LA SEGMENTAZIONE DELL’IMPRESA E L’INTERPOSIZIONE NELLE PRESTAZIONI DI LAVORO

Sul tema  dei “confini dell’impresa”, ovvero di che cosa può essere “esternalizzato” e che cosa no, l’ordinamento italiano soffre di una contraddizione, una crepa logica che si manifestò fin dalle origini del divieto di interposizione, che si pretendeva assoluto ma non poteva esserlo

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Intervista-discussione a cura di Nicoletta Serrani e Irene Tagliabue, che verrà pubblicata sul Bollettino Adapt il 3 giugno 2024 – L’intervista è parte di una serie dedicata a una rivisitazione dei miei scritti pubblicati nell’arco degli ultimi 50 anni; questa prende spunto dalla mia relazione al Convegno AIDLaSS di Trento del 1999, pubblicata in versione integrale sulla rivista
Giornale di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali, 1999, pp.  203-275, sotto il titolo Il diritto del lavoro e i confini dell’impresa, e in versione ridotta sulla Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 1999,  III, pp. 149-168, sotto il titolo Le nuove forme di decentramento produttivoL’ultima intervista della serie messa online su questo sito, a cura di Giovanni Piglialarmi, è dedicata al tema L’anima laburista della Legge Biagi
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Luigi Mengoni

D.: Al centro della tua relazione al convegno giuslavoristico del 1999 sulla “segmentazione dell’impresa” sta la segnalazione della difficoltà  che il nostro diritto del lavoro ha sempre avuto a fare i conti con il fenomeno della segmentazione dell’impresa. Quel convegno servì a superare difficoltà denunciata?
R.: In un primo tempo il Comitato Direttivo dell’AIDLaSS aveva pensato di dedicare il proprio incontro annuale della primavera 1999 al tema dell’interposizione nelle prestazioni di lavoro e della nuova disciplina della fornitura di manodopera da parte delle agenzie accreditate, che era stata dettata dalla legge n. 469 del 1997, a seguito della sentenza Job Centre II della Corte di Giustizia. Quando Luigi Mengoni, allora Presidente dell’Associazione, mi propose di svolgere la relazione su questo tema, forse anche per il ruolo che avevo svolto nel procedimento da cui quella sentenza era nata, gli proposi a mia volta di allargare il discorso all’intera area tematica della variabilità dei “confini dell’impresa”; e alla fine la proposta venne accolta. Ora, non tocca a me dire se e quali passi avanti quel convegno fece compiere alla cultura giuslavoristica su questo terreno; sta di fatto che due anni dopo alcuni dei temi di cui proprio a Trento si era incominciato a parlare vennero recepiti nel Libro Bianco di Marco Biagi, per poi rifluire nella legge che porta il suo nome. Mi riferisco in particolare alla necessità logica di superare la legge del 1960 sul divieto assoluto di interposizione, di introdurre una distinzione sul piano sanzionatorio tra interposizione fraudolenta e interposizione irregolare, di ridisciplinare la materia dell’appalto; e all’opportunità di consentire il contratto di fornitura continuativa – e non solo temporanea – di manodopera: quello che negli Stati Uniti era praticato da tempo con il nome di staff leasing. Anche la ridenominazione, nella Legge Biagi, della “fornitura” di manodopera (termine utilizzato nella legge Treu del 1997) con “somministrazione” può considerarsi come un segno del dialogo attivato da quel convegno tra l’accademia e il legislatore.

D.: Però qualche anno dopo lo staff leasing sarebbe stato soppresso da una maggioranza di centro-sinistra, su iniziativa del ministro de Lavoro Cesare Damiano.
R.: La sinistra politica, dopo avere, insieme alla sinistra sindacale, attaccato per alcuni anni la Legge Biagi con una veemenza inaudita, presentandola come un atto di “liberalizzazione selvaggia” del mercato del lavoro che spalancava le porte al precariato, quando ha conquistato la maggioranza ed è andata al governo aveva bisogno di mostrare ai propri sostenitori di aver posto mano allo smantellamento di quella legge; senonché, al dunque, nessuno ha saputo trovare lì dentro una sola norma che istituisse una forma di lavoro precario in precedenza inesistente e che potesse essere abrogata con questa motivazione. Così si decise di abrogare le parti degli articoli 21 e 22 che consentivano il contratto di staff leasing (destinato però poi a essere ripristinato nel 2010) e gli articoli 41-45 che regolavano il job sharing riprendendo testualmente il contenuto di una circolare del ministro del Lavoro Treu del 1998; forse perché entrambe queste forme di organizzazione del lavoro venivano indicate nel linguaggio corrente con un nome inglese. Ma nessuna delle due aveva a che fare con il precariato: al contrario, lo staff leasing dà luogo a rapporti di lavoro la cui stabilità nella Legge Biagi era addirittura più protetta rispetto ai rapporti a tempo indeterminato ordinari; e il job sharing è caratterizzato da una clausola che consente la libera ripartizione tra una coppia di persone di una unica prestazione di lavoro, che è di regola a tempo indeterminato e con tutte le protezioni di cui gode qualsiasi altra prestazione di lavoro.

D.: Ritieni che l’attuale assetto normativo del nostro Paese in materia, anche a seguito – in particolare – delle riforme del 2003 e del 2015, abbia superato la difficoltà di cui parlavi del diritto del lavoro di fare i conti con il fenomeno della segmentazione dell’impresa, o vedi ancora oggi, su questo terreno, questioni irrisolte?
R: Di questioni irrisolte, o non risolte in modo duraturo, ce ne sono ancora, come è dimostrato dallo stillicidio di interventi legislativi sulla materia degli appalti di servizi: l’ultimo con il decreto-legge n. 19 di quest’anno. Il problema non nasce soltanto dagli abusi macroscopici costituiti dai fenomeni di interposizione fraudolenta, o anche soltanto ai limiti del lecito; esso nasce anche dal fatto che la scelta del buy da parte della impresa di grandi o medie dimensioni, cioè la scelta di appaltare un segmento dell’attività produttiva, può essere dettata dalla necessità di avvalersi di competenze specialistiche possedute soltanto dall’impresa appaltatrice, ma può essere dettata anche dall’interesse a ridurre – esternalizzandoli – i “costi di transazione sindacale”: operazione, questa, comprensibilmente avversata dal movimento sindacale. Questo non giustifica la demonizzazione generalizzata dei contratti di appalto a cui si assiste diffusamente nel dibattito pubblico, perché l’appalto costituisce pur sempre lo strumento indispensabile per consentire a ciascuna impresa di specializzarsi nell’attività per la quale è più competente. Ultimamente la polemica contro gli appalti è divampata di nuovo a seguito del disastro della centrale idroelettrica di Bargi; ma lì è scoppiata una turbina, della quale era titolare l’ENEL, cioè l’impresa committente; mentre alcune delle vittime erano dipendenti regolari e ben retribuiti di imprese appaltatrici di servizi di manutenzione ultra-specialistici, che operano al servizio di numerosi altri committenti e svolgono del tutto correttamente la loro funzione economica indispensabile. 

D.: Quali sarebbero, a tuo avviso, gli interventi che il legislatore dovrebbe porre in essere alla luce dei cambiamenti del mercato del lavoro in atto che – non da ultimo anche in ragione dello sviluppo tecnologico degli ultimi anni – stanno inevitabilmente incidendo anche sui fenomeni di frammentazione dell’impresa?
R.: La corresponsabilità solidale tra committente e appaltatrice, già da tempo prevista nel nostro ordinamento, costituisce il presupposto principale per la responsabilizzazione della committente sul rispetto degli standard di trattamento in tutta la cosiddetta “filiera”. Proprio in questi giorni si sta discutendo pure dell’introduzione anche nel campo degli appalti di servizi della regola della parità di trattamento tra dipendenti della committente e dipendenti dell’appaltatrice; questa misura, a  mio avviso, può svolgere una funzione positiva ma deve essere limitata agli appalti cosiddetti labour intensive: quelli, cioè, nella cui economia il costo della manodopera è nettamente prevalente sugli altri costi. Imporre questa regola anche negli altri appalti, quelli capital intensive, invece, mi parrebbe concettualmente sbagliato. 

D.: La tua relazione trentina evidenziava l’allora sempre crescente tendenza delle aziende a ricorrere a processi di esternalizzazione non solo di alcuni segmenti marginali dell’organizzazione aziendale, bensì afferenti a qualsiasi fase del processo produttivo. Per quel che ti risulta questa tendenza è oggi ancora in atto? Oppure invece le restrizioni introdotte nell’impianto legislativo sta portando le aziende ad attuare un processo inverso di re-internalizzazione dei propri processi produttivi, il cosiddetto in-sourcing?
R.: L’immagine della segmentazione spinta dell’impresa che proposi anche in forma grafica in quella relazione corrisponde a quanto accade ancora oggi, e oggi anche più facilmente di un quarto di secolo fa: come è dimostrato anche dal fenomeno dello smart working, l’evoluzione delle tecnologie informatiche e telematiche consente di esternalizzare qualsiasi funzione, anche quella più intimamente inerente all’esercizio dell’impresa qual è per esempio la redazione del bilancio, la gestione del personale, l’elaborazione di nuove strategie commerciali, e così via. Vero è che da qualche tempo si assiste a iniziative giudiziarie – penso soprattutto a quelle della Procura della Repubblica di Milano – dichiaratamente mirate al miglioramento degli standard di trattamento degli addetti ad alcuni settori come la logistica o i servizi di guardiania e sicurezza, nell’ambito delle quali è stato imposto a imprese committenti del settore della grande distribuzione, o di quello dei trasporti, di reinternalizzare gran parte dei servizi in precedenza oggetto di appalto o sub-appalto e riconoscere agli addetti consistenti aumenti retributivi. Iniziative cui la Corte di Cassazione ha fatto – per così dire – sponda a partire da due sentenze del 2 ottobre 2023 (n. 27711 e n. 27769). Ho espresso altrove i motivi della mia perplessità riguardo a questo orientamento giurisprudenziale, per il fatto che esso sostanzialmente affida a ciascun singolo giudice la fissazione dello standard di trattamento ritenuto conforme all’art. 36 della Costituzione: ciò che determina una aleatorietà della determinazione dello standard stesso a mio avviso incompatibile con una economia aperta di mercato. Ma questa è la conseguenza dell’abstention of law nella materia della retribuzione minima oraria: una scelta del legislatore che – come dimostrano proprio le conseguenze di questo orientamento giurisprudenziale, non è più sostenibile.

D.: All’inizio di questa intervista hai accennato a una “necessità logica” di superare il divieto drastico di interposizione contenuto nella legge n. 1369/1960. A che cosa ti riferivi, in particolare?
R.: Proprio per preparare la relazione al convegno di Trento del 1999 avevo studiato approfonditamente i lavori preparatori della legge del 1960, facendo alcune scoperte molto interessanti. Nel corso del dibattito parlamentare era accaduto che da più parti arrivassero ai legislatori segnalazioni di attività labour intensive normalmente svolte mediante affidamento del servizio a imprese terze, che rischiavano di essere travolte dal divieto drastico di interposizione e che meritavano invece di essere salvate: per esempio le lavorazioni “a fasi successive” soprattutto ma non soltanto nei cantieri edili (posa di rivestimenti, di pavimenti o di impianti elettrici o idraulici, ecc.), l’istallazione di impianti o macchinari all’interno degli stabilimenti, i lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria, i lavori di pulizia, o di facchinaggio, il lavoro degli addetti al servizio delle cuccette sui treni, persino la “gestione dei posti telefonici pubblici”. La cosa curiosa è che il legislatore, invece di trarre da tutte queste segnalazioni che via via arrivavano un buon motivo per temperare e rimodulare il divieto di interposizione, volendo mantenerne a tutti i costi il carattere drastico e assoluto preferì aggiungere alla legge un articolo 5, nel quale veniva riconosciuta a priori la natura di appalto genuino a ciascuna di quelle attività (che nei Paesi anglosassoni vengono invece pacificamente qualificate come oggetto di labour contracts e come tali disciplinate), ricorrendo all’escamotage di farne altrettante eccezioni alla regola della corresponsabilità solidale tra committente e appaltatore per i debiti di lavoro relativi ai cosiddetti appalti interni, che era contenuta nell’articolo 3. 

Tiziano Treu

D.: Il d.lgs. n. 276/2003, che ha definitivamente abrogato la legge in esame, ha contribuito a superare almeno alcune delle incongruenze da te prospettate?
R.: La Legge Biagi ha conservato il divieto generale di interposizione, con la sola eccezione della somministrazione di manodopera affidata alle agenzie specializzate accreditate (che era stata già, peraltro, “sdoganata” dal c.d. Pacchetto Treu del 1997, ma aveva tardato molto a decollare effettivamente). Però ha differenziato nettamente le sanzioni tra l’interposizione fraudolenta e l’interposizione irregolare, cioè quella non posta in essere al fine di ridurre lo standard di trattamento delle persone interessate. Questa era un’innovazione molto opportuna. Certo, con la riforma del 2003 non ci si è spinti fino a riconoscere e disciplinare esplicitamente quelli che nei Paesi anglosassoni vengono indicati con l’espressione labour contracts, ciò che avrebbe consentito di introdurre nel modo più efficace in questi contratti la trasparenza e le protezioni necessarie. L’ipocrisia della legislazione italiana, consistente  nella finzione che il servizio di reception di un’azienda o di pulizia di un ufficio sia o debba essere necessariamente un appalto genuino, non giova al fine della protezione delle persone che vi sono coinvolte. Però la riforma del 2003 ha segnato un passo avanti importante verso una disciplina della materia più razionale. 

D.: Con l’art. 29 del d.-l. n. 19/2024 il legislatore, al fine di contrastare le forme di esternalizzazione fraudolenta, ha reintrodotto un apparato sanzionatorio più severo, con modifiche di notevole portata all’art. 18 del d.lgs. n. 276/2003. Secondo la tua esperienza, questo intervento sarà in grado, concretamente, di disincentivare la diffusione di esternalizzazioni non genuine?
R.: Ho l’impressione che con questa nuova norma, in gran parte riscritta dalla legge di conversione del decreto, n. 56/2024, il Governo abbia inteso rispondere con alcuni “giri di vite” su appalti e somministrazione di lavoro a un allarme diffuso nell’opinione pubblica per quello che viene presentato dai media come un eccesso di ricorso agli appalti e sub-appalti, soprattutto nei settori dell’edilizia e della logistica. Ma non nutro molta fiducia nell’efficacia degli aggravi delle sanzioni previste per le violazioni in materia di somministrazione di lavoro. La novità più rilevante mi sembra quella contenuta nel comma 1-bis che viene aggiunto all’articolo 29 del d.lgs. n. 273/2003, per assicurare ai dipendenti degli appaltatori e subappaltatori un trattamento “non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto”. Questa norma, però, non brilla per chiarezza: immagino che sull’espressione “settore strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto” si verseranno fiumi di inchiostro, il che non è un buon segno riguardo alla bontà della tecnica normativa adottata. Ma il vero problema è un altro.

D.: Quale?
R.: L’atto legislativo di cui stiamo parlando. che occupa ben174 pagine della Gazzetta Ufficiale, intitolato a Ulteriori disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), contiene una congerie incredibile di norme sulle materie più disparate, dalle grandi opere pubbliche al fisco, al catasto, alla scuola, alla sanità, alla giustizia, alla digitalizzazione delle amministrazioni, e chi più ne ha più ne metta. In questo minestrone che per caoticità del contenuto fa impallidire la legge finanziaria, è letteralmente sepolta la norma in materia di appalti e somministrazione di lavoro di cui stiamo parlando, che con l’attuazione del PNRR ha poco a che fare ed è scritta oltretutto in modo da essere difficilmente comprensibile anche per gli esperti della materia. Come si può pensare che una norma confezionata in questo modo possa influire incisivamente sul modo di essere del tessuto produttivo? Una norma di legge destinata a essere applicata da milioni di persone deve essere facilmente reperibile, leggibile e comprensibile da ciascuna di queste. Quando si emana una legge, non ci si dovrebbe preoccupare soltanto della sua copertura finanziaria, nonché della sua “copertura amministrativa”, cioè della capacità dell’amministrazione pubblica di darle compiuta applicazione, ma anche della sua “copertura conoscitiva”: cioè di quanto è necessario affinché tutti coloro che sono chiamati ad applicarla ne apprendano tempestivamente il contenuto. Altrimenti, la sua efficacia ne risulterà ridotta in proporzione alla difficoltà per il cittadino di apprenderne il contenuto. 

D.: In apertura della tua relazione, nell’evidenziare l’alternativa make or buy e la crescente diffusione dei processi di esternalizzazione, ti soffermi anche sull’impatto della terziarizzazione sul settore dei servizi alla persona. Di rilievo sul punto è la considerazione (ancora attuale) di come il crescente impegno “nel mercato” delle donne – storicamente invece relegate, dentro le mura domestiche, al cosiddetto “lavoro riproduttivo”, o comunque non retribuito – stia contribuendo all’espansione del settore dei servizi alla persona. Settore che, tuttavia, ancora oggi appare ampiamente deregolato. Dal tuo punto di vista, quali sono le ragioni che, a distanza di venticinque anni dal tuo intervento, hanno impedito la costruzione di un vero e proprio «mercato del lavoro di cura ed assistenza»?
R.: In realtà nell’ultimo quarto di secolo qualche cosa si è mosso, su questo terreno; però ancora troppo poco. Se confrontiamo la composizione e le dimensioni della forza-lavoro italiana in percentuale sulla popolazione in età attiva con la composizione e le dimensioni della forza-lavoro dei Paesi nord-europei, ne emergono due cose: il 15 o 20 per cento in meno di persone attive nella forza-lavoro italiana è essenzialmente costituito da donne assenti dal mercato; inoltre, mentre la nostra percentuale di popolazione in età attiva impegnata nell’industria e nel terziario è abbastanza in linea con il nord-Europa, quella che è molto bassa in Italia rispetto al nord-Europa è la percentuale di forza-lavoro impiegata in servizi alle persone in difficoltà, alle famiglie con figli piccoli o con persone anziane non autosufficienti, in asili-nido e case di riposo per anziani. Nei Paesi scandinavi questo settore assorbe invece una percentuale relativamente alta delle persone attive, in prevalenza donne.

D.: Come si spiega questa enorme differenza?
R.: Se in quei Paesi la spesa sociale dello Stato può essere destinata in larga prevalenza a questi servizi, è perché l’età media di pensionamento delle persone relativamente elevata consente un buon equilibrio del bilancio previdenziale. In Italia, invece, la spesa sociale dello Sato è destinata prevalentemente al finanziamento del disavanzo dell’Inps causato da un’età media di pensionamento ancora molto bassa: cinque o sei anni in meno rispetto al nord-Europa, nonostante che l’attesa di vita in Italia sia tra le più elevate del mondo. Così, in Italia la maggior parte della spesa sociale viene destinata a finanziare pensionamento precoce di chi potrebbe lavorare ancora qualche anno; e mancano le risorse per finanziare i servizi alle famiglie, alle persone non autosufficienti, alle comunità locali. E il peso della cura dei bambini, degli anziani e dei non autosufficienti continua a pesare soprattutto sulle madri di famiglia, impedendo loro l’accesso al mercato del lavoro retribuito.

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