Il “filo rosso” che lega i temi dell’autonomia negoziale individuale del lavoratore, del mestiere del sindacato, della disciplina dei licenziamenti, dell’impatto del progresso tecnologico sul lavoro e il suo ordinamento
.
Appunti dai quali Andrea Del Re, avvocato e vice-presidente della Scuola superiore della Magistratura di Firenze, ha tratto la presentazione del mio libro Mezzo secolo di diritto del lavoro, in apertura dell’incontro svoltosi a Firenze il 27 marzo 2025, con la partecipazione anche della prof. Maria Luisa Vallauri e del dott. Vincenzo Nuvoli, già presidente della Sezione Lavoro del Tribunale di Firenze
.
Autonomia negoziale individuale dei lavoratori
“Affascinante” è il termine che mi sembra più appropriato per presentare la battaglia culturale e politica di Pietro Ichino per l’emancipazione del lavoratore dalle griglie della sua supposta inferiorità così da imporgli un costante tutore nelle proprie decisioni (o il Giudice, o il Sindacato, o l’Ispettorato del Lavoro). Il lavoratore ormai è cresciuto, è diventato adulto.
In particolare, negli ultimi tempi, appare lui come il comandante del gioco grazie alla sua professionalità, di cui il datore ha bisogno.
Da qui, sempre più, l’indebolimento dell’inderogabilità come regola principale nelle relazioni giuridiche fra datore e prestatore.
E quindi emblematica la figura sulla copertina del libro, di cui parlerò alla fine di questo mio intervento. Ed è per questo che non posso non citare il passaggio della sua intervista dove sostiene: “Il lavoratore deve riconquistare una prerogativa essenziale della libertà: l’autonomia negoziale. Dopodiché resta, eccome la necessità di una protezione della persona che lavora; ma alla vecchia tecnica dell’imposizione del regolamento inderogabile devono affiancarsi nuovi strumenti, mirati non a difendere la persona dal mercato ma a rafforzarsi nel mercato, ampliando la sua capacità effettiva di scelta”.
L’autonomia collettiva e il mestiere del sindacato
Pietro conosce bene il sindacato per averci lavorato abbastanza a lungo dopo la laurea.
Orbene le critiche (secondo me costruttive) all’azione sindacale per come si è sviluppata negli anni, lo hanno certamente reso inviso a certi settori sindacali.
Fondamentale al riguardo il suo volume A che cosa serve il Sindacato? del 2005. Quello che ha venduto più copie fino ad arrivare agli Oscar Bestseller Mondadori.
Pietro ha sempre insistito per un Sindacato non meramente conflittuale ma per un Sindacato propositivo e partecipativo e non arroccato su posizioni vetero-classiste .
Ancor qua la sua idea di promuovere la contrattazione decentrata ha trovato la sua più fulgida vittoria nel caso Fiat/Marchionne in cui il ben noto manager riuscì a far passare un contratto aziendale in deroga al contratto nazionale, ed a salvare la FIAT.
Ma ancor più stimolante è il salto di qualità proposto da Pietro al Sindacato, ovvero il ruolo di quella che lui chiama l’“intelligenza collettiva” dei lavoratori: dove il Sindacato si qualifica come esponente della valutazione delle scelte imprenditoriali che possono riguardare il futuro collettivo dell’impresa: ecco appunto l’intelligenza collettiva. Quindi un ruolo collettivo/propositivo non più meramente conflittuale.
Il tema sempreverde dei licenziamenti
Pietro si è sempre distinto nella battaglia contro il vecchio art. 18 che prevedeva non solo la reintegrazione ma il saldo di tutte le mensilità di retribuzione dalla data del licenziamento alla data della reintegrazione (e spesso, come noto, le cause duravano anni, con gravissime conseguenze economiche per il datore).
Io ebbi un caso che approdò in Cassazione dopo ben 12 anni (vi risparmio le ragioni del ritardo, indecorose) e, pur avendo vinto i due gradi del merito, ero terrorizzato all’idea di perdere in Cassazione (il prestatore prendeva 5.000 euro al mese!).
Battaglia in qualche modo vinta da Pietro con il decreto Fornero e poi col Jobs Act.
Semmai Pietro ha insistito particolarmente sull’applicazione dell’indennità economica in tema di licenziamento per ragioni economiche.
Su questo argomento ha sollevato con forza la questione del controllo penetrante del giudice sulle scelte imprenditoriali, che tuttora, si può dire, permanga nel nostro ordinamento. Purtroppo accade spesso che il giudice esorbiti dal suo ruolo e si faccia “imprenditore” non conoscendo assolutamente nulla di quella azienda in cui interviene così pesantemente, reintegrando il dipendente perché ritiene insussistente la ragione economica che ha indotto il datore alla risoluzione.
Pietro ha sempre ritenuto più congruamente ragionevole la sostituzione dell’indennità economica (di entità ovviamente adeguata) alla reintegrazione soprattutto nel campo del giustificato motivo oggettivo. Il che è prevalso alla fine soprattutto nel Jobs Act.
Ma ancora qui Ichino segnala la persistenza (talora) del giudice a fare di testa sua.
Sul punto mi trovo costretto a riportare letteralmente il grido di dolore, se così posso dire, del giurista rispetto a tale condotta. Risponde Ichino alla domanda dell’intervistatore:
Di fatto, però i giudici del lavoro potranno applicare la sanzione reintegratoria anche nei casi di ritenuta insufficienza del giustificato motivo oggettivo, leggendoli come casi di radicale insussistenza.
Ecco le considerazioni di Pietro:
Che alcuni giudici possano anche disapplicare arbitrariamente la legge vigente, non è una novità. Così facendo essi si pongono al di sopra della legge invece che al suo servizio. Se essi vogliono invece, mantenere il proprio giuramento di fedeltà alla legge, in tutti i casi in cui riconoscono che il mantenimento in servizio di una persona comporta l’attesa ragionevole di una perdita per l’imprenditore, in termini contabili o di “costo-opportunità” (cioè di rinuncia a una soluzione organizzativa più vantaggiosa), ma ritengono che questa perdita non sia di entità sufficiente per giustificare il licenziamento, essi devono applicare la liability rule (cioè l’indennità risarcitoria e non la reintegrazione).
E ancora a proposito del Jobs Act non posso, anche per divertissement, non citare un aneddoto sulla primissima origine del Jobs Act stesso.
L’attuale senatore Matteo Renzi era ancora sindaco di Firenze, ma già in rampa di lancio per il Premierato, quando capitò a Forte dei Marmi in pieno agosto 2011, per presentare un libro. Colsi l’occasione per invitarlo a pranzo, a casa mia, col Sindaco del Forte, il Presidente di Assindustria qui presente Maurizio Bigazzi, il senatore Marcucci e Pietro Ichino.
Orbene la conversazione fu tenuta soprattutto da Matteo Renzi e Pietro Ichino: argomento principale: le relazioni industriali e una ipotetica nuova disciplina dei licenziamenti. Di fatto Pietro Ichino spiegò a Matteo Renzi le sue idee sulla necessità di un Codice del Lavoro semplificato, traducibile in inglese in modo che potesse essere letto e capito dai potenziali investitori stranieri (quello di cui aveva proprio l’anno prima presentato il disegno di legge al Senato); e di una nuova disciplina regolatrice dei licenziamenti (lo schema che poi sarebbe diventato parte essenziale del Jobs Act) e il Renzi registrò, nella sua testa, tutti i passaggi esposti da Pietro Ichino. Tre anni dopo, al momento opportuno, li ripropose pari pari come disegno di legge presentato dal Governo al Parlamento.
Quindi rimane Pietro il vero ispiratore di quella legge, in un pranzo d’estate al mare.
Impatto delle nuove tecnologie sul lavoro e il suo ordinamento
Altro capitolo interessantissimo per la sua imprescindibilità è quello del lavoro e la trasformazione tecnologica.
Da tempo Pietro Ichino contestava le profezie di Jeremy Rifkin di una futura società senza lavoro a causa della tecnologia che avrebbe eliminato gran parte del lavoro subordinato.
I tempi e la realtà dell’attuale occupazione gli hanno dato ragione. Nonostante l’avanzamento quotidiano delle tecnologie i posti di lavoro sono aumentati: la geografia del lavoro è sempre più fluida; il lavoro non è più un posto fisso, ma un progetto.
Sempre più inevitabile sarà dover prima o poi cambiare occupazione ed ecco la necessità di una formazione permanente e mirata. Del resto la distinzione fra lavoro subordinato e lavoro autonomo non è così più netta come si evidenziava un tempo.
Si pensi alla rivoluzione dell’istituto dello smart working, dove il concetto di subordinazione enunciato nell’art. 2094 c.c. trova il suo livello più basso.
Scardinare il lavoro subordinato dal tipico posto di lavoro (l’azienda) e dai tempi (orario) per dargli come sole coordinate le linee d’azione necessarie per raggiungere gli obiettivi stabiliti è la più innovativa delle novità che la tecnologia poteva consentire al contratto di lavoro.
Tornando un momento a considerare l’erosione dell’art. 2094 c.c. alla luce delle riflessioni che precedono, sembra proprio che il legislatore attuale cerchi in tutti i modi di difenderlo (l’art. 2094 c.c.). Dichiara, infatti, che il lavoro agile rimane subordinato quando, di contro, gli stessi caratteri (niente vincoli di orario e di luogo, con in più i risultati da raggiungere) lo farebbero appartenere al lavoro autonomo: si può, quindi, sostenere che il legislatore abbia voluto che il prestatore di lavoro passasse qualche giorno in azienda (contrariamente al telelavoro) proprio per giustificare il mantenimento dell’etichetta “lavoro subordinato”.
Anche se in verità, e qui apro una parentesi, vi sono grandi imprese (anche a Firenze) che hanno concesso lo smart working da anni e per tutta la settimana: mi domando se questo sia effettivamente il “lavoro agile” previsto dalla legge.
In verità si è creata una fattispecie ibrida in cui il lavoro – come le auto – in certi giorni è autonomo (agile-elettrico), in certi altri giorni è subordinato (a combustibile tradizionale). Ma non potendo segmentizzare la natura del rapporto a seconda della quotidiana applicazione, il legislatore sulla base della prevalenza (che in verità è supposta in azienda, anche se non lo si afferma apertis verbis) ha preferito definirlo subordinato sempre e comunque per evitare intuibili complicazioni e impossibilità (pratica) di gestione. Il prestatore è a due facce: ora agile (autonomo), ora tradizionale (subordinato).
Il vero rischio futuro sarà quello di spostare l’asse della prevalenza verso l’autonomia con ripercussioni difficili da valutare: la rivoluzione tecnologica ha “liberato” il prestatore della subordinazione classica oramai superata. Verrà il giorno in cui il prestatore rivendicherà l’autonomia del rapporto?
Lo domando a Pietro.
Un’osservazione conclusiva
Una brevissima riflessione: emerge dall’esperienza intellettuale di Pietro il suo interesse interdisciplinare per meglio costruire e interpretare un diritto del lavoro non meramente asettico e sganciato da ogni realtà concreta, ma come espressione finale della scelta legislativa, che si cristallizza nella norma, che poi impone la condotta. Assurdo per Pietro imporre una condotta, ispirata dalla faziosità ideologica, quando non corrisponde alle necessità reali delle relazioni sociali ed economiche.
Donde lo sguardo immancabile sull’economia e la sociologia, essenziali per l’occhio maturo del giuslavorista.