PRIME VALUTAZIONI SUL DECRETO BRUNETTA

E’ IMPORTANTE CHE IL PRINCIPIO DELLA TRASPARENZA TOTALE NELLE AMMINISTRAZIONI, INTRODOTTO NEL NOSTRO SISTEMA CON LA LEGGE N. 15/2009, VENGA APPLICATO IN MODO DA CONSENTIRE IL SUPERAMENTO DEL MONOPOLIO PUBBLICO DELLA VALUTAZIONE: OCCORRE UN AMPIO SVILUPPO DEL CIVIC AUDITING E LA SUA VALORIZZAZIONE NEL PROCESSO DI ELABORAZIONE DEGLI INDICI DELLE PERFORMANCE

Articolo di Andrea Tardiola (dirigente del Ministero della Funzione Pubblica) pubblicato sulla rivista Amministrativamente – novembre 2009

Premessa
     Perché non ha dato frutti la valutazione delle performance della dirigenza pubblica? Immaginate di essere un 55enne direttore generale con una lunga militanza professionale nell’amministrazione[1] e di essere nominato componente dell’organismo di valutazione del proprio ministero; ve la sentireste di valutare (cioè di incidere materialmente sulla retribuzione percepita di) colleghi con i quale avete condiviso buona parte della carriera? Oppure ve la sentireste di esprimere una valutazione sui risultati raggiunti che, seppure fondata, è in contrasto con quella nella mente del ministro che vi ha nominati componenti del nucleo di valutazione?
     In queste domande si vedono plasticamente i punti di debolezza dell’esperienza di valutazione praticata nell’ultimo decennio nell’amministrazione centrale. Sebbene con le dovute distinzioni che caratterizzano ciascuna organizzazione, il comune denominatore è l’esercizio di una valutazione routinaria e formale che nella sostanza incide molto poco nella dinamica gestionale degli enti. Il risultato? Valutazioni tutte schiacciate verso l’alto e retribuzione di risultato uguale per tutti. Come se i dirigenti dell’amministrazione centrale – qualche migliaio di persone – fossero tutti dei best performers. Ipotesi poco credibile.
    
Ecco perché la riforma Brunetta vincola con un meccanismo draconiano a un sistema di ranking bloccato delle valutazioni, in base allo schema del 25%-50%-25% (peggiori-intermedi-migliori). Ciononostante rimangono aperte numerose questioni sulle chance di concreta applicazione di uno strumento così rigido, ed anche sulle restanti parti della riforma che riguardano gli strumenti di valutazione.
     Per giudicarle, poiché queste scelte ricadono su un previgente sistema di controlli (quello ex decreto legislativo 286 del 1999), è necessario chiedersi perché quest’ultimo sia fallito e, conseguentemente, domandarsi se la riforma Brunetta si basi su un differente approccio ovvero si innesti sullo stesso solco di teorie.

Storia di un fallimento
     La teoria che ispira la riforma della seconda metà degli anni novanta, seppure in estrema sintesi, è la seguente: le amministrazioni adottano un sistema gestionale di tipo direzionale, cioè per obiettivi e con sistemi di misurazione dei risultati (efficacia) e dei costi (efficienza); gli obiettivi vengono forniti dai vertici politici e poi si dettagliano a cascata; la realizzazione degli obiettivi spetta alla line e quindi la valutazione delle performance deve essere collocata al di fuori di essa, cioè nello staff del politico. È questa che valuta la dirigenza di vertice che poi, sempre a cascata, valuta la dirigenza di base[2].
     Il disegno è molto geometrico, rigoroso, eppure è fallito. Perché?
     Il principale motivo è consistito nel fallimento della principale premessa teorica: la distinzione tra politica e amministrazione. Gli anni delle riforme Bassanini coincidono con quelli dell’affermazione maggioritaria dei sistemi politici, che scaricano sull’amministrazione un esercizio di leadership politica molto più decisa che in passato[3]. Così forte da riuscire a invadere con facilità il campo della gestione per obiettivi che avrebbe dovuto essere prerogativa esclusiva della dirigenza. Invece la politica decide le strategie e gestisce, o almeno orienta la gestione in profondità, e lo fa con tecniche differenti da quelle dei sistemi di programmazione, controllo e valutazione. Per questo si disinteressa di queste ultime e non le legittima.
     I sistemi di programmazione e controllo, peraltro, sono tecniche di gestione più trasparenti perché formalizzate (la direttiva del ministro, ad esempio, esplicita nero su bianco quali sono le priorità dell’indirizzo politico), mentre la politica opera tipicamente ricorrendo anche ad una agenda nascosta e comunque ad una agenda mai definitiva, ma fortemente sensibile alle tensioni quotidiane del dibattito e all’esigenza di non escludere mai del tutto le opzioni disponibili, per non chiudere definitivamente la porta alle relative aree di consenso. A queste caratteristiche del comportamento politico ha corrisposto, simmetricamente, un adeguamento del comportamento burocratico della dirigenza, maggiormente preoccupata di soddisfare (o almeno di non deludere) le aspettative del vertice politico, invece che fissare e traguardare risultati espressi in base a indicatori strettamente quantitativi.
     Questa deriva del sistema può essere coerentemente riscontrata attraverso la parabola dei soggetti preposti alla funzione di valutazione: i Servizi di controllo interno dei ministeri. Nell’aspettativa della riforma avrebbero dovuto essere popolati da competenze tutte orientate alle tecniche di conduzione manageriale e alla misurazione delle performance. Così non è stato perché se da un lato è mancata una strategia diffusa di acquisizione di competenze o di formazione di quelle mancanti, dall’altra è accaduto che questi incarichi venissero utilizzati come ambienti di compensazione per dirigenti oggetto di spoil system oppure come porta di ingresso (attraverso gli uffici di diretta collaborazione) verso incarichi di line
     Lo scarso investimento politico sul ciclo di programmazione, controllo e valutazione, l’adesione solo formale della dirigenza, il fallimento dei Servizi di controllo interno, spiegano l’impatto pressoché nullo dei sistemi di valutazione delle performance.
     Lo stesso ruolo di supporto che la riforma del 1999 poneva in carico al Comitato tecnico scientifico operante presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri non è andato oltre il sostegno all’attivazione dei processi di controllo presso ciascuna amministrazione centrale[4] (ruolo giocato soprattutto nei primi anni di attuazione) senza riuscire ad incidere sull’implementazione dei modelli, per evitare che scadessero nella tipica ritualità burocratica.
     Ha fallito la teoria dei sistemi di rendicontazione interna, cioè l’idea che staff specializzati fornissero al vertice politico quel cruscotto direzionale in base al quale correggere, orientare, perfezionare gli indirizzi di governo. Non si è affermata, tuttavia, neppure una teoria alternativa che, specialmente nel corso della XIV legislatura, sembrava potesse caratterizzare l’evoluzione dei sistemi di controllo.
     A partire da quella stagione il centro di coordinamento dei sistemi di controllo si sposta all’interno del Dipartimento per il programma di governo, nell’ipotesi che il network dei servizi di controllo interno riuscisse ad alimentare un monitoraggio centralizzato sulla realizzazione del programma di governo dell’esecutivo. Quasi che il sistema evolvesse verso una ipotesi di delivery unit italiana[5]. In realtà anche questo esito non è stato raggiunto. Per esso l’investimento in competenze e nuove metodologie sarebbe dovuta essere ancora più consistente. E sarebbe stato fondamentale anche l’investimento politico per una eventuale operazione di accountability reale e non preordinata a offrire una rappresentazione il più possibile positiva dei risultati di governo[6]. In ogni caso, anche nell’esperienza del monitoraggio del programma di governo, nell’attuazione italiana si è affermato uno schema burocratico nel quale prevale la rendicontazione dei provvedimenti normativi o amministrativi adottati (l’offerta normativa) piuttosto che una restituzione dettagliata dei numeri dell’impatto delle azioni sull’utenza o sulla  cittadinanza (l’output delle politiche).

Tra controllo indipendente e controllo diffuso: verso il superamento del monopolio pubblico della funzione?
     L’evidenza del fallimento dei sistemi di controllo interni fa da sfondo alla apertura di un dibattito nella XV legislatura sulla necessità di verifiche della performance amministrativa esterne e indipendenti. In altri termini si affaccia la tesi che solo un soggetto terzo rispetto all’amministrazione possa esercitare una funzione di controllo che non finisca catturata dalle resistenze o dagli svuotamenti determinati dall’accordo tacito o dalla somma di resistenze di burocrazia, sindacato, politica.
     La proposta sui controlli esterni anima il dibattito specialmente per l’opera di Pietro Ichino, ispiratore anche di un disegno di legge depositato in Parlamento.
     La questione che viene posta è infatti quella di un esercizio di funzioni di misurazione delle performance amministrative più incisive perché svolte da un soggetto dotato di autonomia e di risorse adeguate all’obiettivo. Tuttavia, anche se non formalizzato in proposte normative, nel governo si affaccia l’ipotesi che questa funzione possa essere affidata al CNEL, organo prestigioso ma, per composizione, tradizione e missione istituzionale, sguarnito dei requisiti ci conoscenza e metodologie che la teoria di un controllo esterno richiederebbe.
    
Proprio l’ipotesi del CNEL, tuttavia, evidenzia come in questa fase l’impianto teorico rischi di mescolare visioni differenti: controlli interni ed esterni non costituiscono alternative tra loro inconciliabili ma allo stesso tempo rispondono a impostazioni diverse e, per questa ragione, i soggetti dell’una e dell’altra fattispecie non possono essere interscambiati. Staff pensati per svolgere funzioni all’interno della struttura non riusciranno ad acquistare quel grado di autonomia che si chiede ad un controller terzo ma, allo stesso tempo, un soggetto esterno perde in capacità di lettura delle dinamiche gestionali, che le appaiono inevitabilmente più sgranate di quanto non siano agli occhi di un ufficio interno (il controllo esterno è sempre documentale, quello interno può avvalersi anche del confronto e dell’osservazione costante).
    
Non a caso nell’ipotesi di Ichino il controllo esterno è affidato ad una autorità che presenta connotati di autonomia simili a quelli delle autorità amministrative indipendenti[7] e che richiama, nell’ispirazione complessiva, il ruolo svolto nei confronti dell’amministrazione britannica dall’Audit Commission. Quindi una struttura di notevole robustezza organizzativa e con un mandato ampio e penetrante di verifica nei confronti delle amministrazioni locali e di quelle del servizio sanitario.

In ciascuna di queste versioni, tuttavia, l’idea rimane quella di un controllo proceduralizzato, affidato a un ufficio o organismo preposto alla funzione (CNEL, Autorità oppure Commissione come nella versione finale del decreto Brunetta).
     È in questa fase del dibattito sui controlli che si sviluppa un filone parallelo connesso al tema della trasparenza. La conseguenza più nota di questa riflessione ulteriore coincide però con il profilo meno interessante, o comunque meno sistematico, laddove si concentra soprattutto sull’aspetto della pubblicazione di retribuzioni dei dipendenti e dei tassi di assenza degli uffici. Si tratta di elementi non banali ma che, isolatamente, consentono solo una parziale consapevolezza sulle dinamiche di una struttura amministrativa. Nonostante ciò la discussione mobilita l’attenzione su possibili sviluppi di questo approccio, che assume un significato ben più profondo se viene declinato nella logica della trasparenza totale.

 

La trasparenza totale …
 
     È la trasparenza totale che definisce una condizione di funzionamento nuova per l’amministrazione, nella quale la stessa logica dei controlli viene ripensata: i controlli interni rimangono strumento direzionale a supporto del vertice burocratico e politico, ma la piena accessibilità delle informazioni (consentita ora dal web) permette un controllo molto più diffuso in capo alla società civile. L’amministrazione non perde la titolarità dei controlli tipizzati in procedure e incardinati presso organi deputati (a partire da quello più tradizionale della Corte dei Conti e finendo con il controllo interno di ciascuna struttura) ma si fa carico dell’ulteriore responsabilità di favorire modalità di controllo più fluide, aperte e partecipate. Giornalisti specializzati, centri di ricerca, associazioni di tutela dei diritti, parti sociali, organizzazioni di categoria vengono chiamati in causa come utilizzatori privilegiati di informazioni di dettaglio sugli andamenti gestionali dell’amministrazione.
    
La teoria che sta alla base di questa impostazione ipotizza il superamento del monopolio pubblico sul controllo dell’amministrazione, cioè dei poteri pubblici che controllano se stessi, sebbene attraverso architetture organizzative miranti a garantire maggiori livelli di autonomia del controllore/valutatore.
    
Per traguardare una prospettiva di questo tipo, tuttavia, occorre assicurare importanti precondizioni (di trasparenza, appunto) che richiedono modifiche sostanziali nel modo di operare delle amministrazioni. Questo significa muovere oltre la prospettiva della trasparenza come diritto di accesso, con limitato riferimento al nesso tra funzione amministrativa e interesse diretto, concreto e attuale del cittadino, ma come un contesto di piena visibilità delle dinamiche gestionali dell’amministrazione. Un ripensamento così ambizioso del modo di operare dell’amministrazione che è permesso dall’esistenza della rete internet, con il suo illimitato potenziale di messa a disposizione di informazioni.

 

… e la riforma Brunetta
    
Come si posizione la riforma Brunetta rispetto a queste possibili strategie, sia rispetto alla riforma dei sistemi di controllo interno, sia alla definizione dei meccanismi di trasparenza e di innesto su di essi di forme di controllo diffuso? Effettivamente nella legge di delega sono presenti entrambi i piani di intervento, sebbene l’iter di approvazione del testo lascia intendere come fosse soprattutto la modifica dei controlli interni nell’intenzione del governo (semmai con l’aggiunta di componenti di trasparenza focalizzate su specifici oggetti, ancora una volta retribuzioni e assenze), mentre il corso del dibattito parlamentare ha contribuito a rafforzare le  previsioni orientale al principio della trasparenza totale.
    
Nel decreto legislativo si trovano norme che disciplinano un nuovo ciclo di controllo interno e si istituisce la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità nella pubblica amministrazione.
    
Le norme relative al nuovo ciclo della perfomance innovano più nella forma che nella sostanza: l’impianto teorico rimane quello di un sistema di programmazione delle attività che non si distanzia – nei fondamentali – dalle caratteristiche del decreto legislativo n. 286 del 1999 basato sulla direttiva per la gestione amministrativa del ministro. D’altra parte anche la sostituzione degli attuali Servizi di controllo interno con Organismi indipendenti di valutazione appare più nominalistica che fattuale poiché questi rimangono strutture incardinate presso gli uffici di diretta collaborazione del ministro e quindi da esso nominati fiduciariamente.
    
Più interessanti sono le indicazioni sulle relazioni tra gli Organismi interni di valutazione e la Commissione: il progetto sembra quello di un modello a stella che vede al centro la Commissione e gli Organismi quali punti focali di un network interno alle amministrazioni. È una ipotesi di lavoro interessante e tuttavia ci si dovrebbe domandare perché li dove ha fallito il Comitato tecnico scientifico dovrebbe riuscire il nuovo “centro della rete”? La perplessità permane perché si è scelto di non intervenire sulla forza gravitazionale che inevitabilmente viene esercitata dalla nomina in capo al ministro. Vero è che la nuova disciplina prevede che la Commissione definisca i requisiti per la nomina dei componenti degli Organismi interni di valutazione, ma l’esperienza dimostra come i soli requisiti sono un fattore di difesa debole se non si interviene anche sulla fonte della nomina. Sarebbe stato interessante, ad esempio, un modello simile a quello della rete degli Uffici centrali di bilancio, che operano presso ciascun ministero ma alle dipendenze della Ragioneria Generale dello Stato. Con uno statuto di questa natura, gli Organismi avrebbero potuto continuare a svolgere la funzione di supporto al vertice delle amministrazioni, ma più nella logica dell’audit, riducendo il rischio di condizionamenti politici o burocratici sul proprio operato.

In altri termini i reali fattori di cambiamento presenti nella riforma Brunetta non sembrano incardinarsi nel restyling degli Organismi indipendenti (ex Secin), rispetto ai quali un indicatore sarà offerto dall’eventuale ricambio delle attuali composizioni. Più interessante il ruolo che potrà svolgere la Commissione e, anche in questo caso, saranno indicative della sua capacità di intervento sia la composizione del board che la comporrà sia le prime scelte in ordine alle indicazioni alle amministrazioni per impostare sui principi della riforma già l’anno gestionale 2010 (da questo punto di vista, la capacità della Commissione di entrare già in sintonia con il prossimo ciclo gestionale costituirà un banco di prova significativo).
     
Saranno fondamentali le priorità che la Commissione vorrà stabilire, perché è dotata di un contingente limitato – trenta unità più dieci esperti – e di conseguenza dovrà massimizzare i risultati. Sulla scorta dell’esperienza (non esaltante) del precedente Comitato tecnico scientifico si può ritenere che la nuova Commissione possa puntare, per rafforzare il proprio mandato, proprio sulla leva dell’osservazione esterna e diffusa sulle amministrazioni. In altri termini, per superare i limiti oggettivi legati al proprio potenziale d’intervento la Commissione potrebbe collegare la sessione di  definizione del piano della performance 2010 con il piano triennale della trasparenza. L’obiettivo è quello di far percepire plasticamente alle amministrazioni prese ad esame (almeno alle grandi amministrazione statali ed a poche ma esemplificative amministrazioni territoriali: alcune ASL, alcuni comuni) che il loro rapporto non si limita a quello con la Commissione, ma che questa si porrà come mediatore tra di esse e il mondo degli interessi organizzati che per ciascuna di queste amministrazioni è chiamato in causa. Questa può essere la scommessa su cui puntare: non limitare il gioco alla relazione tra vertice politico, burocratico e sindacato interno, ma mobilitare l’osservazione attenta e severa di altri attori.
    
Per fare pochi ma chiari esempi: il sindacato dei lavoratori dei cantieri sarà interessato a pressare quello dei lavoratori pubblici laddove si parla di performance degli ispettori del lavoro; il sindacato dei pensionati e le associazioni di tutela dei diritti saranno in grado di pressare quello del personale medico e delle professioni sanitarie ecc.
    
Il compito della Commissione può fare leva su questi fattori per moltiplicare l’efficacia del proprio intervento di sostegno alla programmazione delle performance (cioè degli obiettivi), al loro monitoraggio e, soprattutto, alla rendicontazione dei risultati.

Si tratta quindi di spingere sulla valutazione con la forza di quanti hanno interesse a che questa venga fatta e bene, evitando di giocare nel solo campo avverso com’è accaduto fino ad oggi, quando sforzi anche apprezzabili in direzione dell’avvio di nuove metodologie sono stati neutralizzati da dinamiche tutte interne agli apparati. È un impianto concettuale piuttosto innovativo rispetto a quanto progettato in Italia fino ad oggi nel campo delle misurazioni delle performance pubbliche (a parte pochi felici casi di rendicontazione o bilancio sociale). Si re-incornicia il dibattito sulla valutazione indipendente perché, in questo caso, l’esito della valutazione invece “dipende” molto dal modo in cui tutto il ciclo della performance saprà trasparire ed aprirsi alla partecipazione dei corpi sociali intermedi che hanno bisogno di buone performance.
    
Tutto questo richiede apprendimento non solo degli apparati pubblici, ma anche di quelle stesse forse sociali che dovranno accrescere la capacità di utilizzare le informazioni che il ciclo dei controlli renderà disponibile. Occorrerà tempo perché il processo possa diffondersi nell’amministrazione italiana che – com’è noto – riflette le caratteristiche di pesante differenziazione tra territori che connota la storia italiana. Ma già dalla prima impostazione dell’esercizio da parte della Commissione, dagli esiti sulle amministrazioni sulle quali si concentrerà la sua attenzione e dalla rispondenza degli Organismi indipendenti di valutazione potremo trarre elementi di verifica sulla validità di questa nuova teoria del cambiamento amministrativo e sulla sua efficacia.

 

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[1]             L’esempio non è casuale, ma trae spunto dall’età media rilevata dal Conto annuale 2007 del Ministero dell’economia e delle finanze. I dati del Conto annuale sono accessibili dal sito: http://www.tesoro.it/web/contoannuale2007.asp  

[2] B. Dente, N. Piraino, «La parabola dei controlli interni nelle amministrazioni dello Stato», dal Convegno Le riforme amministrative a dieci anni dalla Riforma Bassanini, organizzato dall’Università di “Roma Tre”, a Roma il 30-31 gennaio 2008.

[3]             A. Natalini, Il tempo delle riforme amministrative, Bologna, il Mulino, 2006.

[4]             Ruolo giocato soprattutto nei primi anni di attuazione della disciplina dei controlli, quando con la cosiddetta “direttiva madre” del Presidente del Consiglio dei ministri si mirava all’avvio dei cicli di programmazione e controllo in tutti i ministeri.

[5]             M. Barber, Instruction to deliver, Methuen. Londra, 2007.

[6]             Basti pensare all’investimento professionale della Delivery Unit inglese, fornita di un selezionato staff di giovani studiosi e supportata dall’attenzione diretta di Tony Blair che dedicava ai meeting della struttura una parte predefinita del suo tempo di lavoro.

[7]             Cfr l’articolo 5 del disegno di legge Atti Senato n. 746 della XVI legislatura.

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