UNA NORMA SU LICENZIAMENTI E TRASFERIMENTI NEL COLLEGATO ALLA FINANZIARIA (D.D.L. N. 1167) ALLARGA INCREDIBILMENTE LA DISCREZIONALITA’ DEL CONTROLLO GIUDIZIALE SUL GIUSTIFICATO MOTIVO, FACENDO DEL GIUDICE DEL LAVORO L’INTERPRETE UNICO DELL'”INTERESSE OGGETTIVO DELL’IMPRESA”
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 29 novembre 2009
Se tutto va secondo le previsioni, tra breve comparirà sulla Gazzetta Ufficiale una norma che affida al giudice del lavoro il compito di controllare i licenziamenti e i trasferimenti alla stregua non soltanto del vecchio criterio del “giustificato motivo”, bensì anche del criterio della loro corrispondenza – niente meno – a un “interesse oggettivo dell’organizzazione aziendale”.
Che cosa è accaduto? I comunisti hanno improvvisamente preso il potere e dettato la loro legge? Niente di tutto questo: la norma in questione è proposta dal Governo di centrodestra, legittimamente in carica ed è stata approvata giovedì dal Senato. Secondo le intenzioni dichiarate, essa dovrebbe allentare i vincoli alle imprese in materia di licenziamenti; ma è così mal scritta, che sembra fatta apposta per produrre un risultato esattamente opposto.
Per far prima, la nuova disposizione è stata inserita in un disegno di legge “omnibus”, il collegato alla Finanziaria n. 1167, nel quale c’è di tutto: dalla disciplina dei lavori usuranti alla riorganizzazione di enti parastatali, dalla vigilanza sul doping nello sport ai concorsi pubblici, dal diritto allo studio alle carriere nelle forze armate e di polizia, e persino alcune modifiche al codice di procedura civile. Sepolto in una cinquantina di altri articoli, ecco dunque l’articolo 23, il cui titolo, per dare ancor meno nell’occhio, non contiene neppure la parola proibita “licenziamento”: si parla di “clausole generali e certificazione del contratto di lavoro”. Senonché la fretta è cattiva consigliera. Dopo aver ribadito il principio costituzionale della insindacabilità delle scelte imprenditoriali, al terzo comma la norma stabilisce che il giudice, nel valutare il giustificato motivo di licenziamento, deve tener conto “dell’oggettivo interesse dell’organizzazione aziendale”. Torna in auge, in questo modo, l’idea che accanto ed eventualmente in contrapposizione con l’interesse soggettivo dell’imprenditore ci sia un distinto “interesse oggettivo dell’impresa”. Era un’idea proposta da sinistra: l’idea dirigista della “funzionalizzazione” dell’impresa a fini di rilievo pubblico; ma dopo un lungo dibattito essa era stata abbandonata da giurisprudenza e dottrina fin dai primi anni ottanta.
A chi competerà, ora, individuare questo interesse oggettivo? Inevitabilmente al giudice del lavoro e solo a lui. Ogni giudice, se la norma sarà approvata anche dalla Camera dei Deputati, potrà dunque d’ora in poi contrapporre alle scelte di gestione aziendale – persino a quelle eventualmente concordate tra imprenditore e sindacato! – un’idea sua propria del “vero”, “oggettivo” interesse dell’organizzazione aziendale. Un’idea del tutto opinabile, certo; ma è lui, il giudice, la voce della legge. Come si è detto, la norma enuncia in apertura anche il principio di insindacabilità delle scelte di gestione aziendale; ma è evidente che questo principio è contraddetto dal successivo riferimento all’“interesse oggettivo”. E si sa che quanto più la norma è equivoca, o addirittura, contraddittoria, tanto più la gamma delle possibili decisioni giudiziali si allarga. Il disegno di legge governativo consegue così, d’un colpo, il risultato di ampliare smisuratamente gli spazi del controllo giudiziale, ignorando mezzo secolo di dibattito dottrinale e di evoluzione giurisprudenziale.
Forse, tuttavia, non tutto il male viene per nuocere. Almeno un effetto positivo questo piccolo mostro normativo prodotto da un legislatore poco avveduto lo avrà: quello di accelerare la consapevolezza di quanto sia illusorio e dannoso fondare la protezione della sicurezza dei lavoratori, nelle crisi occupazionali o nei processi di aggiustamento industriale, su di un controllo giudiziale delle scelte dell’imprenditore. Giudici e arbitri possono controllare la fondatezza delle accuse mosse al lavoratore, quando si tratta di licenziamento disciplinare; e possono controllare che i motivi disciplinari o di altro genere non nascondano in realtà un motivo discriminatorio vietato. Questo, dunque, dobbiamo chiedere loro di controllare; e solo questo. Ma quando il licenziamento non sia motivato con una mancanza del lavoratore, e si possa escluderne il carattere discriminatorio, il “filtro” delle ragioni economiche od organizzative non può essere affidato a un giudice, che non ne ha la competenza. Il “filtro”, lì, deve essere costituito da un costo che viene accollato all’impresa, per contribuire a garantire al lavoratore che perde il posto la continuità del reddito e servizi efficienti per la ricollocazione più rapida possibile. Ma questa è una riforma ben più impegnativa, che non si può fare di soppiatto, infilando alla chetichella un articoletto mal scritto in una legge “omnibus”.