ANCORA SULLA STAGNAZIONE RETRIBUTIVA

In assenza di un minimum wage di applicazione universale, il nuovo orientamento della Corte di Cassazione attribuisce la funzione di stabilirlo ai tribunali caso per caso, anche aumentando notevolmente i minimi previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi: col risultato di una assoluta variabilità e indeterminatezza dello standard applicabile

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Intervista a cura di Lorenzo Goj pubblicata su Affari Italiani il 3 maggio 2024 – In argomento v. anche l’intervista pubblicata lo stesso giorno sul quotidiano La Stampa

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Professor Ichino, come giudica il bonus tredicesima previsto dal decreto-legge del Primo Maggio?
Mi lascia perplesso, in primo luogo, il fatto che questa misura venga adottata con un decreto-legge: se il bonus non può essere erogato ora, ma è differito all’anno prossimo, dov’è l’urgenza? Perché non si poteva provvedere in modo costituzionalmente corretto, con la legge finanziaria per il prossimo anno? L’adozione della misura ora per allora per mezzo di un decreto-legge sembra rispondere soltanto all’urgenza di esigenze elettorali di parte. Ma la perplessità maggiore riguarda il merito della misura.

In che senso?
Il problema delle basse retribuzioni non può essere affrontato con una misura una tantum, oltretutto destinata ad applicarsi in un’area assai ristretta.

Che cosa occorrerebbe, invece?
La stagnazione delle retribuzioni, che in Italia dura ormai da un quarto di secolo, è un riflesso immediato dalla stagnazione della produttività media del lavoro. Questo problema può essere risolto soltanto da una politica volta a incentivare e sostenere il trasferimento delle persone dalle aziende poco o nulla produttive – che tendiamo a tenere in vita a tutti i costi – a quelle che saprebbero valorizzare molto meglio il loro lavoro. L’indagine Unioncamere-Anpal mostra che centinaia di migliaia di posti di lavoro restano scoperti perché le imprese più dinamiche non trovano le persone che cercano.

In Italia aumentano i lavoratori, ma aumenta anche la polarizzazione tra i ben retribuiti e i più poveri. Secondo Unimpresa i “working poors”, precari e sottopagati, sono 8 milioni e mezzo. Quali sono gli errori del governo? E come uscire da questa situazione?
La scelta negativa del governo riguardo alla determinazione autoritativa dello standard retributivo orario minimo è messa in crisi dalla svolta che si è determinata nella giurisprudenza della Cassazione dall’ottobre scorso. In assenza di un minimum wage di applicazione universale, ora quella svolta giurisprudenziale attribuisce la funzione di stabilirlo ai tribunali caso per caso, anche aumentando notevolmente i minimi previsti dai contratti collettivi di settore stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative. Se dunque il legislatore non interviene, la prospettiva è che ogni giudice del lavoro decida discrezionalmente lo standard applicabile, in modo imprevedibile e anche con effetti retroattivi: una prospettiva a dir poco caotica. Una prospettiva, comunque, incompatibile con un regime di economia aperta e di corretta concorrenza tra le imprese. Detto questo, però, sarebbe un errore pensare che il minimum wage in ipotesi stabilito dal legislatore possa da solo eliminare la piaga del lavoro povero.

Perché non può farlo?
Perché una gran parte di quelli che chiamiamo “working poors” è costituita da persone che, non per loro scelta, lavorano a tempo parziale. Ma anche perché la situazione di povertà può non essere determinata dal livello nominale della retribuzione oraria, bensì da eventi come la separazione coniugale, oppure la sopravvenienza di malattie gravi o disabilità permanenti di membri del nucleo familiare. Questa parte del problema non può essere risolta dal diritto del lavoro inteso in senso stretto: è di competenza, semmai, della sicurezza sociale.

 

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