Perché non possiamo stare tranquilli: domanda e offerta di manodopera non si incontrano, la produttività media del lavoro ristagna, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è ancora lontana dall’obiettivo del 60% – E l’intero sistema economico sta rallentamdo
.
N. 167 del bollettino Mercato del Lavoro news, organo della Fondazione Anna Kuliscioff, 20 gennaio 2025, a cura di Claudio Negro – Su questo sito è disponibile anche il bollettino precedente, n. 166, dell’11 dicembre 2024
.
L’occupazione a novembre cala, ma solo molto leggermente e, con buona pace di Landini, soltanto per quanto riguarda i lavoratori con contratti a termine: gli occupati sono meno 0,1% rispetto al mese precedente, ma pur sempre +1,4% rispetto ad un anno fa. Ancora meglio, il calo, pur minimo, è stato totalmente a carico della componente maschile, rimpiazzata da un aumento di quella femminile. Viceversa scende il tasso d’occupazione delle fasce giovanili: meno 2,6% nella fascia 15-24 anni rispetto ad ottobre e addirittura -4,4% rispetto ad un anno fa; dello stesso segno, anche se più moderato, la fascia 25-34 anni, rispettivamente con -0,8 e-0,1. In compenso cresce in modo sostanzioso l’occupazione delle fasce più anziane: dal +0,2% allo 0,3%. Segnale inequivocabile di un mercato del lavoro che trattiene il più a lungo possibile gli occupati, magari un po’ anziani ma con esperienza professionale e affidabilità aziendale. Ma al di là di questi segnali che indicano uno stato del mercato del lavoro ambiguo e tutto da interpretare, i nostri dati ISTAT, sicuramente discreti sul piano statistico, potrebbero essere immersi in un bagno di dati globali sull’andamento dell’economia per fornire informazioni più crude ed utili.
Il PIL acquisito per il 2024 è un +0,5% rispetto al 2023 ma la crescita del III trimestre è zero, nonostante abbia avuto tre giornate lavorative in più rispetto al II°. I consumi delle famiglie segnano un+0,8%, ma l’esportazione diminuisce dello 0,9% mentre l’import aumenta dell’1,2%. Gli investimenti fissi diminuiscono di 1,2 punti e la produzione industriale diminuisce dell’1,5% rispetto a un anno fa. Più nel dettaglio cala il Valore Aggiunto prodotto dall’industria (-0,7%) e sale leggermente quello dei servizi (+0,2%). Per quanto concerne il lavoro nel III° trimestre i posti di lavoro sono aumentati dello 0,5%, ma il monte ore lavorato solo dello 0,2% e dello 0,9% i redditi da lavoro (chiaramente in relazione all’entrata in vigore dei CCNL sottoscritti durante il 2024). Il monte ore lavorate su base congiunturale (dati destagionalizzati) diminuisce dello 0,2% nell’industria e dello 0,3% nei servizi; su base annua (al netto degli effetti di calendario), cala dello 0,5% nell’industria mentre cresce del 2,2 nei servizi; le ore lavorate per dipendente diminuiscono sia in termini congiunturali, nell’industria e nei servizi (dello 0,3% e dell’1,2% rispettivamente) sia rispetto al terzo trimestre 2023 (nell’industria dell’1,5% e nei servizi dello 0,6%). L’incidenza delle ore di straordinario sulle ore lavorate è pari al 2,9%, in diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto al terzo trimestre 2023.
In particolare va evidenziato il dato sul rapporto occupazione/valore aggiunto: la prima aumenta più del doppio del secondo; segno che la produttività del lavoro, già bassa, scende anziché aumentare. Gli archivi ci dicono che tra il 2014 e il 2022 la produttività era cresciuta dello 0,5%, ma nel 2023 è precipitata del 2,5%. Ciò è in parte dovuto ad un trend pluridecennale, e ancor più dal fatto che durante la recente inflazione le aziende hanno trovato più economico investire in forza lavoro (i salari non crescevano con i prezzi) piuttosto che in altri fattori.
Fatto che sta che la bassa produttività della forza lavoro si accompagna, statisticamente, con bassi salari e crescita occupazionale nelle fasi di crescita del mercato. Stiamo parlando ovviamente di una media tra i diversi settori produttivi, ma tenendo conto della rilevanza enorme che hanno le piccole e piccolissime imprese e settori a basso valore aggiunto, la media ne è fortemente condizionata. Tra il 1990 e il 2020 a parità di potere d’acquisto il salario medio italiano ha perduto circa l’1% di potere d’acquisto, e tra il 2020 e il 2023 a fronte di un’inflazione del 17% è aumentato solo dell’8%. L’Ocse lo ha scritto per il secondo anno di fila nel suo Employment Outlook 2024: l’Italia è il Paese in cui gli stipendi dei lavoratori, di fronte all’inflazione, hanno perso maggiore potere d’acquisto. L’equazione bassa produttività – bassi salari – alta occupazione ci parla di un paese del terzo mondo. O piuttosto di un paese spaccato in due, con alcuni settori (farmaceutica, alimentari,…) agganciati al trend mondiale di crescita del dopo covid, ma altri in cui eravamo ai vertici (manifattura, tessile,…) in decrescita.
In generale è evidente che il sistema economico scommette su un alto input di lavoro a prezzi contenuti. Da questo punto di vista la politica del Governo, primariamente focalizzata a ridurre i costi del lavoro (decontribuzioni, incentivi alle assunzioni, ecc.) si è perfettamente integrata con l’orizzonte strategico delle imprese.
D’altra parte la crescita inoppugnabile dei posti di lavoro, il massimo successo rivendicabile in queste circostanze, porta con sé due corollari: uno è pregiato (il tasso di disoccupazione al 5,7%, inferiore dopo decenni alla media europea) l’altro è invece un dato molto negativo che genera quello positivo sulla disoccupazione: il tasso di inattività cresciuto al 33,7% (+0,7% rispetto a un anno fa: nessuno in Europa come noi…). Ad essere penalizzati soprattutto i giovani, con 94mila under 35 inattivi in più tra ottobre e novembre 2024: nella fascia tra i 25 e i 34 anni, il tasso di inattività è cresciuto dell’1,2% in un mese. Spostando il confronto su base annua, il numero di occupati nella fascia di età 25-34 anni è diminuito di 38mila unità, quello dei disoccupati di 76 mila unità, mentre quello degli inattivi è aumentato di 156mila unità: cresce costantemente il numero di giovani che sono esclusi (o che si escludono) dal mercato del lavoro. Tutto ciò in un paese nel quale più di un terzo della popolazione non lavora e non cerca lavoro!
Questa situazione insolita ed insana si accompagna ad un fenomeno altrettanto insolito nelle dimensioni che assume in Italia: quello del mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro (mismatch). Si tratta in questo caso di un dato abbastanza stabile negli ultimi anni, e che si può riassumere come segue: l’indice dei posti vacanti nelle imprese è stabile attorno al 2% ma le imprese non riescono ad assumere neppure il 50% delle figure professionali che ricercano, e non parliamo di numeri marginali: per il mese di novembre si parlava di 475.000 assunzioni, di cui solo 65.000 senza particolari professionalità, ma appena il 52% si sono realizzate. Opportuno notare che la maggior parte delle mancate assunzioni sono dovute non tanto ad inadeguatezza del profilo professionale dei candidati (solo il 12,6% dei casi) quanto piuttosto alla mancanza totale di candidature (31,9%) e che la mancanza di candidature non è affatto legata alla mancanza di profili professionali particolarmente pregiati: anche per le professioni non qualificate mancano le candidature, in percentuali analoghe a quelle delle altre professionalità.
E’ un dato che conferma quello sull’inattività: un terzo della popolazione potenzialmente attiva non è interessata a lavorare: probabilmente, a meno di inattese svolte sul piano della crescita economica, stiamo raggiungendo un tasso di disoccupazione frizionale, al di là del quale non si potrà andare se non abbattendo il muro dell’inattività. Tuttavia questa svolta incontrerebbe un problema paradossale; come detto prima la crescita economica del dopo Covid è stata trainata dai bassi salari, in parte significativa rafforzati da sconti fiscali e bonus vari e per nulla spinti al rialzo dall’incontro tra una domanda alta e un’offerta molto bassa, come prevede l’economia classica. Un effetto collaterale di questa insolita situazione consiste nella cosiddetta “fuga dei cervelli”: circa 30.000 laureati ogni anno (cifra che cresce gradualmente) soprattutto in lauree STEM (scientifiche, matematiche, tecnologiche) vanno a cercare lavoro all’estero, dove guadagnano tra il 50% e il 70% di quel che guadagnerebbero in Italia.
In definitiva: nonostante l’ottimismo del Governo l’Italia ha di fronte una prospettiva economica che mostra fragilità preoccupanti e che potrebbe anche cominciare a perdere i petali del “fiore all’occhiello” dell’occupazione.
.