IL LAVORO CHE UCCIDE, IL LAVORO CHE SALVA

Il lavoro umano come travaglio, come punizione, come strumento di morte, e il lavoro come mezzo di autorealizzazione della persona, di garanzia della sua libertà: questo presuppone la possibilità che chi lo svolge lo ami – Ma nelle nuove generazioni accade diffusamente che questo atteggiamento verso il lavoro sia problematico

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Intervista-discussione a cura di Francesco Seghezzi, che sarà pubblicata sul
Bollettino Adapt del 1° luglio 2024 – L’intervista è parte di una serie dedicata a una rivisitazione dei miei scritti pubblicati nell’arco degli ultimi 50 anni; questa prende spunto dal mio intervento sul tema Il lavoro che uccide, il lavoro che salva al convegno su La memoria del lavoro e il lavoro della memoria, promosso a Milano dalla Casa della Cultura nel Giorno della Memoria, 27 gennaio 2019 (pubblicato anche sulla rivista Lavoro Diritti Europa, 1019, n. 1, pp. 1-6 – L’ultima intervista precedente della stessa serie messa online su questo sito è dedicata al tema Diritto del lavoro e trasformazione tecnologica

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D.: Il lavoro uccide, il lavoro salva. Questa apparente contraddizione ha una storia millenaria e oggi pone una urgenza particolarmente forte in un contesto nel quale il lavoro continua purtroppo a uccidere, ma nel quale, allo stesso tempo, sembra molto più difficile dire, senza essere guardati stranamente, che il lavoro abbia un elemento salvifico, che abbia a che fare con la felicità. Quando va bene il lavoro è una fonte di sostentamento, quando va male è qualcosa che in fondo uccide dentro, e dal quale occorre fuggire. Come siamo arrivati a tutto questo?  Ci troviamo in una situazione inedita o è un passato che ritorna?

 R.: Nella storia dell’umanità il lavoro è stato entrambe le cose: pena mortale e fonte di ricchezza e felicità per le persone. Nel corso del Novecento si è assistito allo sviluppo relativamente rapido di una cultura del lavoro come mezzo per rendere effettivo il diritto della persona alla felicità, come luogo di realizzazione della dignità e della libertà della persona stessa: questa cultura ha contribuito molto all’affermarsi della valenza positiva di questa nozione. Ultimamente i sociologi avvertono invece una sua tendenziale svalutazione nella cultura diffusa dei ventenni e trentenni: penso che la tua domanda si riferisca almeno in parte a questa tendenza. È così?

D: Sì. Molte analisi degli ultimi anni, che riguardano in modo particolare la fase post-pandemica, evidenziano come il lavoro stia rapidamente scendendo nella scala valoriale delle persone più giovani. Io penso anche che abbiamo promosso, parallelamente a una fase di crisi delle ideologie e anche di laicizzazione della società, il lavoro a strumento principe di compimento e realizzazione personale declinandolo in una dimensione molto individualistica improntata sulla corsa al risultato e alla performance a tutti i costi. Tutto questo forse ha ridotto un po’ quello che il lavoro può essere, e quindi ci ha resi più distaccati. Cosa ne pensi?

R.: Provo a risponderti osservando che da un’indagine recente risulta, in Italia, una persona su due soddisfatta del proprio lavoro. Certo, è un tasso di soddisfazione troppo basso; ma quella persona soddisfatta ogni due basta per rendere credibile l’affermazione secondo cui il lavoro buono, quello nel quale chi lo compie si sente realizzato e gratificato, non è soltanto un’utopia o un ricordo di tempi lontani, e neanche un obiettivo precluso alle nuove generazioni. Fare in modo che tutte le persone interessate si propongano di raggiungere questo obiettivo, e una maggioranza sempre più larga possa effettivamente raggiungerlo, è possibile. Però sarebbe sbagliato impostare il discorso soltanto in termini di lavoro del singolo individuo, di competizione, di successo personale, mentre il lavoro per lo più, è fatto essenzialmente di cooperazione, manifestazione della natura sociale della persona umana. Ma voglio sottolineare che sarebbe sbagliato anche impostare il discorso soltanto in termini di diritto soggettivo, cioè di qualche cosa che va costruito per la persona interessata, quindi di qualche cosa che si colloca al di fuori di essa: trovare la felicità nel lavoro dipende in parte anche da una risorsa che ognuno deve trovare dentro sé stesso. E che la scuola dovrebbe contribuire in modo decisivo a far maturare nella personalità di tutti fin dall’adolescenza.

D.: A che cosa ti riferisci?

R.: A conclusione dello scritto da cui abbiamo preso le mosse cito una pagina de La chiave a stella dove Primo Levi avverte che “l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera [propria] sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge”. In altre parole, voler cercare e trovare il lavoro in cui ci si realizza e saperlo amare conta almeno altrettanto quanto conta la qualità della struttura in cui lo si svolge e delle persone che in essa pure lavorano. Mi riferisco anche a questo quando parlo della “diligenza” come caratteristica del lavoro buono, capace di rendere felici: “diligenza” deriva dal latino diligere, che significa amare. Nel codice civile compare ancora l’espressione, tratta dal diritto romano classico, “diligenza del buon padre di famiglia”; ma è ora di sostituire questa espressione con una più al passo coi tempi, quale può essere “diligenza del buon genitore”. Questo è anche un dovere giuridico: il dovere di svolgere la prestazione con la stessa cura e attenzione che caratterizza il comportamento di un padre o una madre verso il proprio coniuge e i propri figli; ma qui voglio sottolineare come, prima ancora che oggetto di un obbligo verso terzi, questo diligere sia un requisito per la felicità nel lavoro. In altre parole, occorre imparare ad amare ciò che si fa.

D.: Ma come si può parlare di amore per il proprio lavoro in un contesto come quello italiano di oggi nel quale quattro persone su dieci svolgono un’attività che non corrisponde al proprio titolo di studio, alle proprie capacità, nel quale una persona che lavora su dieci è pagata al di sotto della soglia di povertà, nel quale il tasso di infortuni sul lavoro è nettamente superiore rispetto al resto d’Europa?

R.: Nel brano che ho citato Levi scrive che l’amore per il proprio lavoro dipende “meno di quanto si creda” dalle strutture aziendali, ma non dice affatto che la qualità di quelle strutture sia poco rilevante. E il dovere della diligenza non riguarda soltanto chi presta il lavoro, bensì anche la datrice di lavoro: la quale ha molti obblighi nei confronti dei propri dipendenti e deve adempierli anch’essa con la stessa attenzione e cura che il buon genitore usa verso i propri familiari. Se ogni impresa adottasse questo criterio nei rapporti coi propri dipendenti, si occupasse seriamente del loro benessere anche psichico nel luogo di lavoro, sarebbe molto più facile per questi amare il proprio lavoro. Poi, certo, è necessario anche che il mercato del lavoro sia innervato da una rete di servizi efficaci di informazione, orientamento e formazione che consentano a ciascuna persona di “usare il mercato” per trovare la struttura più capace di valorizzare le sue capacità.

D.: Resta il fatto che molti giovani oggi non cercano il lavoro in cui realizzarsi, ma il lavoro che dà loro il reddito necessario per poter svolgere una o più altre attività in cui ritengono di potersi realizzare.

R.: L’aumento della ricchezza diffusa e del tempo libero favorisce il diffondersi dell’atteggiamento a cui ti riferisci nelle nuove generazioni. Questo suggerisce la necessità di coltivare, a fianco di quella tradizionale, anche una nuova etica del lavoro un po’ più disincantata, che non attribuisce più al lavoro professionale una posizione centrale e dominante rispetto alla vita della persona. Si può anche osservare, in proposito, come a seguito del commento di Federico Mancini all’ articolo 4 della Costituzione (Commentario Branca, 1975) la dottrina giuslavoristica sia univoca nel ritenere che nella nozione di “lavoro” oggetto del diritto-dovere sancito da quella norma non rientri soltanto il lavoro professionale retribuito, bensì anche il lavoro volontario e, ancor più ampiamente, qualsiasi attività umana volta al progresso materiale e spirituale della società: anche l’opera dell’artista destinata a non essere mai oggetto di alcun contratto, e persino la meditazione solitaria dell’eremita.

D.: Per tornare al lavoro oggetto di un contratto di scambio, anche nel tuo scritto sottolinei come nel lavoro ci sia una dimensione di qualità che non è legata soltanto ai prodotti o ai servizi che si contribuisce a creare e a erogare ma è legata anche al rapporto tra sé e quello che si fa. Non credi che questo rischi di tagliare fuori la dimensione relazionale del lavoro rischiando di insistere molto su un impegno individuale che oggi si rifugge e che invece la relazione, il fare-insieme potrebbe ravvivare?

 R.: Ne sono ben convinto. Quando parlo della felicità per il “lavoro ben fatto” non intendo certo ignorare la felicità che nasce dalle buone relazioni rese possibili dal lavorare insieme. L’importanza del lavoro nella vita delle persone è in gran parte riconducibile proprio alle relazioni extra-familiari che il lavoro attiva. Anche per questo sono convinto che la fluidità del mercato del lavoro e la possibilità di avvalersi del mercato stesso per cercare l’ambiente a sé più congeniale, le persone con cui si può andare più d’accordo, siano uno dei rimedi più efficaci contro il rischio dell’ambiente di lavoro costrittivo, contro il lavoro infelice.

D.: Oggi il lavoro come fatica, quasi il richiamo al castigo biblico, sembra essere la principale concezione diffusa, anche grazie a modelli (proposti soprattutto ai giovani) di promessa di ricchezza e realizzazione senza sforzi. Quanto pensi che un modello economico-produttivo basato su una esaltazione della performance e della carriera individuale ascendente come unico obiettivo abbia influito nel collegare il lavoro a questa accezione negativa?

 R.: Quella che tu indichi come concezione diffusa, cioè il lavoro considerato principalmente come fatica, fonte di pena, era ben comprensibile fino a pochi decenni or sono. Ma oggi come si fa a non vedere che il progresso sociale, l’evoluzione tecnologica e l’innalzamento di tutti gli standard ad opera degli ordinamenti sovranazionali stanno producendo un sensibile miglioramento della qualità del lavoro, non solo riducendone la fatica e rendendo possibile l’obiettivo dell’azzeramento della nocività, ma anche neutralizzando le menomazioni fisiche e sensoriali, attenuando o azzerando i vincoli del coordinamento spazio-temporale della prestazione lavorativa, favorendo forme nuove di conciliazione tra tempo di lavoro retribuito, tempo di cura familiare e tempo libero? Chi non vede questa tendenza in atto dovrebbe leggere Germinal di Émile Zola, o Rosso Malpelo di Giovanni Verga, per rendersi conto di quanto lo standard minimo si è alzato e della direzione nella quale il mondo sta cambiando. Quanto alla esaltazione della performance e della carriera individuale, è vero che in molte aziende essa produce effetti tossici; ma produce effetti tossici anche l’eccesso inverso: il contesto lavorativo nel quale il risultato è irrilevante e tutta l’organizzazione gira intorno agli interessi degli addetti, essendo pressoché irrilevante l’interesse degli utenti del servizio.

D.: Ti riferisci al settore pubblico?

R.: Ad alcune zone del settore pubblico, certamente, ivi comprese alcune società formalmente di diritto privato, ma controllate da enti locali o Stato. Devo dire, però, che ho visto in atto una sindrome analoga anche in alcune realtà che con il settore pubblico non hanno nulla a che fare.

D.: Il modello taylorista, dominante fino a mezzo secolo fa, era costruito sulla negazione del valore della professionalità individuale con l’obiettivo di controllare il lavoratore, ricordando la sua dimensione di dipendenza assoluta, di fatto rischiando di degradarlo e frustrarlo nelle sue capacità, come  ricordi nel saggio citando Tempi moderni di Chaplin. Questo significa che un modello che esalti la professionalità individuale, spinga al miglioramento continuo garantisce comunque la soddisfazione e la felicità della persona? O vedi comunque dei rischi?

R.: Non si può parlare dell’evoluzione dell’organizzazione del lavoro come se essa corrispondesse a un solo modello: al contrario, i modelli che hanno diritto di cittadinanza nel mondo del lavoro sono sempre più numerosi e diversi: da quello che punta di più sulla professionalità e sull’impegno individuale a quello che punta di più sul lavoro di squadra e sulla performance collettiva. Nessuno di questi modelli può essere considerato, in senso assoluto, migliore rispetto agli altri, né dal punto di vista della produttività  o profittabilità dell’organizzazione aziendale, né da quello del benessere della singola persona coinvolta. Per questo è importante il rovesciamento del paradigma del mercato del lavoro, che costituisce il tema di un altro dei nostri colloqui: perché per la dignità e la possibilità di autorealizzazione della persona che lavora è difficile immaginare qualche cosa di più efficace della libertà effettiva di scelta del modello organizzativo aziendale che meglio soddisfa le proprie aspirazioni, nel quale le proprie capacità possono essere meglio valorizzate; della libertà di scelta dell’ambiente lavorativo che corrisponde più precisamente alle proprie esigenze. Su questo terreno anche il sindacato, se ne è capace, può svolgere un ruolo importantissimo.

D.: Quale, precisamente?

R.: Quello che consiste nel negoziare il piano industriale innovativo, guidando la scommessa comune su di esso dei dipendenti con l’imprenditore, poi nell’organizzare la partecipazione degli stessi al controllo sull’attuazione del piano. È ciò che Frank Tannenbaum (A Philosophy of Labor, 1951) indicava come la funzione di “dare all’azienda un’anima”, quando essa da sola non riesce a darsela. Certo, questo presuppone che l’azienda resti un luogo in cui vivono e cooperano delle persone, mentre avremo sempre più diffusamente a che fare anche con aziende popolate soltanto da automi: in relazione a queste, porsi il problema di dotarle di un’anima non avrà molto senso. Il problema sarà che di un’anima siano dotati coloro che le programmeranno e le governeranno.

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