IL CAMBIO DI PARADIGMA DEL MERCATO DELL’OCCUPAZIONE E LE NUOVE TECNICHE DI PROTEZIONE DEL LAVORO

Le nuove forme del monopsonio e i rimedi vecchi e nuovi alla distorsione che ne deriva – Come si aiutano i lavoratori a “usare il mercato” – Il mestiere del sindacato nell’era della globalizzazione (che non è certo cessata)

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Testo scritto della relazione introduttiva del convegno svoltosio il 6 marzo 2025 a Rovereto, per iniziativa dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro – In argomento v. anche, su questo sito, Le tre grandi sfide per il sindacato confederale, intervento svolto all’assemblea della FIR-CISL a Frascati il 10 novembre 2023

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Sommario:

1. La causa della distorsione tipica del mercato del lavoro nel monopsonio strutturale e in quello dinamico

2. Rimedi vecchi e nuovi alla distorsione monopsonistica del mercato del lavoro

3. Un altro fenomeno nuovo col quale dobbiamo fare i conti

4. Quando sono i lavoratori a scegliere l’imprenditore.

5. A che cosa serve il sindacato

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1. La causa della distorsione tipica del mercato del lavoro nel monopsonio strutturale e in quello dinamico

Nel mercato del lavoro monopsonistico, nel quale a un unico imprenditore che cerca manodopera si contrappone l’offerta di una pluralità di aspi¬ranti lavoratori non coordinati fra loro, questi ultimi si trovano in una situazione analoga a quella dei consumatori nei confronti di un produttore monopolista: si trovano, cioè, in un mercato in cui i livelli di occu¬pazione e le retribuzioni sono innaturalmente ridotti rispetto a quanto accadrebbe in situazione di concorrenza fra più imprenditori sul lato della domanda di manodopera. Mentre in un mercato di beni o di servizi la tutela della concorrenza giustifica l’intervento statale volto a prevenire o sciogliere eventuali forme di monopolio per eliminare le distorsioni che ne derivano, nel mercato del lavoro quel tipo di intervento per lo più non è possibile nel breve periodo; qui dunque lo Stato o la coalizione sindacale intervengono per imporre standard minimi inderoga¬bili di trattamento, oppure per aumentare il potere contrattuale dei lavoratori favorendone l’aggregazione sindacale ed eventualmente spingendosi ad assicurare l’inderogabilità dei trattamenti negoziati in sede collettiva. La teoria economica e l’osservazione empirica mostrano come misure di questo genere possano produrre al tempo stesso l’effetto del miglioramento degli standard di trattamento e livelli occupazionali più elevati, con conseguente allargamento della base produttiva e beneficio per l’intera collettività, oltre che riduzione dei fenomeni di povertà e disuguaglianza sociale.

Il modello del mercato monopsonistico è quello che corrisponde con maggiore precisione alla realtà del mercato del lavoro nella prima fase della rivoluzione industriale, sotto tutte le latitudini e le longitudini. Questo spiega il carattere universale dello sviluppo, nel corso del ‘900, dell’intervento dello Stato volto a stabilire standard minimi inderogabili di trattamento dei lavoratori, diffusamente conside¬rato come fattore indispensabile di progresso sociale; e spiega il sorgere, addirittura, di una struttura sovranazionale, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che da più di un secolo ormai promuove il diffondersi e il consolidarsi delle protezioni giuslavoristiche su scala planetaria e costituisce oggi la più antica associazione esistente di Stati nazionali.
Certo è che lo sviluppo economico degli ultimi decenni, con il moltiplicarsi delle imprese, il diversificarsi della domanda di manodopera nei settori secondario e terziario e il ridursi o annullarsi della riserva di manodopera agricola sottooccupata, ha modificato profondamente la struttura del mercato del lavoro, facendo sì che essa conservi una connotazione monopsonistica simile a quella originaria soltanto in al¬cune limitate zone geografiche o in alcuni settori produttivi particolari. E potuto accadere, così, che sia venuta meno, in tutto o in parte, la ragion d’essere di interventi protettivi originariamente finalizzati alla correzione di una distorsione monopsonistica del mercato; è potuto accadere, ad esempio, che una legislazione di sostegno alla coalizione sindacale, originariamente emanata per contrastare il potere monopsonistico imprenditoriale, si sia di fatto trasformata strada facendo in sostegno a forme di mera autodifesa dei lavoratori occupati contro la concorrenza esterna.

Sarebbe, tuttavia, un errore pensare che la grande proliferazione delle imprese portata in quasi tutti i settori dallo sviluppo economico abbia eliminato ogni distorsione monopsonistica nel mercato del lavoro. Anche dove il mercato ora si caratterizza per la presenza di una pluralità di imprenditori in concorrenza fra loro, quella distorsione nel rapporto contrattuale fra datore e prestatore di lavoro può conti¬nuare a manifestarsi — e di fatto si manifesta diffusamente — innanzi¬tutto a causa di una marcata asimmetria informativa tra le parti: mentre l’imprenditore opera quotidianamente nel mercato del lavoro, dispo¬nendo in esso di reti e canali di informazione relativamente efficienti, il lavoratore, invece, dispone solitamente di reti e canali di informazione assai meno efficienti; e, affacciandosi al mercato soltanto a tratti nel corso della sua vita, ne ha scarsa esperienza. Una tipica riduzione della possibilità effettiva di scelta del lavoratore deriva anche dalla sua ridotta mobilità geografica, sovente accentuata dai suoi legami fa¬miliari. Accade inoltre che il fatto di lavorare per un periodo conside-revole di tempo in una sola azienda lo induca a conformare le proprie capacità alle esigenze specifiche di quell’azienda, trovandosi poi nell’impossibilità di valorizzare allo stesso modo la propria professionalità in aziende diverse: donde la riduzione o l’annullamento delle sue possibilità effettive di scelta e il determinarsi di una situazione di sua «dipendenza economica» dall’impresa a cui appartiene. Queste circostanze ritrasformano il mercato del lavoro (anche là dove esso potrebbe assumere il carattere di un mercato concorrenziale dal lato della domanda, con i conseguenti vantaggi per i lavoratori in termini di maggior potere contrattuale collettivo e individuale) in un mercato monopsonistico: un mercato, cioè, nel quale l’imprenditore, sottraendosi di fatto alla competizione con i propri potenziali concorrenti, trae vantaggio dalla propria possibilità di scelta e dall’impossibi¬lità di scelta in cui si trova invece il lavoratore — soprattutto il più sprovveduto, per difetto di cultura o di esperienza —, sia in fase di negoziazione iniziale delle condizioni di lavoro, sia in fase di svolgimento del rapporto. A questo fenomeno, indicato col termine monopsonio dinamico, fanno riferimento gli economisti per spiegare gli effetti non depressivi sui livelli occupazionali degli interventi legislativi volti a imporre inderogabilmente livelli minimi di trattamento, anche in situazioni nelle quali non si manifesti un rilevante squilibrio quantitativo fra domanda e offerta.

Monopsonio strutturale e monopsonio dinamico costituiscono due connotazioni tipiche, e per certi aspetti peculiari, del mercato del lavoro, in relazione alle quali si pone l’esigenza di una protezione generale delle persone che del proprio lavoro vivono, volta a evitare che il mercato, lasciato a sé stesso, generi situazioni di rendita e di inefficienza, eccessi di disuguaglianza sociale, pericoli per la sicurezza e l’integrità della persona, o addirittura fenomeni di asservimento personale. Tutto induce a pensare che proprio a questa esigenza si sia principalmente riferito il nostro legisla¬tore costituente, quando ha posto tra i compiti essenziali della Repubblica quello della tutela del lavoro.
Dovunque questa situazione tipica si manifesti, deve dunque ritenersi che operi l’obbligo generale di intervento pubblico posto dall’art. 35 Cost.; intervento che dovrà logicamente privilegiare l’obbiettivo strategico dell’eliminazione delle cause del monopsonio; sviluppo pluralistico del tessuto produttivo per uscire dalla situazione di monopsonio strutturale, sviluppo dei servizi di informazione, formazione e assistenza alla mobilità dei lavoratori per uscire dalla situazione di monopsonio dinamico. Ma finché tale obbiettivo non sia raggiunto, l’intervento pubblico dovrà tendere a correggere le distorsioni che dal monopsonio derivano, promuovendo l’applicazione di standard minimi di trattamento (art. 36) direttamente attraverso la legge, oppure mediante un efficace sostegno alla coalizione sindacale tra i lavoratori e alla negoziazione collettiva (art. 39), oppure ancora con la coniugazione di misure dei due tipi.
La distorsione monopsonistica non colpisce il libero professionista, l’artigiano, né ovviamente il lavoratore che operi nello stesso tempo per una pluralità di clienti; essa colpisce invece tipicamente la persona che, prestando la propria attività in modo continuativo e prevalente o esclusivo per un unico committente e non frequentando abitualmente il mercato del lavoro, è esposto al rischio dell’impossibilità di scelta, per difetto di alternativa o per l’asimmetria informativa di cui si è detto. Fattore rilevante del bisogno di protezione è dunque il carattere continuativo e prevalente o esclusivo della prestazione svolta in favore di un unico utilizzatore; non sembra invece assumere alcuna rilevanza, su questo piano, l’assoggettamento o no della prestazione al potere direttivo del creditore, cioè il suo carattere subordinato o autonomo (a meno che non si voglia intendere come «subordinato» qualsiasi lavoratore che operi continuativamente ed esclusivamente per un unico committente).

2. Rimedi vecchi e nuovi alla distorsione monopsonistica del mercato del lavoro

Alla condizione di debolezza cui il lavoratore è tipicamente condannato dalla distor¬sione monopsonistica del funzionamento del mercato del lavoro il movimento sindacale e il legislatore hanno posto rimedio, nel corso del secolo XX, costruendo un sistema di tutela ispirato essenzial¬mente a due obbiettivi: innanzitutto ridurre al minimo la parte del trat¬tamento soggetta a negoziazione individuale tra il lavoratore e l’impren¬ditore; in secondo luogo fare in modo che il lavoratore, una volta col¬locato in un’azienda, potesse tenersi il più possibile alla larga dal mer¬cato del lavoro esterno e dai suoi pericoli. Il primo obbiettivo si perseguiva con l’imposizione a entrambe le parti, mediante la legge e il contratto collettivo, di un assetto standard inderogabile dei reciproci interessi, che lasciasse poca o nulla materia alla negoziazione indivi¬duale; il secondo con l’imposizione, come modello dominante se non esclusivo, di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e rigida¬mente stabile. In altre parole, per rimediare all’inefficienza del mercato si è cercato, in qualche misura, di negare il mercato stesso, talora adducendosi l’argomento suggestivo – e peraltro difficilmente controverti¬bile – secondo cui il lavoro umano non può essere ridotto a merce. Col togliere ai lavoratori la capacità di negoziare, li si è posti sotto tutela; e si è affidata la gestione dei loro interessi esclusivamente al legislatore o al sindacato.

Senonché questo sistema non funziona più. Il posto fisso garantito a vita è sempre più incompatibile con il ritmo ormai rapidissimo di ob¬solescenza dei sistemi organizzativi e delle tecnologie applicate; i mo¬delli standard di organizzazione del lavoro, pur periodicamente aggior¬nati e corretti, non tengono il passo con quel ritmo. Con il prevalere del settore terziario su quello industriale, il tramonto del modello fordista di organizzazione dello stesso lavoro industriale, la conseguente segmentazione – quando non addirittura personalizzazione – della do¬manda e dell’offerta di lavoro e l’emergere da entrambi i lati di esi¬genze differenziate riguardo agli aspetti più disparati del rapporto con¬trattuale, vanno inevitabilmente allargandosi a dismisura gli spazi della negoziazione individuale delle condizioni di lavoro, con le conseguenti tensioni fra gli interessi individuali degli stessi lavoratori e i modelli standard imposti dalla legge e dai contratti collettivi. Da più di un quarto di secolo si assiste a una continua erosione dell’area del lavoro «coperto» da legge e contratto collettivo, a vantaggio dell’area del lavoro sottratto alla protezione legislativa e non protetto dal sindacato; oggi in Italia la legislazione di sostegno all’azione del sindacato nelle aziende e la tutela offerta dal diritto del lavoro nella sua versione «forte» si applicano in un’area in cui si colloca meno della metà della forza-lavoro complessiva; ed è sovente proprio la tutela inderogabile a rendere più difficile l’ac¬cesso a quell’area per chi ne è escluso, contribuendo così a dividere il mercato del lavoro in due compartimenti tra loro scarsamente comu¬nicanti.

Legislatore e sindacato – sollecitati anche dall’ordinamento comu¬nitario – sono sempre più consapevoli della necessità di affian¬care alle vecchie tecniche di tutela, e in parte sostituire ad esse, tecniche nuove tendenti a proteggere il lavoratore anche e soprattutto nella fase precedente alla costituzione del rapporto: mentre l’intervento protet¬tivo tradizionale consiste essenzialmente in una difesa del lavoratore dal mercato, appare oggi sovente più efficace l’intervento volto a raffor¬zare la posizione del lavoratore nel mercato, aumentando la sua possi¬bilità effettiva di scelta e di accesso alle diverse occupazioni possibili, fattore essenziale del suo potere contrattuale nei confronti del datore di lavoro attuale o potenziale.
In un mercato del lavoro maturo, e particolarmente in quello post¬industriale, alle nuove forme della distorsione monopsonistica di cui si è parlato nel § 1, che pone il lavoratore in condizioni di inferiorità di fronte alla controparte, è possibile rispon¬dere, invece che con una riduzione dell’autonomia negoziale di que¬st’ultimo, con un’azione volta a correggere radicalmente quella distor¬sione: tendente, cioè, più che a limitare la libertà formale del lavoratore, a realizzare le condizioni di una sua libertà sostanziale. Che è quanto dire realizzare il diritto a un lavoro liberamente scelto e svolto secondo modalità liberamente contrattate, sancito dall’art. 4 della Costituzione.

La libertà sostanziale di cui stiamo parlando presuppone, benin¬teso, la libertà formale di scelta del proprio lavoro nel campo più am¬pio possibile; anzi, l’ampiezza della prima è direttamente proporzionale all’ampiezza della seconda. Per questo l’ordinamento interno e l’ordina¬mento comunitario sanciscono il principio fondamentale della libertà di circolazione dei lavoratori nel grande mercato continentale e ne garanti¬scono l’applicazione contro ogni limitazione indebita, sia essa diretta o indiretta. Ma presupposti essenziali di effet¬tività della libertà sostanziale del lavoratore nel mercato sono anche i servizi di informazione e in particolare di mediazione fra offerta e do¬manda, i servizi di formazione, riqualificazione e orienta¬mento professionale, nonché quelli di assistenza alla mobilità geografica: si parla in proposito di altrettanti «diritti» del la¬voratore – all’informazione, alla formazione, alla mobilità – non come di diritti di credito intesi nel senso civilistico tradizionale, ma come aspettative legittime di adempimento da parte delle strutture pubbliche degli obblighi imposti loro in questo campo dalla Costitu¬zione e dalle norme comunitarie.

3. Un altro fenomeno nuovo con cui dobbiamo fare i conti

Quando si parla della situazione di debolezza nei confronti dell’imprenditore tipica della persona che lavora, quindi della necessità di una sua protezione, si fa per lo più riferimento, implicitamente o esplicitamente, alla carenza di domanda di lavoro: cioè alla scarsità nel tessuto produttivo circostante di imprese che cercano lavoratori. Si considera ovvio che la debolezza nasca essenzialmente da lì. Questa diffusissima convinzione è sempre meno fondata: la causa della debolezza di una parte rilevante delle persone che lavorano non è esattamente questa; e quindi anche i modi per curarla vanno ripensati.

Mentre la “fine del lavoro” causata dall’evoluzione tecnologica può essere senz’altro relegata tra le fake news, al contrario proprio a causa dell’evoluzione tecnologica in Italia vengono censiti circa 1,2 milioni di posti di lavoro, distribuiti in tutti i settori e a tutti i livelli professionali, che restano permanentemente scoperti per mancanza di persone idonee a ricoprirli (leggi: per l’arretratezza della nostra scuola e del nostro sistema dei servizi al mercato del lavoro). Altro che “carenza di domanda di lavoro”: c’è una infinità di situazioni che in termine tecnico si indicano col termine skill shortage, enormi giacimenti occupazionali che lasciamo inutilizzati.

Certo, ciascuno di questi posti scoperti richiederebbe, oltre che di essere conosciuto da chi si candida a ricoprirlo, anche un qualche adattamento delle sue capacità specifiche, attraverso iniziative di riqualificazione professionale per le quali occorrono tempo e denaro; ma quanto tempo e quanto denaro spendiamo in Cassa integrazione a zero ore per procrastinare la chiusura delle aziende in crisi? Quanti sanno che l’Italia spende per Cassa integrazione e trattamenti di disoccupazione – quelle che chiamiamo politiche del lavoro passive – cento volte quello che spende per le politiche attive, cioè per i servizi di informazione, formazione e assistenza intensiva necessari per mettere in comunicazione la domanda e l’offerta nel mercato del lavoro? Se le cose stanno così, non è forse nell’enorme squilibrio tra le risorse destinate alle politiche passive e quelle destinate alle politiche attive che dobbiamo individuare un fattore rilevante di debolezza dei lavoratori nel mercato e nel tessuto produttivo?

Nel milione e passa di situazioni di skill shortage censiti da Unioncamere ci sarebbe spazio per dare un futuro professionale non precario e assai più credibile ai dipendenti non di una, ma di molte aziende che stanno chiudendo perché non più in grado di reggere la competizione nel mercato del loro prodotto. Se le cose stanno così – e le cose stanno così –, non sarebbe il caso che, invece di denunciare ogni volta come uno scandalo la decisione di chiudere un’azienda, incominciassimo a denunciare lo scandalo degli enormi giacimenti occupazionali che quotidianamente sprechiamo? E non sarebbe il caso che il Governo, invece di annunciare un gran dispendio di denaro pubblico per tenere in vita a tutti i costi un’azienda marginale con la respirazione artificiale, annunciasse un programma credibile per porre tutti i lavoratori interessati in grado di accedere nel giro di uno o due anni, con un robusto sostegno del reddito nel frattempo, ad altrettanti buoni posti di lavoro tra il milione e passa di quelli già esistenti senza bisogno di investimenti aggiuntivi?

Questa osservazione conferma che una causa non secondaria della debolezza di tanti lavoratori va individuata nei gravi difetti del nostro sistema dell’istruzione e della formazione professionale e, prima ancora, nel difetto gravissimo del sistema dei servizi di orientamento scolastico e professionale. La vera garanzia di sicurezza economica e professionale delle persone che lavorano – potremmo dire… il vero “articolo 18” di cui esse oggi hanno bisogno – sta nel dare corpo ed effettività a un “diritto soggettivo alla formazione efficace”, cioè alla formazione che dà veramente accesso all’enorme platea dei posti di lavoro oggi disponibili ma di difficile copertura. Un passaggio indispensabile per la costruzione di questo “diritto soggettivo” consiste nell’attivare una rilevazione permanente e capillare del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi di chi ne ha fruito: ciò che è possibile con una anagrafe della formazione professionale analoga all’anagrafe scolastica istituita presso il ministero dell’Istruzione, capace di incrociare i dati della frequenza ai corsi e dei diplomi rilasciati con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro sui flussi delle nuove assunzioni, delle iscrizioni agli albi ed elenchi delle libere professioni e del lavoro autonomo, nonché alle liste di disoccupazione.
È questa la condizione indispensabile perché si possa por mano all’attivazione delle garanzie sociali di nuova generazione, essenziali per una radicale emancipazione del lavoro dalla condizione di minorità ereditata dal secolo XX. Il discorso vale soprattutto per la parte più debole delle persone che lavorano, in un contesto in cui si assiste alla polarizzazione della forza-lavoro, cioè all’aumento della disuguaglianza di reddito e di sicurezza economica e professionale tra i knowledge workers, i lavoratori della conoscenza, e il “quinto stato” dei precari, dei mal retribuiti, dei privi di reti di sicurezza.

L’innovazione nel processo produttivo è per sua natura una causa di aumento delle disuguaglianze tra i produttori. Compito della politica e del sindacato è ricostruire di continuo le pari opportunità per tutti, adottando le misure più efficaci affinché nessuno resti tagliato fuori dai vantaggi che il progresso tecnologico porta con sé. Tra queste l’attivazione di una rete capillare di servizi efficienti di orientamento, informazione e formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti, la cui qualità ed efficacia sia controllata permanentemente, è la più importante.

4. Quando sono i lavoratori a scegliere l’imprenditore

Nell’epoca della globalizzazione la domanda di lavoro dipende in gran parte dalla capacità del Paese di aprirsi agli imprenditori stranieri, portatori di capitali e di piani industriali innovativi. E dalla capacità dei lavoratori di selezionarli e di negoziare con essi, per mezzo dei propri sindacati, una scommessa comune sui piani industriali ritenuti migliori.

Per entrare in questo ordine di idee occorre accettare una nozione di mercato del lavoro un po’ diversa da quella che abbiamo conosciuto fin qui. In un mercato del lavoro maturo non sono solo gli imprenditori a cercare, valutare e scegliere i propri dipendenti, ma sono anche i lavoratori a cercare, valutare e scegliere l’imprenditore. Lo fanno, ovviamente, quando indirizzano la loro ricerca di una occupazione verso un settore, e poi in quel settore escludono alcune imprese perché troppo piccole, o troppo lontane, o per altri motivi. Ma lo fanno anche quando, insoddisfatti delle imprese della propria zona, decidono di migrare vicino o lontano per trovarne altre più capaci di valorizzare il loro lavoro. Lo fanno, infine, quando un’impresa entra in crisi e il “collettivo” delle persone che da essa dipendono valuta i piani industriali proposti da altri imprenditori che si candidano a rilevare l’azienda.

Sta di fatto che in Italia, in ciascuno degli ultimi anni, nonostante la crisi economica, sono stati stipulati circa dieci milioni di contratti di lavoro regolari (dati risultanti dal sistema delle Comunicazioni obbligatorie al Ministero del lavoro); e a stipularli sono stati milioni di lavoratori con milioni di imprese. Questo dato impressionante è incompatibile con il paradigma del lavoratore privo della possibilità di scegliere. Certo, ci sono anche i disoccupati di lunga durata che non sono riusciti a entrare nel giro; ma la loro presenza non contraddice questo dato: ogni anno in altri milioni di casi non è stato solo l’imprenditore a selezionare la controparte, ma è stato in qualche misura anche il lavoratore a fare altrettanto dal proprio lato. E già questa constatazione collima poco con l’idea del mercato del lavoro che traspare dai discorsi di tanti sindacalisti, giuslavoristi e politici ancora affezionati a un modello che non corrisponde più alla realtà: quello del monopsonio strutturale originario, cioè della fabbrica-cattedrale nel deserto.

Accade pure frequentemente che i lavoratori abbiano l’opportunità di selezionare e scegliere l’imprenditore non solo come singoli, sfruttando la propria mobilità individuale, ma anche collettivamente, attraverso i propri rappresentanti politici e/o sindacali, sfruttando la mobilità dell’imprenditore stesso. È quello che accadde, per esempio, nel 2008 quando il Governo Prodi riuscì a rendere concreta l’ipotesi che Alitalia (fallita) venisse rilevata da Air France-Klm, e si aprì un tavolo di negoziazione tra l’amministratore delegato del colosso franco-olandese e i sindacati dei lavoratori della nostra compagnia aerea di bandiera: quella negoziazione ben può essere vista come una procedura di selezione dell’imprenditore da “ingaggiare”. Fu, infatti, proprio a seguito di quella negoziazione che i lavoratori bocciarono Air France-Klm e fecero invece l’accordo con l’italianissima cordata promossa da Silvio Berlusconi, la C.A.I., evidentemente ritenendo irrilevante che essa fosse composta da imprenditori dei quali nessuno aveva mai fatto volare un aereo. Un caso particolarissimo di “scelta dell’imprenditore” da parte dei lavoratori fu anche quello che nel 2017 vide la rappresentanza sindacale unitaria dei dipendenti romani di Almaviva Contact respingere l’ipotesi di accordo proposta dalla vecchia impresa per superare una situazione di grave crisi, con la conseguente chiusura della sede dislocata nella capitale, mentre presso la sede di Napoli della stessa impresa veniva compiuta la scelta opposta, con la conseguente prosecuzione dei rapporti di lavoro.

In questo ordine di idee possiamo vedere come un atto di “ingaggio dell’imprenditore” da parte del collettivo dei lavoratori anche il “sì” espresso nel 2010 da questi ultimi, su indicazione di Fim-Cisl, Uilm e Fismic, nel referendum di Pomigliano sul piano industriale Fabbrica Italia proposto da Sergio Marchionne per portare la produzione della Panda dalla Polonia in Italia, poi nei referendum analoghi che si svolsero negli stabilimenti di Mirafiori e di Grugliasco. Certo, anche in quel caso l’alternativa non era brillantissima: se avesse prevalso il “no”, per quegli stabilimenti non sarebbe restata altra possibilità che un intervento dello Stato; e la Fiom-Cgil che sostenne il “no” in quei referendum evidentemente preferiva proprio questa alternativa. Furono comunque i lavoratori a decidere, approvando il piano industriale e così stipulando una sorta di “scommessa comune” con l’imprenditore rappresentato da Sergio Marchionne.

5. A che cosa serve il sindacato

Può accadere, dunque, che sia proprio il collettivo dei lavoratori ad avere l’opportunità di ingaggiare o scartare l’imprenditore che viene da fuori. Quando di questo si tratta, i lavoratori devono saper esercitare attraverso i loro rappresentanti un’intelligenza collettiva, che in alcuni casi recenti ha fatto loro drammaticamente difetto. La stessa intelligenza collettiva sarebbe necessaria per allargare il novero dei possibili candidati alla gestione dell’azienda nelle situazioni di crisi, in modo da poter scegliere in una rosa più ampia l’imprenditore che offre di più sotto il profilo della qualità del piano industriale, dell’affidabilità, della solidità finanziaria.

Da questo punto di vista la globalizzazione potrebbe costituire per i lavoratori fonte di opportunità mai viste prima. Perché se è vero che essa consente agli imprenditori di mettere in concorrenza tra loro lavoratori di tutto il mondo, è anche vero che essa consentirebbe a questi ultimi di mettere a loro volta in concorrenza tra loro imprenditori di tutto il mondo sul lato della domanda di lavoro, beneficiando dell’offerta migliore. Viceversa, sotto questo stesso punto di vista appare evidente quanto grave sia l’errore, commesso troppo sovente negli anni passati dai rappresentanti sindacali e politici dei lavoratori italiani, di privilegiare e difendere a priori l’“italianità” dell’impresa. Privilegiare l’“italianità” significa rinunciare preventivamente non solo ai miliardi che potrebbero essere portati dagli investitori stranieri, ma anche alla possibilità di scegliere l’imprenditore migliore disponibile su scala mondiale, restringendo drasticamente la scelta entro gli angusti confini di un Paese come il nostro, che è solo l’uno per cento del mondo.

Per aumentare la gamma degli imprenditori disponibili a investire in casa nostra occorre che i lavoratori col loro sindacato siano disponibili a negoziare il nuovo assetto dell’impresa, anche secondo modelli radicalmente nuovi praticati con successo in altre parti del mondo. Per questo occorre un sindacato-intelligenza collettiva dei lavoratori capace di prendere in considerazione e valutare, senza chiusure preventive, tutta l’innovazione possibile in materia di organizzazione del lavoro, struttura della retribuzione e rapporti sindacali in azienda. Ma occorre anche un sistema di relazioni industriali che consenta al contratto collettivo aziendale, se stipulato dalla coalizione sindacale maggioritaria nel luogo di lavoro, non soltanto di derogare al contratto nazionale, ma all’occorrenza pure di sostituirlo radicalmente, come è accaduto alla Fiat nel 2010.

Su questo terreno è auspicabile che l’ordinamento statale crei le condizioni affinché diversi modelli di sindacalismo possano confrontarsi e competere, collocati nelle molte posizioni ipotizzabili tra il polo estremo costituito da quello che nel mio libro del 2005 dedicato a questo tema indicavo come il sindacato “alfa”, più propenso ad assicurare ai propri rappresentati un rapporto di lavoro ad alto contenuto assicurativo (cioè con più diritti il cui contenuto pratico sia predeterminabile fin dall’inizio), ma anche alto “premio assicurativo” implicito, e il polo opposto costituito da quello che indicavo come il sindacato “omega”, più propenso a rendere i propri rappresentati partecipi della scommessa con l’imprenditore sul suo piano industriale.
Il discorso è di interesse vitale per le regioni del Mezzogiorno. Anche qui, dove pure ci sarebbe tanto bisogno di importare buona imprenditoria, quale che ne sia la provenienza, le associazioni sindacali oggi appaiono ancora troppo legate al prototipo del sindacato “alfa”, cioè appaiono in grado soltanto di porre dei paletti preventivi (entità e struttura della retribuzione, organizzazione del lavoro: tutto rigidamente prestabilito al livello nazionale); non sanno – come non sanno i governi pubblici locali – cercare per il mondo il buon imprenditore disponibile, valutarne la capacità e il piano industriale senza chiusure preventive, se del caso scommettere su quel piano anche a costo di sperimentare strutture nuove della retribuzione e dell’organizzazione del lavoro, aprirsi a modelli diversi di relazioni industriali. Altro che agitare lo spettro delle “gabbie salariali”: è urgente sgabbiare l’azione sindacale e la contrattazione aziendale.
Nei dieci anni trascorsi dagli accordi FIAT del 2010 sono accadute diverse altre cose che confermano la necessità di un ripensamento degli strumenti di protezione del lavoro nel tessuto produttivo, e in particolare del ruolo del sindacato. Nel nuovo contesto c’è bisogno di un sindacato sempre più capace di operare in periferia anche al di fuori dei luoghi di lavoro, in stretto dialogo col sistema dei servizi al mercato, per assicurare a ciascuna persona – occupata, disoccupata o al suo primo ingresso nel mondo del lavoro – la possibilità effettiva di ampliare le proprie possibilità di scelta: ciò che implica prima di tutto rendere effettivo quel diritto all’informazione e a un percorso di formazione efficace che ho indicato sopra come “l’articolo 18 del ventunesimo secolo”.
Il modello delineato è pertanto quello di un sindacato il cui campo d’azione è prima di tutto il mercato del lavoro, con l’obiettivo di farne per tutte le persone che offrono il proprio lavoro, in qualsiasi forma lo offrano, un luogo innanzitutto sicuro, disinfestato da trappole, truffatori e sfruttatori; ma soprattutto trasparente, ricco di indicazioni segnaletiche, in cui anche chi non è supportato da reti amicali e familiari possa ottenere facilmente le informazioni utili, quindi riuscire a muoversi e a trovare ciò che gli serve. Un luogo dove gli appartenenti al “quinto stato” possano sottrarsi alla propria condizione precaria e povera, non per decreto, ma perché posti in condizione di uscirne, di disporre di alternative migliori.
Lo stesso sindacato, però, deve essere capace di mobilitarsi anche sul piano nazionale non solo per negoziare i contratti collettivi di settore, come disciplina di default, cioè applicabile dovunque non arrivi la contrattazione aziendale, ma anche per rivendicare e promuovere dai poteri esecutivo e legislativo innanzitutto un robusto investimento sui sistemi dell’istruzione e della formazione; inoltre le misure necessarie per la massima possibile apertura e attrattività del Paese nei confronti degli imprenditori stranieri, al fine di aumentare la concorrenza tra i datori di lavoro sul lato della domanda di manodopera intellettuale e manuale.
Lo stesso sindacato dovrà comunque essere anche presente e radicato nelle aziende, coltivandone e mettendone a disposizione dei lavoratori la memoria storica, e rappresentando questi ultimi nella scelta del modello e del grado di partecipazione alla gestione aziendale più adatto al contesto specifico; quindi nella contrattazione delle forme più opportune di collegamento tra retribuzione e produttività o redditività.
Nelle situazioni di crisi aziendale in cui la ripresa dell’attività è effettivamente possibile, questo sindacato dovrà, a seconda dei casi, guidare i lavoratori uno per uno verso i percorsi di riqualificazione individuale necessari per accedere alle vacancies aperte nel tessuto produttivo circostante, oppure guidare e assistere il collettivo dei lavoratori nella selezione del nuovo imprenditore e nella scommessa comune sul nuovo piano industriale.
In questo suo “mestiere” in parte nuovo, ciascuna associazione sindacale dovrà poter scegliere liberamente la propria caratterizzazione fra i due poli estremi di cui si è detto sopra: quello del prototipo di sindacato “alfa”, più interessato al contenuto assicurativo del rapporto, e quello del sindacato “omega”, più interessato alla partecipazione dei lavoratori alla scommessa comune con l’imprenditore. Anche perché la scelta del mix ideale tra “alfa” e “omega” dipende in larga parte dalla qualità dell’imprenditore col quale si ha a che fare. È molto importante, dunque, che il sistema delle relazioni industriali operi in una cornice di regole chiare e facilmente applicabili, che consentano la scelta, da parte dei lavoratori di ciascuna azienda, non solo del sindacato ma anche del modello di sindacalismo che intendono sperimentare nei rapporti con l’impresa datrice di lavoro.
Il massimo livello cui l’“unità sindacale” oggi in Italia può spingersi è probabilmente quello della costruzione e condivisione della cornice di regole entro le quali possa svolgersi il civile confronto e la competizione tra modelli di sindacalismo anche profondamente diversi: presupposto, questo, per il confronto e la competizione anche tra modelli e stili diversi di gestione dell’impresa.

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