LE PARTI DIMENTICATE DEL JOBS ACT

La Festa del Lavoro è una buona occasione per fare il punto sulle molte misure importanti previste dalla riforma del 2014-2015 rimaste del tutto inattuate: dal minimum wage all’unificazione e riorganizzazione degli Ispettorati, dall’ANPAL al sistema di monitoraggio capillare della formazione

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Articolo pubblicato su lavoce.info il 29 aprile 2025 – In argomento v. anche, su questo sito, la mia intervista pubblicata sul sito Pagella Politica il 19 marzo 2025, Perché i referendum sul lavoro sono sbagliati

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Prima riforma inattuata: il salario minimo orario
Quando si parla del Jobs Act, la riforma del lavoro varata dal Governo Renzi nel 2014-15, quasi tutti pensano soltanto al decreto legislativo n. 23/2015 sui licenziamenti; e solo a questo si riferiscono, con l’intendimento di abrogarlo, i promotori del referendum che si celebrerà l’8 giugno prossimo. Pochi parlano, invece, degli altri sette decreti legislativi di cui quella riforma si compone; e nessuno chiede conto ai Governi che da allora si sono succeduti del fatto che alcuni capitoli assai importanti di quella riforma siano rimasti del tutto inattuati: abrogati di fatto, in assenza di alcun dibattito, senza che un solo sindacato abbia manifestato il minimo dissenso. Ma, soprattutto, senza che il vuoto rimasto sia stato riempito da alcun altro progetto: in materia di politica del lavoro ha trionfato l’inerzia.

Una prima innovazione di grande rilievo, che era contenuta nella legge 10 dicembre 2014 n. 183 (articolo 7, lettera g), era costituita dalla delega al Governo per l’istituzione di uno standard retributivo minimo applicabile a tutti i rapporti di lavoro subordinato, o di collaborazione autonoma continuativa, non coperti da un contratto collettivo nazionale stipulato dai sindacati maggiormente rappresentativi. Questa delega non è stata attuata per l’opposizione molto ferma non soltanto della Cisl, ma anche della Cgil, che oggi invece rivendica con vigore un intervento legislativo mirato a stabilire una paga oraria minima universale, cui è ora il Governo di centro-destra a opporsi. Non si pretende un’autocritica; ma almeno un chiarimento su questo punto da parte della Cgil non guasterebbe.

L’unificazione e riorganizzazione degli Ispettorati del lavoro abrogata alla chetichella
Ogni volta che si verifica un infortunio grave sul lavoro i media condannano, i sindacati protestano, le autorità promettono giri di vite nella disciplina anti-infortunistica e rafforzamento delle attività ispettive. In realtà, il primo passo per questo rafforzamento sarebbe costituito dalla riorganizzazione unitaria degli ispettori del lavoro, attualmente ripartiti in quattro organici distinti e tra loro scollegati: quello del ministero, quello dell’Inps, quello dell’Inail e quello delle Aziende sanitarie locali.

L’unificazione e riorganizzazione almeno dei primi tre in una struttura denominata Ispettorato Nazionale del Lavoro erano previste da uno dei decreti attuativi del Jobs Act, il n. 149 del 2015; e sarebbe stata indispensabile per ridare autorevolezza all’attività ispettiva, recuperando un’efficacia che non si misura sul numero delle ispezioni ma sulla programmazione intelligente dell’intervento degli ispettori là dove oggi esso è davvero indispensabile. Senonché a dieci anni di distanza quella norma non è mai stata attuata: hanno prevalso le resistenze interne degli apparati a ogni cambiamento organizzativo; e i tre corpi amministrativi sono rimasti separati sia sul piano istituzionale, sia su quello operativo.

Subito dopo la strage avvenuta il 16 febbraio dell’anno scorso in un cantiere di Firenze, nel decreto-legge n. 19/2024 è stato aggiunto un articolo 31 contenente norme per “L’efficientamento dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro”. Finalmente, pur in grave ritardo, viene attuata la norma del 2015? No: l’esatto contrario. La beffa è collocata nel comma 12 –accuratamente nascosto in fondo al un articolo, dopo altri undici commi pressoché del tutto irrilevanti – che prevede… il “ripristino dei ruoli ispettivi dell’Inps e dell’Inail” come ruoli a sé stanti rispetto a quello degli ispettori ministeriali. In altre parole, l’abrogazione di quanto disposto per l’unificazione dei ruoli stessi e la riorganizzazione unitaria del servizio dal decreto legislativo del 2015.
Nessun mutamento organizzativo reale: il solo vero scopo della norma è sancire ufficialmente il successo definitivo della resistenza sorda degli apparati a quanto era stato disposto dalla legge nove anni prima. Nel silenzio tombale dei sindacati, che nulla hanno da ridire al riguardo.

Le politiche attive del lavoro dimenticate
Un discorso in tutto analogo potrebbe essere svolto per il “contratto di ricollocazione”, uno strumento per il reinserimento di chi perde il posto sperimentato con successo nel nord-Europa e previsto da ben due decreti legislativi attuativi del Jobs Act (il n. 22 e il n. 150 del 2025), ma che il nostro sistema delle politiche attive ha sempre rifiutato come un corpo estraneo.

Più grave ancora è la soppressione dell’ANPAL, l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro, avvenuta un anno fa nell’indifferenza totale dei media, dell’opinione pubblica, dell’opposizione di centro-sinistra e delle confederazioni sindacali, dopo che la sua presidenza era stata affidata nel 2018 dal ministro del Lavoro Di Maio a un professore del Mississippi che pretendeva – durante la pandemia – di esercitare la funzione prevalentemente da remoto, dalla sua residenza statunitense.

È vero che la bocciatura referendaria del dicembre 2016 aveva affossato la riforma costituzionale promossa dal Governo Renzi; ma la norma istitutiva dell’ANPAL era pur sempre stata preceduta da un accordo tra Stato e Regioni, convinti l’uno e le altre della necessità di un’agenzia centrale capace di svolgere le funzioni di coordinamento e, all’occorrenza sostituzione in via sussidiaria delle amministrazioni regionali inadempienti.

L’indifferenza generale riguardo alla soppressione dell’agenzia sarebbe comprensibile se il Governo avesse in qualche modo spiegato chi e come ne avrebbe svolto le funzioni; ma su questo tema non si è sentita una parola.

Il SIISL e il monitoraggio capillare dei servizi di formazione
Assai rappresentativa del modo in cui le politiche attive del lavoro vengono valorizzate a parole ma non implementate nel nostro Paese è poi la vicenda del SIISL, ovvero del Sistema Informativo di Inclusione Sociale e Lavorativa, e del monitoraggio della qualità dei servizi di formazione professionale.

All’inizio dell’anno scorso il ministero del Lavoro ha annunciato con grande enfasi una vera e propria palingenesi che avrebbe dovuto determinarsi nella gestione dei servizi di collocamento in conseguenza dell’istituzione del SIISL. Poco dopo è intervenuto il decreto-legge n. 60/2024 a stabilire che il SIISL fosse potenziato dall’Intelligenza Artificiale per garantire non soltanto il migliore incontro fra domanda e offerta di lavoro, ma anche il monitoraggio capillare dei servizi di formazione professionale, con rilevazione del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi e conseguente attribuzione a ciascun centro di formazione di un punteggio di qualità.

Qualcuno dovrebbe spiegare perché il SIISL, che avrebbe dovuto essere operativo dall’inizio del 2024, a tutt’oggi non lo sia affatto: a quanto risulta, nessun Centro per l’Impiego nella penisola è posto in grado di avvalersene. Quanto al monitoraggio capillare dell’efficacia dei servizi di formazione – che determinerebbe effettivamente una svolta epocale nel funzionamento dei servizi per l’impiego e quindi del nostro mercato del lavoro – nessuno spiega perché questa materia sia stata fatta oggetto di un decreto-legge nel corso del 2024, considerato che quello stesso monitoraggio, attuato mediante l’incrocio dei dati di una anagrafe della formazione con tutti gli altri dati disponibili sui flussi di occupazione, era già compiutamente previsto negli articoli da 13 a 16 del decreto attuativo del Jobs Act n. 150/2015: norme, anche queste, che a dieci anni di distanza sono ancora totalmente inattuate.

Certo, infilare la nuova norma in un decreto-legge consente di presentarsi nei talk-show con il fiore all’occhiello del “provvedimento adottato”. Ma al buon funzionamento del mercato del lavoro non servono tanto nuove leggi, quanto l’implementazione di quelle già esistenti che sono rimaste per anni lettera morta. Su questo terreno, non su quello della produzione di nuove norme legislative, si misura la bontà dell’azione svolta dal Governo.

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