Don Milani mi diceva che i modi per “restituire tutto” erano principalmente due: dedicarmi all’insegnamento, oppure alla difesa dei diritti dei più poveri, al sindacato. A 18 anni, prima ancora di laurearmi in giurisprudenza, scelsi di andare a lavorare come sindacalista di zona, in una piccola camera del lavoro alla periferia nord di Milano
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Intervista a cura di Daniele Rocchetti pubblicata sul sito www.labarcaeilmare.it il 19 marzo 2024 – In argomento v. anche la mia intervista pubblicata sui quotidiani del gruppo QN il 13 gennaio 2024
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Pietro Ichino ha avuto la ventura di conoscere don Lorenzo Milani quando aveva l’età di 10 anni e poi di poterlo incontrare con una certa frequenza e intrattenere con lui un rapporto continuativo negli anni dell’adolescenza.
Quando e come hai conosciuto don Lorenzo?
Mia madre era cugina di Carla Sborgi, compagna di studi di Lorenzo a Brera tra la fine degli anni ’30 e i primi ’40, con la quale lui mantenne una forte amicizia per tutta la vita. A seguito della sua scelta di entrare in seminario si erano persi di vista; ma quando, nel 1958, lui inviò a Carla il suo libro Esperienze Pastorali e lei lo prestò ai miei genitori, essi ne rimasero folgorati e ne acquistarono duecento copie direttamente dall’editore. Questi segnalò l’insolito acquisto all’autore, e così si ristabilì il contatto tra don Lorenzo e mia madre, che lo invitò a Milano per una settimana con i suoi allievi, che avevano all’incirca la mia stessa età.
Cosa ha significato questo incontro per la tua vita?
Era l’aprile del 1959. Per quella settimana venni tolto da scuola in modo da poter partecipare con gli altri sei ragazzi – i suoi primi sei allievi – alla visita della grande città, guidata e commentata da lui. Con loro visitai due fabbriche, la Pirelli e la Siemens, andammo a uno spettacolo alla Scala, e con loro in quei giorni parlai di tutto, della mia scuola e della loro, della mia vita e della loro. In seguito, con i miei andammo più volte a Barbiana; qualcuno dei ragazzi tornò qualche volta a Milano, facendo tappa nei viaggi all’estero che don Lorenzo organizzava per loro. E lui stesso si fermava da noi almeno a pranzo o a cena ogni volta che gli accadeva di venire a Milano. Coi ragazzi ne nacque una amicizia profonda, alimentata dalla curiosità reciproca: loro e io eravamo, pur in modi diversi, molto colpiti dalla diversità dei mondi a cui appartenevamo; e questa diversità era motivo di attrazione reciproca. Una amicizia che con alcuni di loro dura ancora a più di sessant’anni di distanza.
Cosa è rimasto indelebile del tuo incontro con lui?
Tre o quattro anni dopo, durante una sua visita a Milano, dopo pranzo ero seduto accanto a lui su un divano della sala di casa nostra, tappezzata di libri. Indicando tutto quel ben di Dio, lui mi disse: “Pietro, tutto questo per ora non è peccato; ma quando diventi maggiorenne, se non restituisci tutto diventa peccato”. E lo disse davanti ai miei genitori, che maggiorenni erano da un bel pezzo; e dei quali, pure, era molto amico. Nella sua predicazione sapeva essere urticante anche con gli amici. Forse soprattutto con loro, perché voleva loro più bene.
Loro come la presero?
In due modi diversi, ma entrambi positivi. Ho raccontato questa vicenda nel libro La casa nella pineta (Giunti, 2018). Qui posso ricordare solo che mia madre ne trasse motivo per dedicarsi interamente alla costruzione, con altre volontarie e volontari, del Centro Ausiliario Minorile del Tribunale dei Minorenni, dal quale venne un contributo fondamentale per lo svuotamento degli orfanotrofi, con l’attuazione della nuova legge sull’adozione speciale, e per la prima sperimentazione dell’istituto dell’affido familiare.
Quale fu, invece, l’impatto della sua predicazione sulla tua vita?
Lui mi diceva che i modi per “restituire tutto” erano principalmente due: dedicarmi all’insegnamento, oppure alla difesa dei diritti dei più poveri, al sindacato. A 18 anni, prima ancora di laurearmi in giurisprudenza, scelsi di andare a lavorare come sindacalista di zona, in una piccola camera del lavoro alla periferia nord di Milano. Ciò che diede un dolore non da poco a mio padre, che sperava di avermi con sé nel suo studio legale. A lavorare nel sindacato poi rimasi per dieci anni, finché fui spedito in Parlamento: perché ero il “bun de pèna”, quello che sapeva leggere, scrivere e parlare in pubblico. La realtà, che ho cercato di raccontare ne La casa nella pineta, è che del privilegio della cultura, di avere studiato in una buona scuola, di essere cresciuto con dei genitori colti in una casa piena di libri, non te ne spogli facilmente: quel privilegio ti resta attaccato tutta la vita.
Cosa ricordi delle tue salite a Barbiana?
Sarebbe lungo raccontare tutto di quelle esperienze intensissime, che dentro di me eccitavano un tumulto di emozioni e che ogni volta mi legavano un po’ di più alla persona e alla predicazione di don Lorenzo. Mi limito a questo episodio: quando andammo lì per la prima volta, nel 1959, a Barbiana non erano ancora arrivate l’energia elettrica, l’acqua, il gas, il telefono, e neppure una strada carrozzabile. Don Lorenzo ci portò a vedere il minuscolo cimitero che si trova a pochi passi sotto la pieve; e ci mostrò un quadrato di terra dicendo che lo aveva acquistato dal Comune per essere sepolto lì. Allora aveva 36 anni: un’intera vita davanti. La sera, durante il viaggio di ritorno a Milano, i miei genitori commentarono, colpiti, quella sua scelta: come poteva una persona così ricca di idee, valori e progetti, rassegnarsi a passare tutta la propria esistenza in un “non luogo” come quello, apparentemente dimenticato da Dio e dagli uomini? Ma in seguito non tardammo a capire quella sua scelta: allora lui aveva già deciso che quello era il luogo in cui il senso della sua vita si sarebbe compiutamente realizzato. E pochi anni dopo il “non luogo” di Barbiana era già diventato un faro di luce per l’Europa intera e anche per il resto del mondo.
Non si può cogliere il valore di don Lorenzo se non situandolo dentro una storia e un periodo preciso.
Il periodo è quello degli anni ’50 e ’60, nel quale l’Italia viveva il “bipolarismo imperfetto” tra DC e PCI, la Chiesa stava imboccando tra mille contrasti la strada del Concilio Vaticano II, la generazione dei nati dopo la guerra non aveva ancora avuto il “battesimo” del ’68, né il movimento sindacale aveva ancora avuto il “battesimo” dell’autunno caldo del ’69. In quella stagione in cui tutto doveva ancora accadere, il ruolo di don Lorenzo non fu dissimile da quello dei grandi profetti di cui ci parla la Bibbia: sferzò la Chiesa per la sua insensibilità di fronte all’ingiustizia sociale; fu più comunista dei comunisti, ma animato da un comunismo di matrice etica più che politica; mise a nudo la grettezza del nazionalismo e del militarismo che innervavano ancora tanta parte della società italiana; denunciò il classismo della scuola pubblica, al tempo stesso individuando nella scuola lo strumento principale per la costruzione di una vera uguaglianza sociale.
Dunque, la scuola innanzitutto…
Sì: don Lorenzo capì con grande anticipo rispetto a tutti i progressisti dell’epoca, allora fortemente egemonizzati dalla cultura marxista, che la vera rivoluzione sarebbe consistita non tanto nell’appropriazione dei mezzi di produzione da parte degli operai e dei contadini, quanto nell’appropriazione del linguaggio, della cultura, nella loro accessibilità per tutti. Questa è una lezione che resta ancora attualissima, e in larga parte inattuata, a 100 anni dalla sua nascita e a 57 dalla sua morte.
Non ti fa sorridere il fatto che molti oggi, a differenza anche solo di qualche anno fa, lo tirino per la giacca per portarlo con forza nel proprio campo…
Questo è un po’ il destino di tutte le persone che hanno segnato profondamente il proprio tempo, suscitando reazioni aspre finché sono state in vita, per poi essere “scoperte” a decenni di distanza anche da chi le aveva avversate. C’è, peraltro, anche una nuova generazione di forti detrattori della figura del Priore di Barbiana; tra i quali anche qualcuno che lo ha studiato approfonditamente, come il professor Adolfo Scotto di Luzio, che pure è un valente studioso di storia della pedagogia. Ma forse è bene che sia così: perché il dibattito aiuta a conoscere più a fondo la grande eredità che don Lorenzo Milani ci ha lasciato.
Quale libro – tra i moltissimi usciti in questi anni – suggerisci per chi volesse approfondire il profilo del Priore?
Uno è l’ultimo di Michele Gesualdi, l’allievo che a don Lorenzo è stato più vicino, uno dei sei che vennero ospiti a Milano nell’aprile 1959 e col quale l’amicizia è rimasta viva fino a quando la malattia ha avuto la meglio su di lui, nel gennaio 2018: Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, ed. San Paolo, 2016. Un altro è Hai nascosto queste cose ai sapienti. Don Lorenzo Milani, vita e parole per spiriti liberi, ed. Giunti, 2023, scritto da Riccardo Cesari, di professione economista, ma profondissimo conoscitore di tutti gli scritti e la vita del Priore di Barbiana e, sul piano personale, suo appassionato seguace.
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