Anche se i dati relativi ai livelli occupazionali tornano a essere positivi, sarà opportuno abbandonare i toni trionfali e rendersi conto che l’economia del Paese sta correndo pericoli molto seri
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Numero 166 del Bollettino Mercato del Lavoro News, organo della Fondazione Anna Kuliscioff, 11 dicembre 2024, a cura di Claudio Negro – In argomento v. anche, a cura di Alberto Brambilla e Claudio Negro, Siamo arrivati al tetto occupazionale? .
È un curioso caso quello delineato dal report ISTAT sulla situazione occupazionale del mese di Ottobre: riprende a crescere, dopo la doccia fredda del mese di settembre, l’occupazione (+ 47.000 unità) consentendo di stabilire il nuovo record “all times” con un tasso pari al 62,5% della popolazione tra i 15 e i 64 anni. Non solo: come ormai da tempo consueto la maggioranza delle assunzioni sono a tempo indeterminato (85.000) mentre decresce ancora vistosamente lo stock dei dipendenti a termine (-60.000 rispetto al mese precedente). Se vogliamo coronare d’alloro l’ottobre occupazionale possiamo anche aggiungere il tasso di disoccupazione al 5,8%, anche in questo caso record assoluto.
Tuttavia al di là del sipario indubbiamente confortante di questi dati (che sarebbe sciocco svalutare per pregiudizi politici) affiorano dati che disegnano una dinamica molto meno piacevole.
Cominciamo dal primo dato, il più eclatante anche se meno manifesto: la percentuale delle persone inattive, cioè di coloro che né lavorano né cercano attivamente lavoro. In questa prestigiosa classifica l’Italia occupa da sempre posizioni di testa. A ottobre toccavamo i 12.538.000, con un +3,1% rispetto a settembre e un tasso pari al 33,6%. Per rendere un po’ più crudelmente realistico il quadro del nostro Mercato del Lavoro il tasso di inattività a fine 2023 era pari al 16,3% nell’Unione Europea. Peggio ancora se consideriamo il tasso di inattività dei giovani che non lavorano e non sono in formazione, definiti di solito con l’acronimo NEET: se consideriamo la fascia 20-34 anni (quella in cui di solito non si è in formazione ma al lavoro) vediamo che l’Italia occupa autorevolmente il secondo posto in Europa con il 18%, seconda solo alla Romania (20,6) e lontanissimo dal 12,4 dell’area euro. Vero è che negli ultimi tre anni queste cifre sono migliorate (di 6 punti per l’Italia) ma nell’ambito di un miglioramento generale nell’Unione (circa 2 punti). Un dato significativo, che di solito viene trascurato, è quello sulle vacation (mancanza di personale nelle aziende): in Italia siamo sul 2%, contro il 3% dell’UE, ma si tratta di un dato scivoloso e difficile da fotografare. Più comprensibile è il dato che illustra il mancato incontro tra domanda e offerta del lavoro: il cosiddetto mismatch. In Italia è tradizionalmente elevato: per il secondo semestre 2024 l’Osservatorio Excelsior (Camere di Commercio) prevede un 47% di mancati incontri tra domanda e offerta; il medesimo dato è 31% per la Francia e nell’UE si aggira attorno al 60% soltanto per i profili più qualificati.
I segnali di attenzione che abbiamo visto fin qui sono comuni a tutta l’Europa (e non solo). Ma l’Italia ha un indiscusso primato: quello di presentarli tutti, nessuno escluso e preferibilmente al top range.
Proviamo a illustrarli sinteticamente per trarne qualche plausibile conclusione. E mi pare appropriato iniziare con i dati macroeconomici che la comunicazione del Governo, in un sapiente mix tra intonazione “Cinegiornale Luce” degli speaker e maschia fierezza dei parlamentari di maggioranza, ha innalzato agli altari di una travolgente ripresa che ha restituito all’Italia il suo posto nel Mondo. Ma alla luce dei numeri questo fulgore imperiale impallidisce: certo non fu colpa del centro destra se il Pil nel periodo del Covid si inabissò, e neanche merito se dal 2021, come peraltro in tutta Europa, rimbalzò con percentuali astronomiche; risulta così un po’ ridicolo ( e forse anche un po’ rischioso) intestarsi una crescita che dall’insediamento del Governo (III° trimestre 2022) è andato costantemente calando, fino a sfiorare per il 2024 lo 0,3! L’industria negli ultimi 12 mesi ha peso l’1,7% della produzione; commercio e turismo, nonostante il boom dell’estate, son cresciuti solo dello 0,7%. Rispetto al trimestre precedente l’export diminuisce dello 0,9%.; sul piano interno i consumi delle famiglie sono aumentati dello 0,8% (verosimilmente come effetto dei numerosi CCNL rinnovati durante l’anno) ma gli investimenti sono calati dello 0,3%. I redditi delle famiglie da lavoro dipendente sono cresciuti dell’1,2% ma la pressione fiscale complessiva, nonostante gli spot di Salvini, è cresciuta in termini tendenziali dello 0,7%.
Non certo un bilancio disastroso, ma neppure degno che gli sia decretato un Trionfo. Resta da capire perché il successo più clamoroso (e pubblicizzato), cioè la crescita di occupati e con contratti stabili possa convivere con dati economici un po’ stentarelli.
A questo scopo è utile far rientrare nel quadro statistico i dati sulle ore lavorate e metterle in relazione con Valore Aggiunto e con i redditi da lavoro. Il monte ore lavorato nell’industria è sceso del 6,2%, meno cioè del PIL (come visto prima: meno 1,7%), mentre quello dei servizi è cresciuto del 2,5% ma il PIL solo dello 0,7%. In entrambi i casi l’input di lavoro cresce più dell’output di Valore Aggiunto. La produttività, ossia il problema più pesante e nefasto per la nostra economia e la sua competitività, peggiora in termini generali, anziché invertire la rotta!
Se riportiamo sul piano occupazionale i dati anzidetti vedremo facilmente come la (modesta) crescita del PIL sia stata finanziata da bassi salari (+1,2% come mediamente già visto) incrementate fino a un 4% dei provvedimenti governativi di esenzioni fiscali e contributivi (uno spostamento di spesa pubblica a sostegno delle retribuzioni recuperandole da altre destinazioni).
In sostanza la fase economica che stiamo vivendo è una (modesta) crescita finanziata essenzialmente dai bassi costi di produzione, in primis il costo del lavoro. Un modello che presenta un vastissimo comparto di servizi mediamente poveri e un manifatturiero molto dipendente dall’automotive (e quindi dalla crisi dell’auto tedesca) con scarsa propensione alla ricerca e all’innovazione (una distrazione fatale in tempi di AI e transizione ai motori elettrici).
Un modello più vicino ai paesi in via di sviluppo che alle economie europee, dunque, confermato dal calo degli investimenti fissi (-6%) e delle esportazioni (-0,1%). Speriamo di poter salvare qualcosa di Stellantis e della filiera, ma anche se andrà bene sarà opportuno abbandonare i toni trionfali e rendersi conto che l’economia del Paese sta correndo pericoli piuttosto seri.
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