L’INIZIATIVA PER UN MINIMUM WAGE MILANESE

Nella crisi attuale grave del sistema di determinazione degli standard retributivi, può svolgere una funzione positiva la proposta a parti sociali e istituzioni di un parametro per un salario minimo adeguato alle caratteristiche dell’area metropolitana dove il costo della vita è più alto rispetto al resto del Paese

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Intervista a cura di Giovanni Santucci, pubblicata sul
Corriere della Sera il 27 ottobre 2024 – In argomento v. anche la mia relazione al convegno di Torino del 14 giugno 2024 su L’Italia alla ricerca di una nuova autorità salariale. Ivi anche il link alle slides di cui mi sono servito per la presentazione della relazione

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Professor Pietro Ichino, l’iniziativa mirata a realizzare un “salario minimo” per l’area milanese è solo un sasso nello stagno, o ha qualche possibilità di portare a un risultato pratico apprezzabile?
Questa iniziativa interviene in un momento di grave crisi del regime di determinazione delle retribuzioni che è stato fin qui in vigore nel nostro Paese. Certo, non potrà essere questa iniziativa a risolvere la crisi; ma credo che possa dare un contributo positivo alla soluzione.

Quando è entrato in crisi il sistema generale di determinazione delle retribuzioni?
Dalla Liberazione in poi, il nostro regime è stato sempre caratterizzato dall’astensione del legislatore: fin dai primi anni ’50 gli standard retributivi minimi sono stati fissati dai contratti collettivi nazionali di settore, che i giudici hanno considerato applicabili erga omnes, cioè anche nelle imprese non iscritte alle associazioni firmatarie. Nell’ultimo quindicennio, però, il sistema ha incominciato a perdere colpi.

Che cosa è accaduto?
In diversi settori, soprattutto nel comparto del terziario, i contratti nazionali hanno preso a essere rinnovati con grande difficoltà e ritardo rispetto alle scadenze, con un danno evidente per le dinamiche retributive.

Perché questo non accade nel settore industriale?
Una spiegazione parziale può essere che le aziende manifatturiere sono dislocate soprattutto al centro-nord: i contratti per l’industria dunque si rinnovano più facilmente, perché stabiliscono degli standard retributivi che devono confrontarsi un’area del Paese più omogenea.

Per il comparto dei servizi il discorso è diverso?
Sì, perché qui la platea dei lavoratori è più uniformemente distribuita su tutto il territorio nazionale. Poiché il minimo tabellare viene stabilito dal contratto senza tenere conto delle differenze di costo della vita e di produttività media del lavoro, esso o è troppo  alto per il Sud, o – come più spesso accade – è troppo basso per il Nord. Non è un caso che il terremoto giudiziario in materia di “giusta retribuzione”, sia in campo penale sia in campo civile, abbia incominciato a scatenarsi proprio al Nord, a Milano, e in settori di servizi in cui si applicavano minimi retributivi molto bassi.

Il Palazzo di Giustizia di Milano

A quale “terremoto” si riferisce?
La Procura della Repubblica di Milano ha contestato ad alcune grandi imprese il reato di sfruttamento della manodopera per il fatto di avvalersi di imprese appaltatrici nel settore della logistica e in quello dei servizi fiduciari che applicavano minimi tabellari contenuti in contratti collettivi nazionali, pur stipulati dalle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative, ma ritenuti cionondimeno insufficienti, al di sotto della “giusta retribuzione” garantita dall’articolo 36 della Costituzione.

E sul terreno civile?
A partire dall’ottobre 2023 alcune sentenze della Cassazione hanno stabilito che l’applicazione del minimo tabellare previsto dal contratto stipulato dai sindacati maggiormente rappresentativi non basta per presumere che la retribuzione sia sufficiente: il giudice deve sempre controllarne l’adeguatezza, anche di propria iniziativa, tenendo conto di una ampia gamma di circostanze.

Per esempio?
Per esempio la soglia di povertà calcolata dall’Istat in relazione alla zona. Quindi anche il costo della vita, che in Italia varia molto da zona a zona. E numerose altre circostanze. Il problema è che i giudici del Lavoro sono molte centinaia. È difficile pensare che quell’“autorità salariale” che il legislatore non vuole esercitare e che i sindacati stanno perdendo possa essere esercitata dai giudici.

Da questa crisi del sistema prende le mosse l’iniziativa dei gruppi “Adesso” e “Tortuga”. A che cosa mira?
L’idea è di fornire alle parti sociali, alla Giunta della Città metropolitana di Milano e – perché no? – anche ai giudici del Lavoro un parametro per la determinazione della retribuzione minima che può consentire a chi vive del proprio lavoro di condurre una “esistenza libera e dignitosa” in questa zona, tenuto conto soprattutto del costo della vita molto alto nell’area milanese.

Come potrebbe funzionare la cosa, dal punto di vista istituzionale?
Un primo obiettivo è quello di indurre il Comune di Milano ad assumere questo parametro come livello minimo di retribuzione che le imprese devono garantire ai propri dipendenti per poter vincere una gara di appalto con il Comune stesso.

Una scelta di questo genere può comportare un aumento di costi per le casse municipali.
Questo è poco ma sicuro. D’altra parte una scelta di questo genere lancerebbe al governo centrale e alle associazioni sindacali e imprenditoriali un segnale politico molto forte e positivo, in questo momento in cui è evidente come gli standard retributivi minimi, soprattutto a Milano, siano troppo bassi.

Un segnale per ottenere che cosa, precisamente?
Un segnale per sollecitare le confederazioni sindacali e le associazioni imprenditoriali maggiori dell’area milanese a riappropriarsi del ruolo di “autorità salariale” perduto.

Come, precisamente?
Stipulando un accordo interconfederale per l’area metropolitana, istitutivo di uno standard retributivo minimo universale per quest’area. Come dire: a Milano nessuno deve essere pagato meno di 10 euro l’ora tutto compreso.

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