Il filo rosso che congiunge l’istituzione del “contratto a progetto” ad opera della legge del 2003 con la norma contenuta nella legge Fornero del 2012 e con quella che ha riformato la materia nell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015
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Intervista a cura di Giovanni Piglialarmi pubblicata sul Bollettino Adapt il 2 aqprile 2024 – L’intervista è parte di una serie dedicata a una rivisitazione dei miei scritti pubblicati nell’arco degli ultimi 50 anni; questa trae spunto dal mio articolo L’anima laburista della legge Biagi, pubblicato nel 2005 sulla rivista Giustizia civile – Tutte le interviste sono reperibili su questo sito seguendo a ritroso i relativi link, a partire dall’ultima pubblicata, sul lavoro nelle pubbliche amministrazioni
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Nel leggere questo saggio, ho subito colto una straordinaria “contemporaneità” della riflessione che proponevi allora. Era il 2005 e mi pare che la tua proposta interpretativa dell’art. 69 del d.lgs. n. 276 del 2003 già gettasse le basi per una riflessione che ci ha poi condotti alla disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente, che ora troviamo all’art. 2 del d. lgs. n. 81 del 2015. Ciò che proponevi, in effetti, era l’estensione della disciplina del lavoro subordinato a una fattispecie di lavoro autonomo che tuttavia, in ragione della lunga durata del rapporto e della mono-committenza, abbisogna protezione. È così?
Sì. All’inizio degli anni ’90 avevo commentato sulla rivista Democrazia e Diritto (1990, pp. 69-76) il fenomeno – che all’epoca non era stato ancora messo a fuoco nelle sue dimensioni massive – della “fuga dal lavoro subordinato”: un fenomeno che aveva incominciato a manifestarsi con la proliferazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa; e avevo maturato l’idea che la prima ragion d’essere della protezione giuslavoristica andasse cercata in una condizione che non era affatto peculiare dei lavoratori subordinati, essendo causata essenzialmente dal lavorare a lungo per un unico committente e con bassa professionalità, indipendentemente dal regime contrattuale di assoggettamento o no a eterodirezione. Poi avevo continuato a lavorare su questo tema, pubblicando con il mio fratello economista un saggio di labour law and economics (Riv. it. dir. lav., 1994, I, pp. 459-504) e nel 1996 un libro, Il lavoro e il mercato, dove affrontavo la questione della ragion d’essere del diritto del lavoro secondo, per un verso con l’idea di sfrondare questa branca dell’ordinamento dalle sue ridondanze prive di giustificazione razionale; per altro verso di fornire un fondamento razionale, invece, all’estensione della disciplina protettiva a tutta l’area nella quale si osserva una distorsione nel funzionamento del mercato a danno dei prestatori di lavoro. Di questo avevo poi discusso a lungo con Marco Biagi – che avevo chiamato a insegnare il diritto comunitario del lavoro nel Master di cui ero direttore –; anche lui era convinto che, al di fuori del caso del “lavoro a progetto”, cioè della prestazione strettamente legata a un’esigenza produttiva molto ben identificata e temporalmente delimitata, il lavoro svolto in modo continuativo in regime di monocommittenza dovesse essere assoggettato alle stesse protezioni del lavoro subordinato.
Se questa è la logica sottesa alla norma, possiamo dire, in estrema sintesi, che il lavoro a progetto altro non era che una collaborazione coordinata “a tempo determinato” e destinata ad operare in una specifica area del mercato del lavoro, in cui i prestatori erano in una posizione contrattuale tendenzialmente più robusta e, almeno potenzialmente, ingaggiati da più committenti?
L’idea era questa; cui se ne aggiungeva un’altra: quella di consentire una collaborazione autonoma di durata limitata, legata all’attuazione di un progetto ben determinato, come una sorta di periodo di prova delle capacità della persona ingaggiata un po’ allungato rispetto al termine della prova iniziale, solitamente troppo ridotto, previsto dai contratti collettivi.
Non sono poche le circolari e gli interventi normativi volti a “correggere” l’utilizzo distorto che si faceva del contratto di lavoro a progetto. Penso alla circolare n. 1/2004 del ministro Maroni, alla circolare n. 17/2006 del ministro Damiano in materia di call center, o alle modifiche introdotte dalla Legge Fornero su questa materia. Tuttavia, è netta l’impressione che in questi casi, più che contrastare l’elusione della norma, si sia messo in evidenza come alcuni lavori fossero ontologicamente incompatibili con la collaborazione a progetto. Cosa ne pensi?
Resto convinto che alla radice di tutte le difficoltà incontrate dal policy maker nell’azione di contrasto all’elusione ci sia l’assunzione del carattere subordinato della prestazione – cioè del suo assoggettamento pieno a eterodirezione – come tratto essenziale della fattispecie di riferimento del diritto del lavoro. Alle origini, nelle prime leggi protettive di fine ’800 e inizio del ’900, il tratto distintivo della fattispecie era il fatto di lavorare “nello stabilimento del principale”: cioè l’“inserimento” della prestazione nell’organizzazione aziendale, quella che nella dottrina germanica era indicata come l’Eingliederung; Ludovico Barassi criticò questa scelta definitoria mettendone in luce il grave difetto di nitidezza, ovvero l’eccessiva indeterminatezza della nozione: è sulla base del suo insegnamento che ha finito col prevalere la definizione centrata sull’assoggettamento pieno a eterodirezione. Senonché anche questa definizione, che ha prevalso nelle legislazioni europee fino a oggi, presenta dei gravi difetti dal punto di vista della politica del lavoro: per un verso non si vede perché debba essere assoggettato alla disciplina protettiva il rapporto di lavoro di un amministratore di società di grandi dimensioni con retribuzione elevatissima, che oltretutto talvolta ha anche altre attività lavorative assai lucrose, solo perché il contratto assoggetta la prestazione al potere direttivo di un organo sovraordinato, quale può essere il presidente della Società o il consiglio di amministrazione; per altro verso, proprio il fenomeno della “fuga dal lavoro subordinato” di cui si è detto prima evidenzia come la subordinazione lasci scoperta tutta un’area in cui pure il bisogno di protezione si manifesta, talvolta anche in modo acuto. È questo il motivo per cui nella legge Fornero n. 92 del 2012 si è scelta una tecnica normativa diversa.
A quale tecnica normativa ti riferisci?
L’articolo 1, comma 23, della legge Fornero aveva inserito nel d.lgs. n. 276/2003 l’art. 69-bis che istituiva – pur con una formulazione assai contorta e di difficile lettura – una “doppia presunzione”, mirata a determinare l’applicazione della protezione propria del lavoro subordinato in tutti i casi in cui una collaborazione qualificata dalle parti come autonoma presentasse almeno due delle caratteristiche seguenti: a) avesse durata superiore a 8 mesi annui per due anni consecutivi, b) con un corrispettivo che superasse l’80 per cento dei redditi di lavoro del prestatore e c) con assegnazione al prestatore di una postazione di lavoro fissa presso una delle sedi del committente; restando comunque escluse d) le collaborazioni ad alto contenuto professionale, nonché comunque e) quelle il cui compenso superasse di almeno un quarto il livello del reddito minimo imponibile ai fini dell’Irpef (il limite si collocava dunque allora intorno ai 18.000 euro annui). I requisiti a), b) ed e), anche se espressi con una formulazione di difficile lettura, ricalcavano quelli che avevo proposto nel disegno di legge contenente il “Codice semplificato del lavoro” (n. S-1873/2009): durata rilevante della collaborazione nel tempo, monocommittenza e corrispettivo di livello medio-basso, come tratti essenziali di una fattispecie di sostanziale dipendenza economica del prestatore dal committente.
Quali furono gli effetti della riforma del 2003 e poi della riforma del 2012?
Dopo il 2003, anche in conseguenza del prevalere di un orientamento giurisprudenziale severo circa il requisito del “progetto”, si era già registrata una prima drastica riduzione delle collaborazioni coordinate autonome: il che costituisce la migliore smentita della tesi secondo cui la legge Biagi avrebbe favorito la precarizzazione del lavoro. Il numero delle collaborazioni coordinate autonome si è poi ridotto ulteriormente a seguito della legge Fornero; alla quale – nonostante la sua formulazione un po’ contorta e leggibile solo da parte degli addetti ai lavori –attribuisco il merito di aver introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento il riferimento a una nozione sostanzialmente riconducibile a quella della “dipendenza economica” per l’individuazione dell’area di applicazione della disciplina protettiva giuslavoristica: l’operazione che avevo teorizzato ne Il lavoro e il mercato quindici anni prima.
Al lavoro a progetto è stata imputata la colpa di aver fatto lievitare il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro. Eppure, il d.lgs. n. 276 del 2003 conteneva già un “antidoto”, cioè la certificazione. Cosa non ha funzionato?
Negli anni successivi al 2003 il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro è aumentato proprio perché la legge Biagi aveva incominciato a porre un freno all’utilizzazione delle collaborazioni continuative autonome come strumento per eludere il diritto del lavoro: prima di allora la sola possibilità di contestare l’ingaggio di una persona come collaboratrice continuativa autonoma consisteva nel fornire la prova, talvolta molto difficile o comunque opinabile, dell’assoggettamento pieno della prestazione a eterodirezione. Ma proprio l’aumento del contenzioso su questa materia costituisce un indice del fatto che la nuova legge è stata capace di “mordere” nel tessuto produttivo reale. Quanto all’istituto della certificazione del contratto, non ci si poteva attendere che esso arginasse l’aumento del contenzioso, dal momento che la legge stessa – molto opportunamente, peraltro – prevedeva che la certificazione potesse opporsi soltanto all’accertamento ispettivo, ma non in sede giudiziaria.
Tu hai vissuto in prima linea le vicende che hanno preceduto e seguito la pubblicazione del Libro Bianco del 2001, poi l’emanazione della legge Biagi: il primo qualificato come “limaccioso” dal segretario della Cgil Cofferati, la seconda additata dall’opposizione di sinistra come fonte di una “liberalizzazione selvaggia” del mercato del lavoro. In quel clima Marco Biagi venne assassinato, proprio con questa imputazione. Tu facevi parte dell’opposizione di sinistra; ma nella relazione napoletana del 2005 parlasti dell’“anima laburista” della legge Biagi. Con il distacco reso possibile dai due decenni che ci separano da quella stagione, oggi confermi o modifichi il giudizio di allora?
La mia valutazione nettamente negativa circa la vera e propria demonizzazione della legge Biagi operata dalla Cgil e dalla sinistra politica non è cambiata. Quella legge era sostanzialmente in linea con il “pacchetto Treu” del 1997, che aveva liberalizzato i servizi di collocamento e aveva introdotto la somministrazione di manodopera: quella legge aveva allentato alcuni dei vecchi vincoli in modo assai incisivo, ma non era stata contestata perché Treu era ministro del Lavoro di un Governo di centro-sinistra. Marco Biagi era stato collaboratore del ministro Treu prima di diventare collaboratore del ministro Maroni; e in questo passaggio non aveva cambiato le proprie idee di una virgola. Cgil e sinistra hanno scaricato contro la legge Biagi tutta la contestazione accumulata contro il “pacchetto Treu” e rimasta inespressa. Hanno accusato la legge Biagi, di avere precarizzato il lavoro, ma negli 86 articoli di quella legge non veniva istituito alcun nuovo tipo di contratto di lavoro precario: il lavoro “a progetto” costituiva semmai – come abbiamo visto – una limitazione drastica della possibilità di ricorrere alle collaborazioni autonome continuative (e infatti il numero di quei rapporti ha subito una drastica riduzione); il c.d. job sharing, che non ha di per sé niente a che fare con la precarizzazione, era già stato riconosciuto da una circolare del ministro Treu del 1997, il cui contenuto è stato ripreso pari pari negli artt. 41-43 della legge; il c.d. job on call, disciplinato dalla legge Biagi, esisteva già da prima al di fuori di qualsiasi regolamentazione. L’unico tipo contrattuale nuovo, istituito dalla legge Biagi, era il c.d. leasing di manodopera, ovvero il contratto di somministrazione a tempo indeterminato, che non solo non dava affatto luogo a un rapporto di lavoro precario, ma addirittura escludeva la possibilità del licenziamento collettivo dei lavoratori coinvolti. A un quarto di secolo di distanza appare se possibile ancora più evidente l’altissimo grado di faziosità che animò la demonizzazione di quella legge; e fu quella stessa faziosità a motivare l’assassinio di Marco.
Per quanto l’idea del lavoro a progetto sia stata ridimensionata e gradualmente messa da parte, avendo il legislatore preferito ricorrere ad altre soluzioni per governare la zona di confine tra autonomia e subordinazione, non possiamo nascondere che molto di quella intuizione sia ritornato “in vita” oggi nella legge n. 81 del 2017, che ha introdotto il lavoro agile. Si tratta, come noto, di un rapporto di lavoro dipendente nell’ambito del quale, però, l’autonomia contrattuale individuale può determinare l’organizzazione del lavoro per “fasi”, “cicli” o “obiettivi” di produzione, prescindendo da vincoli di orario e di luogo, incentrandosi piuttosto sul raggiungimento di determinati risultati. L’idea di lavorare per progetti e per obiettivi non anticipa forse, di quasi venti anni, l’attuale lavoro agile?
Questa tua osservazione è molto interessante: coglie un nesso tra l’idea del lavoro a progetto e la realtà attuale dello smart work, che merita di essere approfondito. È proprio così: la figura riconosciuta e disciplinata dagli articoli 18 e seguenti della legge n. 81 del 2017 implica che, nell’ambito di un rapporto di lavoro dipendente, possano attivarsi dei segmenti di attività lavorativa caratterizzati da un’autonomia operativa sostanziale del prestatore; il quale, in riferimento a questi segmenti di attività, non è più responsabile soltanto del “tenersi a disposizione” del creditore, bensì essenzialmente del risultato del lavoro svolto. Se guardiamo la cosa alla luce della summa divisio novecentesca tra lavoro subordinato e autonomo, possiamo parlare dell’innesto di segmenti di prestazione strutturalmente autonoma in un rapporto di lavoro subordinato. Questo, a mio modo di vedere, non fa che confermare la necessità di sostituire la nozione di subordinazione, come tratto essenziale della fattispecie di riferimento del diritto del lavoro, con una nozione di dipendenza economica, fondata sulla monocommittenza, sul carattere durevole del rapporto e sul livello non elevato della professionalità e della retribuzione del lavoratore.
Un’ultima domanda. Dal tuo studio ho colto che i successi o gli insuccessi di una legge possono spesso dipendere anche dal rapporto che vi è tra il “paese reale” (chi applica le norme, cioè consulenti, avvocati, imprese) e il “paese legale” (chi interpreta la norma, e cioè gli studiosi, i giudici per mezzo delle sentenze etc.), spesso non comunicanti tra loro. Pensi che una maggiore collaborazione tra la consolidata riflessione scientifica (quella che si occupa della law in the code) e la sua diffusione nella cultura professionale degli operatori del tessuto economico e produttivo possa contribuire a migliorare la law in action e, conseguentemente, a ridurre il conflitto e il contenzioso?
A me sembra che la divaricazione tra paese reale e paese legale non sia imputabile tanto a un difetto di comunicazione tra l’accademia e gli operatori pratici, quanto piuttosto a un grave difetto di “copertura amministrativa” e di “copertura conoscitiva” delle norme che vengono emanate. Quando si vara una legge ci si preoccupa soltanto della sua copertura finanziaria, cioè della disponibilità dei fondi necessari per sostenere le spese in essa previste; ma ci si preoccupa pochissimo della “copertura amministrativa”, ovvero della disponibilità di strutture amministrative capaci di realizzare concretamente quanto la legge dispone. È materia di “copertura amministrativa”, per esempio, la disponibilità di servizi ispettivi capaci di controllare efficacemente e in modo capillare ciò che accade nel tessuto produttivo; ma la riforma dei servizi ispettivi prevista dal d.lgs. n. 149 del 2015, volta ad aumentarne l’efficacia e a evitare le duplicazioni, è rimasta pressoché totalmente inattuata. In materia di protezione del lavoro assume un’importanza cruciale la rete dei servizi di orientamento, informazione, formazione mirata agli sbocchi effettivi, di cui deve essere innervato il mercato: è dalla diffusione e dall’efficienza di questi che dipende la capacità di gran parte delle persone di “usare” il mercato stesso per difendersi dallo sfruttamento, per trovare l’azienda meglio capace di valorizzare le loro capacità; ma è proprio su questo terreno che il mercato del lavoro italiano versa in una situazione di grave arretratezza rispetto agli altri maggiori Paesi europei, a causa dell’ineffettività delle norme che regolano la materia delle politiche attive del lavoro.
Che cos’è, invece, la “copertura conoscitiva” di cui hai fatto cenno?
Quando si vara una legge occorrerebbe preoccuparsi di tutto quanto è indispensabile affinché il suo contenuto sia conoscibile e facilmente conosciuto da tutti coloro che dovranno applicarla o comunque saranno coinvolti nella sua applicazione. La “copertura conoscitiva” non richiede soltanto la predisposizione di misure volte alla diffusione attiva della conoscenza della nuova norma, ma anche principalmente la formulazione della norma stessa in modo da renderla facilmente reperibile, leggibile e comprensibile da parte di tutte le persone interessate. È l’esigenza sottolineata nel Decalogue for smart regulation elaborato dallo High Level Group of Independent Stakeholders on Administrative Burdens della UE ed emanato a Stoccolma il 12 novembre 2009, alla quale mi ero ispirato per l’elaborazione, insieme a Michele Tiraboschi, del Codice semplificato del lavoro di cui ho fatto cenno sopra. Una norma come quella che regola le collaborazioni autonome continuative, che riguarda centinaia di migliaia di persone, deve essere immediatamente comprensibile da ciascuna di queste; e – se si vuole che la norma sia efficace, cioè applicata effettivamente – deve esserne resa possibile la conoscenza, anche senza la necessità della mediazione del consulente.
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