ESTERNALIZZAZIONI, SERVIZI PUBBLICI E CONFLITTO SINDACALE

I motivi della scelta dell’imprenditore tra l’opzione make e l’opzione buy, la necessità di discernere attentamente i molti motivi legittimi dall’unico motivo socialmente regressivo, l’impatto della disciplina della materia sull’applicazione della tutela dei servizi pubblici essenziali – Una novità in tema di responsabilità del singolo lavoratore

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Trascrizione rivista e corretta della registrazione del mio intervento orale
al convegno promosso dalla CGS a Montecitorio l’8 aprile 2025 – Sono disponibili su questo sito anche le slides delle quali mi sono avvalso per la presentazione dello stesso intervento

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È sempre con qualche emozione che rimetto piede qui, alla Camera dei Deputati, dove entrai per la mia prima esperienza parlamentare nel 1979. Ringrazio vivamente di questo invito la Commissione di Garanzia, la sua Presidente Paola Bellocchi e il suo Capo di Gabinetto Giovanni Pino.

1. La scelta make or buy

Il tema che sono stato invitato a trattare, quello cioè delle esternalizzazioni nel processo produttivo dei servizi pubblici, mi riporta invece a un’esperienza accademica di vent’anni posteriore: la relazione introduttiva al convegno nazionale dell’Associazione italiana di diritto del lavoro che si svolse a Trento nel 1999. In quell’occasione mi proposi di individuare le ragioni d’essere della segmentazione del tessuto produttivo e del variare dei confini dell’impresa, i quali si ampliano o si restringono a seconda delle necessità: tema che richiede, per essere studiato, una sinapsi tra scienza giuridica e scienza economica, poiché è l’economia del lavoro e della produzione che studia i fattori determinanti della segmentazione e gli interessi in gioco, oggetto della disciplina dettata dall’ordinamento. In altre parole, è compito della scienza economica individuare ciò che può determinare la scelta dell’imprenditore, posto nell’alternativa tra make, il fare in casa propria coi propri mezzi, assoggettando i fattori della produzione al proprio potere direttivo e organizzativo, e buy, il comprare da altre imprese, il rivolgersi al mercato esterno.

Secondo una delle teorie economiche più accreditate, a favore della scelta make, cioè della scelta di fare in casa propria, sta essenzialmente il risparmio di costi di transazione individuali, cioè di negoziazione tra l’impresa e i singoli protagonisti del processo produttivo: qui il riferimento è a uno dei fondatori dell’approccio di Law and Economics, Ronald Coase, cui è dovuta la teoria dei costi di transazione come fattore fondamentale dell’organizzazione sociale ed economica. Secondo questa teoria, la ragion d’essere fondamentale dell’impresa stessa è il risparmio di costi di transazione: l’imprenditore “acquista l’obbedienza” dei propri dipendenti per non dover ricontrattare con loro di volta in volta le modalità della prestazione lavorativa e poterla invece conformare alla mutevoli esigenze della protezione mediante l’esercizio del potere direttivo e organizzativo.

Il primo motivo, invece, della scelta buy sta nel potersi concentrare su ciò che si fa meglio “comprando” nel mercato esterno le funzioni che altre imprese riescono a svolgere a minor prezzo o con risultati superiori.

A questo si aggiunge – scondo motivo – il rischio che corre la grande impresa, con l’allungarsi della catena di comando, di incorrere in errori nell’esercizio del potere direttivo: più si allunga la catena di comando, più è facile che a chi dirige sfugga qualche cosa in periferia; può allora valere la pena di affrontare qualche costo di transazione in più per avere un collaboratore esterno più responsabilizzato circa il risultato utile.

Poi può esserci – terzo motivo tipico della scelta buy – la necessità di far fronte a picchi di produzione senza dover affrontare i costi di aumento dell’organico permanente dell’impresa. Se il produttore del servizio o del segmento periferico di produzione di semilavorati o altro ha una pluralità di committenti, le oscillazioni nella domanda degli uni possono essere compensate da quelle della domanda degli altri: il produttore decentrato può, così, mettere a frutto la propria maggiore capacità di gestione del rischio delle oscillazioni della domanda espressa da una singola impresa.

Vi è poi un quarto possibile motivo del decentramento produttivo: l’aumento degli oneri di fonte legislativa legato all’aumento delle dimensioni dell’impresa. Il riferimento non è soltanto ai maggiori vincoli in materia di stabilità dei posti di lavoro, ma anche alla perdita di possibili vantaggi fiscali e amministrativi riservati alle imprese di dimensioni minori. Il legislatore dovrebbe fare una riflessione approfondita a questo proposito: con la tendenza diffusa a stabilire soglie dimensionali per l’applicazione di determinati oneri od obblighi, per cui certi regimi più onerosi si applicano al di sopra dei 15, dei 35, dei 100, dei 500 dipendenti, e così via, si genera un incentivo improprio alla segmentazione dell’impresa, una vera e propria distorsione.

Infine, un incentivo al decentramento produttivo può essere tipicamente costituito anche dal risparmio di costi di transazione di natura sindacale. L’impresa più piccola sfugge più facilmente alla presa organizzativa dei sindacati e quindi all’assoggettamento alla contrattazione collettiva: è più difficile organizzare sindacalmente i lavoratori dispersi in un pulviscolo di imprese piccole, che i lavoratori dipendenti di una grande impresa, la quale in un certo senso “regala” all’associazione sindacale il “collettivo” dei lavoratori già riunito e organizzato.
Abbiamo dunque individuato cinque determinanti tipiche della scelta buy. Osserviamo ora che mentre le prime quattro devono essere considerate come motivi pienamente legittimi del decentramento produttivo, diverso è invece il discorso in relazione alla quinta: il risparmio dei costi di transazione sindacale. È proprio la presenza di questa quinta possibile determinante che induce legislatore e organizzazioni sindacali a diffidare del decentramento produttivo. E accade pure che la possibile valenza per così dire “antisindacale” del decentramento produttivo induca legislatore, sindacato e talvolta gli stessi giudici del Lavoro a contrastare più del dovuto il fenomeno del decentramento produttivo, imponendo restrizioni che sacrificano indebitamente le altre possibili esigenze cui la segmentazione dell’impresa può legittimamente rispondere.

2. La tecnica normativa appropriata per neutralizzare il quinto motivo della scelta buy

L’immagine di sottofondo che compare nella slide che sto proiettando era l’immagine che nella relazione del 1999 al convegno dell’Associazione giuslavoristica proposi per dar conto della estrema frammentabilità dell’impresa.

Oggi, a differenza di un secolo o anche solo mezzo secolo fa, ogni funzione imprenditoriale è suscettibile di essere esternalizzata, comprese le funzioni più intimamente proprie dell’impresa, quali la tenuta della contabilità, la redazione del bilancio, la gestione del personale. Resta il fatto che la possibilità di segmentazione del processo produttivo è essenziale per consentire l’evoluzione tecnologica: se questo corollario della libertà d’impresa non fosse dato, il progresso tecno-organizzativo ne risulterebbe compresso. Il problema è discernere i motivi buoni di questa segmentazione dal possibile motivo cattivo; e responsabilizzare l’impresa che si colloca in posizione dominante riguardo all’impatto sociale ed ecologico dell’attività dell’intera filiera.

Responsabilizzazione che, però, non deve significare ostilità preconcetta nei confronti del decentramento produttivo.

La tecnica normativa con cui l’ordinamento si propone di “disattivare” il motivo cattivo della scelta buy che abbiamo individuato sopra – ovvero la valenza “antisindacale” del decentramento produttivo – è essenzialmente l’imposizione di una corresponsabilità solidale della committente per i debiti retributivi e contributivi dell’appaltatrice o della subappaltatrice. La Corte costituzionale recentemente, con la sentenza n. 254/2017, è arrivata a considerare questo principio di corresponsabilità solidale come una sorta di principio generale dell’ordinamento su questa materia. Quanto agli standard di trattamento, non si arriva ancora a imporre una regola di parità fra dipendenti della committente e dipendenti dell’appaltatrice, ma si impone l’applicazione di standard collettivi minimi comuni.
La mia impressione – questo è il nucleo essenziale del discorso che sto proponendovi oggi – è che questo intervento regolativo sia difettoso nella sua architettura: sia un po’ grossolano, non colga il nocciolo del problema. Esso ha il difetto di essere impreciso, di colpire più estesamente del necessario la scelta buy rispetto alla scelta make. Vediamo perché.

Osserviamo, innanzitutto, che non sempre la committente è l’impresa più forte nel rapporto con l’appaltatrice. Non è infrequente che la committente sia di dimensioni inferiori o comunque dotata di forza di mercato minore rispetto all’appaltatrice (si pensi per esempio ai servizi informatici resi da una grande High Tech a un’impresa di dimensioni piccole o medie): quando questo accade, è facile comprendere che viene meno la stessa ragion d’essere dell’intervento protettivo dell’ordinamento.
Va dunque valutata, invece, la possibilità di assumere come criterio generale per l’attivazione della protezione non la pura e semplice qualifica di un’impresa come committente e dell’altra come appaltatrice, bensì il criterio assai più preciso della dipendenza economica dell’appaltatrice dalla committente. Là dove fra due imprese si instauri un rapporto di dominanza/dipendenza, la protezione potrebbe essere anche più incisiva di quella oggi in vigore. Se l’area di applicazione della disciplina protettiva è definita dal rapporto di dipendenza economica dell’appaltatrice dalla committente – dipendenza individuata dalla durata, cioè dal fatto che il rapporto continui a lungo nel tempo, e dalla monocommittenza, ovvero dal fatto che l’appaltatrice tragga dal rapporto più del 75 o dell’80 per cento del proprio fatturato – allora alla regola della corresponsabilità solidale potrebbe affiancarsi una regola di vera e propria parità di trattamento tra i dipendenti dell’una e dell’altra impresa, che è assai più penetrante. E che disinnesca il possibile “motivo antisindacale” della scelta buy molto più efficacemente di quanto non faccia la regola della mera corresponsabilità solidale.

Questo aiuterebbe anche a contenere le reazioni luddiste al processo di specializzazione del tessuto produttivo che, come dicevo all’inizio, è in sé un processo meritevole di essere protetto, non avversato. Una protezione più mirata e al tempo stesso più incisiva contribuirebbe a stemperare l’ostilità a priori verso la segmentazione del processo produttivo, che talvolta si esprime in orientamenti giurisprudenziali a mio avviso non del tutto razionali: non ho qui il modo di estendere l’esposizione per giustificare questa affermazione critica, ma l’ho fatto per iscritto altrove.

La stessa ostilità a priori si esprime anche nel comportamento di alcune associazioni sindacali non confederali, soprattutto nel settore della logistica per la grande distribuzione, dove si assiste talvolta, soprattutto nel nord del Paese, a una vera e propria guerriglia organizzata contro gli appalti di servizi di logistica. Questa guerriglia si esprime oggi soprattutto nell’adozione dello strumento l’arma del blocco degli accessi alle piattaforme logistiche come arma strategica; arma che viene diffusamente usata addirittura prescindendo dalla proclamazione dello sciopero: si procede al blocco dei cancelli senza neppure proclamare lo sciopero (e talvolta addirittura affidando l’attuazione del blocco a persone non dipendenti, totalmente estranee all’azienda che viene aggredita). Sulla legittimità o no di questa forma di lotta è in atto un contrasto giurisprudenziale che la Cassazione sarà presto chiamata a risolvere; ma la Commissione di Garanzia si è già pronunciata molto chiaramente il 9 dicembre del 2023 nel senso della illegittimità di queste forme di lotta, avvertendo altresì che esse possono pregiudicare anche diritti di rilievo costituzionale protetti dalla disciplina dei servizi pubblici essenziali: come nel caso in cui il blocco impedisca la distribuzione di farmaci, oppure il rifornimento quotidiano di refezioni scolastiche, ospedaliere, di case di riposo per anziani o di istituti di pena.

Il professor Giuseppe Santoro Passarelli, presidente della Commissione di Garanzia fino al marzo 2023

3. La corresponsabilità della committente per la tutela degli utenti di servizi pubblici essenziali

Siamo così arrivati alla questione che immagino più stia a cuore alla Commissione di Garanzia, nell’ampia tematica cui è dedicato questo nostro incontro dalla Commissione stessa promosso: la questione, cioè, della corresponsabilità solidale tra committente e appaltatrice per il rispetto delle regole che disciplinano il conflitto sindacale nei settori coperti dalla legge n. 146 del 1990.

Su questo tema la stessa Commissione di Garanzia si è pronunciata con due affermazioni di grande rilievo. La prima è contenuta in una delibera del 14 giugno 2022 nella quale si legge che

nel perimetro del conflitto collettivo sono inclusi tutti i soggetti che proclamano o aderiscono a uno sciopero, le imprese erogatrici dei servizi pubblici essenziali e i lavoratori alle loro dipendenze.

L’altra affermazione importante su questa materia è quella secondo cui la qualità di parte del conflitto deve essere estesa anche “alla stazione appaltante” (che può non essere un’impresa: può essere il Comune, per esempio), la quale “ha il dovere di diligenza e vigilanza […] sul rispetto dei diritti degli utenti […] (c.d. prestazioni indispensabili di filiera)”.

Si tratta di due affermazioni molto importanti e dense di conseguenze sul piano pratico. La conseguenza più rilevante è la responsabilità della committente per i comportamenti dell’appaltatrice. Il meccanismo predisposto dalla legge n. 146 del 1990 pone al centro i diritti degli utenti vincolando tutti gli operatori, dalla committente fino all’ultima subappaltatrice, coinvolti nella produzione del servizio pubblico a cooperare affinché non si verifichino lesioni di quel diritto; pertanto, anche la committente – che sia impresa o ente pubblico – del servizio, o della fornitura necessaria per la produzione del servizio stesso, deve considerarsi soggetta allo stesso vincolo. La regola vale anche quando committente non è un’impresa ma è per esempio l’ente pubblico, come l’amministrazione regionale o il municipio. Anche la stazione appaltante non impresa deve dunque astenersi da comportamenti che possano favorire il conflitto, come i ritardi nei pagamenti del corrispettivo dell’appalto, oppure i ritardi ingiustificati nel rinnovo del contratto collettivo.

4. Sulla corresponsabilità del singolo lavoratore per la garanzia del diritto dell’utente al preavviso circa la sospensione del servizio pubblico essenziale

Concludo con una osservazione che può apparire estranea al tema di questo incontro, ma in realtà non lo è: la responsabilità per la garanzia dei servizi pubblici essenziali riguarda anche la singola persona che lavora.

Abbiamo visto come la Commissione di Garanzia abbia precisato, il 14 giugno 2022, che anche la singola persona coinvolta nella produzione di un servizio pubblico essenziale, così come l’ultima delle imprese subappaltatrici, è tenuta a cooperare al rispetto dei diritti e dell’utente: “nel perimetro del conflitto collettivo sono inclusi tutti i soggetti che proclamano o aderiscono a uno sciopero, le imprese erogatrici dei servizi pubblici essenziali e i lavoratori alle loro dipendenze”. Quand’anche non si voglia assimilare la singola persona che lavora per produrre il servizio all’appaltatrice o alla subappaltatrice, l’affermazione della Commissione di Garanzia testé citata non lascia spazio ad alcun dubbio sul fatto che la persona stessa è comunque corresponsabile con la datrice di lavoro, così come con il sindacato che ha proclamato lo sciopero, per il rispetto del diritto degli utenti all’informazione preventiva sull’interruzione del servizio.

Ne consegue che l’impresa o ente fornitore del servizio pubblico essenziale ha il diritto e il dovere di chiedere preventivamente a ciascun dipendente se aderisce allo sciopero proclamato, in modo da poter adempiere compiutamente l’obbligo di informazione preventiva degli utenti. La mancata risposta o la risposta non veritiera dovrebbe essere considerata come una mancanza suscettibile di sanzione disciplinare.

Giuseppe Dossetti

Si obietta che in questo modo la persona interessata potrebbe essere soggetta a pressioni volte a impedire la sua partecipazione allo sciopero; ma noi sappiamo quanto i giudici siano attrezzati per reprimere con immediatezza qualsiasi comportamento volto a dissuadere dall’aderire o dal partecipare a uno sciopero. Si obietta, ancora, che questa richiesta preventiva lederebbe la libertà e la dignità della persona che lavora; ma è vero l’esatto contrario. Chiunque legga gli interventi dei padri costituenti e in particolare quelli di Giuseppe di Vittorio, Giuseppe Dossetti, Palmiro Togliatti, Aldo Moro, Lelio Basso, nel dibattito all’Assemblea costituente sulla norma in materia di diritto di sciopero – qui attingo, come è ovvio, al libro curato pochi anni fa dal professor Pino – è colpito dalla frequenza con la quale in questi interventi ricorre il riferimento all’autodisciplina e moderazione dei lavoratori e delle loro associazioni nel ricorso a questa forma di lotta, al loro senso di responsabilità nei confronti della cittadinanza; riferimento chiaramente mirato ad affermare l’idea che proprio in un esercizio del diritto di sciopero misurato, corretto, sempre scrupolosamente attento a non ledere diritti e interessi di soggetti estranei al conflitto, si esprime la forza stessa di questa forma di lotta e la dignità di chi ad essa fa ricorso. Proprio questa dignità, al contrario, è svilita dalla prassi oggi diffusa di considerare i lavoratori come soggetti capite deminuti, non annoverabili tra i “protagonisti del conflitto”, quindi non responsabili di assicurare la tempestiva informazione del cittadino utente circa gli effetti concreti del conflitto sindacale.

La notizia dell’adesione della singola persona allo sciopero non può considerarsi in alcun modo come una “notizia riservata”: lo sciopero stesso è, per sua natura, un comportamento eminentemente “pubblico”, la cui forza dipende dall’adesione e partecipazione visibile de3i lavoratori che ad esso danno vita. Non vi è dunque alcun motivo apprezzabile per cui al datore di lavoro dovrebbe essere inibito di chiedere a ciascun dipendente di manifestare la propria decisione circa l’adesione o no allo sciopero proclamato, con l’anticipo necessario affinché sia assicurato il diritto dei cittadini-utenti al preavviso circa la sospensione del servizio.

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