapporto numerico tra i propri magazzinieri e il proprio organico complessivo? O tra i propri fattorini e il proprio fatturato complessivo?
3. Quand’anche quel criterio degli “standard e prassi del settore” fosse effettivamente applicabile, mi parrebbe comunque un criterio contrario a un principio fondamentale dell’economia di mercato: quello che sancisce la libertà dell’imprenditore di sperimentare modelli organizzativi e metodi produttivi nuovi e diversi rispetto a quelli sperimentati dalle imprese concorrenti, per conseguire un vantaggio competitivo rispetto ad esse. E’ ben vero che il vantaggio competitivo non può essere perseguito coll’abbassare i livelli di trattamento dei dipendenti al di sotto degli standard minimi di settore; ma le scelte attinenti alle dimensioni o alla composizione dell’organico aziendale non incidono di per sé sui livelli di trattamento dei dipendenti; e infatti, in linea teorica, la giurisprudenza è fermissima nell’affermarne la libertà e insindacabilità in sede giudiziale.
Queste considerazioni mi portano a ritenere che il “filtro” delle scelte imprenditoriali in materia di licenziamento per motivi economici od organizzativi non debba essere costituito dal controllo giudiziale di merito (controllo che deve invece essere limitato alla verifica che sotto i motivi addotti dall’imprenditore non si nascondano in realtà intendimenti discriminatori nei confronti del singolo lavoratore). Assai più efficace ed equo è invece il “filtro” costituito da un severance cost che venga accollato all’impresa per contribuire a garantire ai lavoratori licenziati continuità del reddito, nonché servizi eccellenti di assistenza e riqualificazione mirata nel percorso verso la nuova occupazione. (p.i.)
“L’INSINDACABILITA’ DELLE SCELTE IMPRENDITORIALI NON E’ UN PRINCIPIO ASSOLUTO. IL LICENZIAMENTO E’ GIUSTIFICATO SOLTANTO DALL’INCOMPATIBILITA’ FRA PRESTAZIONE DEL LAVORATORE E ORGANIZZAZIONE AZIENDALE”
Carissimo Pietro,
concedimi una breve replica.
Non credo all’esistenza di un principio assoluto di insindacabilità delle scelte imprenditoriali. A parte il limite generale costituito dall’art. 42, c. 2°, Cost., il c.d. diritto vivente ha individuato il giustificato motivo oggettivo in una sorta di oggettiva incompatibilità fra prestazioni del lavoratore licenziato e organizzazione aziendale in un certo momento storico.
In un certo senso sono il “divenire ed il trasformarsi” dell’andamento aziendale – indotti dallo sviluppo del mercato – i veri fattori che “espellono” il lavoratore dal contesto aziendale – evitando un soggettivismo imprenditoriale rispetto al quale il solo limite dell’arbitrarietà è una ben debole garanzia e rischia di avere un confine troppo labile con il licenziamento ad nutum.
Sono consapevole, tuttavia, che le mie argomentazioni scontano una caratura ideologica incentrata su una supposta conflittualità fra ragioni imprenditoriali e diritto alla coservazione di una certa stabilità, mentre la soluzione del “filtro” da te proposta rimuove la centralità del giudice del lavoro affidando ad organisimi più idonei la soluzione del conflitto; in breve, essa riflette una concezione alternativa rispetto all’assetto attuale dei rapporti di produzione e proietta il tutto in un contesto di “cresita nella modernità”.
Mi piacerebbe tornare su questi temi, anche con altri amici!
Corrado
Non mi convince l’idea che il giustificato motivo di licenziamento consista in una “incompatibilità” fra prestazione lavorativa e organizzazione aziendale. L’interesse dell’imprenditore a licenziare – quando si tratti di un interesse genuinamente economico od organizzativo – sta in una perdita attesa (che è cosa molto diversa dall’incompatibilità): cioè nella previsione che la prosecuzione del rapporto di lavoro comporti costi contabili e “costi opportunità” complessivamente superiori rispetto all’utilità marginale tratta dalla prestazione lavorativa. C’è chi sostiene che basterebbe uno squilibrio anche minimo tra costo e utilità marginali per giustificare il licenziamento; io sostengo, invece, che la perdita attesa, attualizzata al momento del licenziamento, deve superare una determinata soglia minima, al di sotto della quale essa non giustifica il licenziamento stesso (v. ancora Problemi aperti in materia di giustificato motivo oggettivo di licenziamento). Sta di fatto, comunque, che si tratta di una previsione, non di un fatto accaduto; e le previsioni non possono essere dimostrate, né documentalmente né per mezzo di testimoni. Donde la conclusione circa l’intrinseca irrazionalità del nostro ordinamento attuale, che impone all’imprenditore un onere di prova giudiziale circa la fondatezza della previsione di perdita derivante dalla prosecuzione del rapporto di lavoro; e la proposta, de iure condendo, del severance cost come “filtro automatico” della scelta imprenditoriale. Escluso il motivo discriminatorio, sul quale il giudice del lavoro ha piena competenza processuale e tecnica, se l’imprenditore è disposto ad accollarsi il costo prestabilito, questo significa che la perdita attesa è effettivamente superiore: mentre, da un lato, nessuno può valutarla meglio di lui, per altro verso il fatto stesso di accollarsi quel costo esclude la qualificabilità della scelta in termini di mero arbitrio. (p.i.)
“E’ LA RAZIONALE CORRISPONDENZA ALL’INTERESSE DELL’AZIENDA CHE DELIMITA FISIOLOGICAMENTE IL POTERE DELL’IMPRENDITORE, DISTINGUENDOLO DALL’ARBITRIO”
Carissimo Pietro,
Ti sottopongo qualche argomento di replica alle tue obiezioni.
1- La insindacabilità imprenditoriale è – senza soluzione di continuità – affermata dai giudici del lavoro, ma non come dogma. E’ proprio la sua intrinseca razionalità – e quindi la sua rispondenza all’interesse dell’azienda che delimita, fisiologicamente, il potere imprenditoriale, impedendo che esso trasmodi in arbitrio.
La scelta operativa-tecnologica, che per effetto dell’esercizio del potere di autorganizzazione dell’impresa viene operata, può esser espulsiva del lavoratore se egli non ha una professionalità adeguata alle nuove esigenze – o non può acquisirla entro un tempo ragionevole – tenuto presente l’obbligo di formazione continua che dovrebbe incombere all’imprenditore. Deve trattarsi – come ben sai – di una incompatibilità con l’intera organizzazione aziendale: ove essa esista la risoluzione del rapporto di lavoro è sicuramente rispondente all”‘interesse dell’azienda”.
2- Quanto al profilo probatorio, va provato il fatto che, nell’immediato, comporta la “diagnosi” di incompatibilità; innanzi al giudice va provata l’effettività del cambiamento espulsivo e la sua razionalità (scelta operata secondo la corrente “logica produttiva”). In tale valutazione il giudice del lavoro è soccorso dagli standard operativi propri di un determinato settore produttivo.
Carissimi saluti
Corrado
Sbaglierò; ma in queste tue affermazioni leggo proprio la conferma della definizione del giustificato motivo oggettivo in termini di corrispondenza della scelta dell’imprenditore all’interesse oggettivo dell’impresa: proprio quello che il terzo comma dell’articolo 23 del disegno di legge n. 1167 (approvato il 26 novembre scorso dal Senato e ora all’esame della Camera) ha inteso sancire esplicitamente. Concordo con te sul punto che questo, oggi, è il “diritto vivente” nel nostro Paese, intendendosi per tale il diritto sancito dalla giurisprudenza di Cassazione; però la dottrina giuslavoristica italiana assolutamente dominante si è da tempo espressa su questo punto in modo nettamente contrario. Certo, se il terzo comma dell’articolo 23 del d.d.l. n. 1167 verrà approvato alla Camera così come esso è stato approvato dal Senato, la dottrina giuslavoristica sarà costretta a cambiare radicalmente orientamento. Anche in quel caso resterò comunque dell’opinione che non sia questa la riforma di cui lavoratori e imprese oggi hanno urgente bisogno. (p.i.)