È una frazione sempre più ampia, comunque già maggioritaria, quella delle persone che vivono del proprio lavoro in grado di “usare” il mercato, esercitando un potere effettivo di scelta tra le imprese interessate alla loro prestazione – Che cosa manca perché uno spazio effettivo di libertà in questo campo sia assicurato a tutti
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Intervista a cura di Matteo Colombo pubblicata sul Bollettino Adapt il 12 febbraio 2024 – L’intervista è parte di una serie dedicata a una rivisitazione dei miei scritti pubblicati nell’arco degli ultimi 50 anni; questa prende spunto dal mio libro L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore (Rizzoli, 2020) – Su questo sito sono disponibili anche le altre interviste precedenti della stessa serie: v. tra le altre Il mercato del tempo di lavoro e La partecipazione dei lavoratori nell’azienda
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In una relazione del 2007 avevi già messo a fuoco gli ostacoli che impediscono ai lavoratori di selezionare e “ingaggiare” l’imprenditore, ma anche le ragioni per cui, invece, il mercato del lavoro va considerato sempre di più come un luogo dove sono anche le persone che vivono del proprio lavoro a scegliere l’impresa più capace di valorizzarlo. Perché, a distanza di tredici anni, sei voluto tornare su questo tema, dedicandogli il libro L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore, pubblicato nel 2020, e in particolare il capitolo qui riportato?
Perché negli anni immediatamente precedenti erano stati diffusi i risultati impressionanti – ma per lo più ignorati dall’opinione pubblica – dell’indagine svolta da Unioncamere e Anpal sulle difficoltà che le imprese già allora incontravano nel reperimento delle persone di cui avevano bisogno. Nel 2019 già si parlava di un posto su tre che rimaneva per lunghi periodi scoperto per la non disponibilità di persone che potessero ricoprirlo; e la difficoltà non riguardava soltanto i profili professionali più elevati, bensì anche profili di manodopera con qualificazione medio-bassa, suscettibile di essere acquisita con percorsi di formazione relativamente brevi e poco costosi. Il paradosso era che, mentre centinaia di migliaia di posti, anche poco qualificati, restavano scoperti per mancanza di chi potesse ricoprirli, il tasso di disoccupazione italiano restava assai elevato, se non ricordo male sopra l’8 per cento. Da questi dati mi parve che potesse trarsi innanzitutto la conferma della necessità di abbandonare la visione tradizionale di un mercato del lavoro caratterizzato da una sovrabbondanza strutturale dell’offerta di manodopera rispetto alla domanda: visione che invece viene tuttora presentata come ragion d’essere dell’intero ordinamento protettivo del lavoro. Mi parve inoltre che dovesse trarsene un buon motivo per proporre un rovesciamento del paradigma del mercato del lavoro: non più luogo dove le persone che vivono del proprio lavoro possono soltanto farsi selezionare e ingaggiare da parte delle imprese, ma un luogo dove possono essere – e sempre più diffusamente sono davvero – le persone stesse a selezionare e scegliere le imprese che possono meglio valorizzare il loro lavoro. E dove, se si manifesta una loro debolezza nei confronti della controparte imprenditoriale, ciò non è dovuto a un difetto quantitativo della domanda di manodopera, bensì semmai a un difetto di servizi capaci di mettere in comunicazione domanda e offerta in modo efficace.
Tra le diverse misure che proponi nel tuo scritto per la costruzione di un «mercato dell’intrapresa» nel quale le persone abbiano la possibilità più larga di scelta, tu attribuisci grande importanza all’attivazione di centri territoriali nei quali sia i giovani in cerca di prima occupazione, sia gli adulti in cerca di un’occupazione diversa dalla precedente, possano trovare servizi efficaci di orientamento professionale, di informazione sui molti sbocchi occupazionali possibili e sui percorsi di formazione disponibili per potervisi candidare. Ora il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha previsto importanti stanziamenti, nella Missione 5, con l’obiettivo di «riformare il sistema delle politiche attive del lavoro e della formazione professionale». A tuo giudizio, questi investimenti vanno nella direzione giusta?
Negli intendimenti dichiarati sì. Nell’attuazione pratica di questi investimenti vedo ancora poche idee chiare e molta tendenza a interpretare il progetto in continuità con il vecchio modo d’essere – principalmente burocratico – del nostro sistema di servizi pubblici per l’impiego. Non dappertutto: l’agenzia milanese per il lavoro e la formazione, Afol Metropolitana, per esempio, è impegnata ormai da tre anni in un progetto molto impegnativo e coraggioso, che consiste nella creazione di una rete di “hub” concepiti in modo moderno, essenzialmente come luoghi di svolgimento di servizi di orientamento, informazione e avviamento a corsi di formazione mirata agli sbocchi esistenti, luoghi di incontro tra le imprese che hanno difficoltà a trovare i profili di cui hanno bisogno (o le loro associazioni) e le persone che possono essere interessate al tipo di lavoro richiesto. Ma nel resto del Paese vedo scarseggiare gravemente i progetti di questo genere e prevalere la burocrazia rispetto ai servizi per l’incontro fra domanda e offerta di lavoro. E vedo, soprattutto, prevalere la vecchia burocrazia sulla nuova progettualità al centro del sistema.
A che cosa ti riferisci?
Alla rinuncia, compiuta dal Governo Conte II, allo strumento principale della nuova progettualità, che avrebbe dovuto essere costituito dall’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro, l’ANPAL. Nel periodo immediatamente precedente questa Agenzia era stata funestata da un Presidente italo-americano che pretendeva di dirigerla “in smart-working”, dal Mississippi, e che la ha letteralmente paralizzata per un intero anno. Poi essa è stata data sostanzialmente per morta e la sua struttura è stata reinserita in seno alla struttura ministeriale. Tutte le migliori esperienze disponibili nel panorama internazionale mostrano invece l’importanza di una agenzia dotata delle competenze necessarie e di una piena autonoma dall’apparato ministeriale, responsabilizzata in relazione a obiettivi precisi di efficienza e di produttività del sistema, capace di valorizzare in modo flessibile le professionalità migliori disponibili. Se si rinuncia a uno strumento come questo senza neppure aver tentato di farlo funzionare, non ci si può stupire che nell’attuazione del PNRR prevalga poi l’approccio burocratico tipicamente proprio dell’apparato ministeriale.
Tra i problemi riguardanti l’incontro tra domanda e offerta di lavoro metti al primo posto quello del sistema della formazione professionale, che funziona male, e delinei un meccanismo di monitoraggio capillare, attraverso la trasparenza e l’incrocio dei dati sulla formazione con quelli dei flussi occupazionali, che avrebbe la virtù di farla funzionare molto meglio. Come spieghi che questa soluzione non sia stata attivata?
In realtà l’attivazione di quel meccanismo è prevista esplicitamente da uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act: il d.lgs. n. 150 del 2015, agli articoli da 13 a 16, istituisce proprio l’anagrafe della formazione, disponendo che i suoi dati vengano incrociati con quelli delle Comunicazioni Obbligatorie al ministero del Lavoro sui flussi occupazionali. In questo modo potrebbe essere verificata sistematicamente, a tappeto, l’efficacia di ciascun corso di formazione per inoccupati o disoccupati finanziato con il denaro pubblico, che è misurata appunto dal tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi di chi ha frequentato ciascun corso. Su queste norme si era raggiunta un’intesa tra Stato e Regioni; senonché, dopo l’esito negativo del referendum sulla riforma costituzionale, né il Governo centrale né alcuna delle Regioni hanno ritenuto di attuare quel meccanismo, nonostante che esso sia previsto in una legge dello Stato.
Non ritieni che, anche in questo contesto, il ruolo della rappresentanza possa essere decisivo, ad esempio nell’immaginare più solide e strutturate forme di collaborazione con il sistema educativo, grazie al potenziamento dell’apprendistato duale o comunque di istituti in grado di far dialogare formazione e lavoro?
Se con l’espressione “rappresentanza” intendi indicare il sindacato, rispondo che sì, il sindacato – soprattutto quello confederale – potrebbe svolgere un ruolo di notevole rilievo in questo campo. Ma occorrerebbe che esso incominciasse a occuparsi in modo organico degli interessi delle persone nel mercato del lavoro, e non soltanto del loro interesse in azienda, nell’ambito di un rapporto di lavoro già costituito.
Fin qui è la parte del tuo discorso dedicata al potenziamento della capacità effettiva degli individui di “usare il mercato del lavoro”. Se passiamo alla parte dedicata al potenziamento della capacità di “scelta dell’imprenditore” da parte del collettivo dei lavoratori di un’azienda in crisi, nella tua riflessione assume un ruolo centrale la rappresentanza sindacale, la quale è chiamata a svolgere la funzione di vera e propria «intelligenza collettiva del lavoro». In questa prospettiva il sindacato dovrebbe ripensare il proprio profilo nella società e nel mercato del lavoro contemporanei?
Il sindacato confederale sicuramente sì. Su questo punto il discorso svolto nel libro del 2020 si salda con quello svolto nel libro del 2005, A che cosa serve il sindacato: il discorso su un sindacato capace di guidare i lavoratori nella valutazione di un piano industriale anche fortemente innovativo, della qualità dell’imprenditore che lo propone, sul piano tecnico ma anche su quello dell’etica industriale, e, se la valutazione è positiva, che sappia stipulare con quell’imprenditore una scommessa comune sul successo del piano. Un sindacato capace, poi, di esercitare un controllo effettivo sull’attuazione del piano concordato: qui si apre il capitolo della partecipazione dei lavoratori nell’impresa. E un sindacato capace, ovviamente, dopo che la scommessa sarà stata vinta, di controllare l’equa divisione dei suoi frutti. È un modello di sindacato profondamente diverso da quello che ha dominato in Italia per tutta la seconda metà del secolo passato, tutto teso soltanto a rivendicare diritti, sul presupposto dell’antagonismo tra impresa e lavoro, e a rifiutare qualsiasi forma di corresponsabilizzazione nell’impresa stessa. Ho proposto, per questo aspetto, uno schema di classificazione dei modelli di sindacato – e, corrispondentemente, di relazioni industriali – fondato sui due prototipi contrapposti, il sindacato α e il sindacato ω. Ovviamente, la realtà presenta molte sfumature intermedie fra questi due estremi.
La sfida che delinei investe anche la rappresentanza delle imprese? Quali sono le principali criticità che vedi a questo riguardo, nell’ottica dello sviluppo di un «mercato dell’intrapresa»?
Provo a rispondere a questa domanda assai difficile. Quello che ho proposto circa la necessità di sperimentare anche un sindacalismo partecipativo, capace di guidare i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore sul piano industriale buono, sul quale valga la pena di rischiare qualche cosa anche da parte loro, è un discorso che riguarda essenzialmente il sistema delle relazioni industriali al livello della singola impresa, non il sistema nazionale. Le associazioni imprenditoriali potrebbero però, forse, svolgere un ruolo positivo promuovendo nel management un’apertura culturale su questo tema; quanto meno in una parte delle proprie associate. Mi sembra, comunque, che né Confindustria né Confcommercio abbiano svolto un ruolo di apertura su questo terreno: mi riferisco in particolare alla loro chiusura netta nei confronti delle iniziative legislative dell’ultimo decennio in materia di promozione delle pratiche partecipative nelle aziende.
Nel libro citi diversi casi, italiani e non solo, dove, sia in positivo sia in negativo, i lavoratori sono intervenuti collettivamente per scegliere l’imprenditore, per lo più in prossimità o in coincidenza con una fase di crisi aziendale. Mi sembra di capire che, però, la tua proposta sia ben più ampia, e non riguardi solo un nuovo modo di gestire le crisi aziendali, bensì anche un modo di gestire i rapporti ordinari tra lavoratori e imprenditore. Come si può far sì che anche nelle imprese meno strutturate, in settori caratterizzati da un’alta instabilità occupazionale, o dove sono particolarmente diffuse forme di lavoro c.d. atipico, sia possibile immaginare forme di aggregazione collettiva capaci di dare voce e forza all’agire dei lavoratori e alle loro proposte, anche al di fuori di situazioni di crisi?
Mettiamola così: tutti i casi che conosco e che ho discusso nel terzo capitolo de L’intelligenza del lavoro, di “scelta dell’imprenditore” da parte del collettivo dei lavoratori di una azienda, sono casi di crisi dell’impresa. È nella crisi che può presentarsi l’opportunità di trattare un nuovo piano industriale con un nuovo imprenditore; ed è lì che si richiede la capacità del sindacato di valutare il nuovo piano e l’affidabilità di chi lo propone. Però questa capacità il sindacato deve incominciare a esercitarla anche prima della crisi, quando non si tratta di ingaggiare un nuovo imprenditore, bensì di controllare ciò che fa il vecchio. Questo mestiere, certo, il sindacato lo svolge più facilmente se l’organico aziendale è composto in prevalenza di persone assunte a tempo pieno e a tempo indeterminato; ma non è affatto escluso che possa svolgerlo anche in aziende dove prevalgano altri tipi di rapporto di lavoro.
Le associazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro già oggi dispongono di strumenti per accompagnare i lavoratori in transizione, per incrociare domanda e offerta di lavoro, e fornire supporto anche alle stesse imprese: mi riferisco, in particolare, agli enti bilaterali. Ritieni che questi enti possano oggi riscoprire e conseguentemente svolgere quel ruolo di «sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro» che la c.d. Legge Biagi riconosceva loro (d. lgs. n. 276/2003, art. 2, c. 1, lett. h)?
Sì, a patto che gli enti bilaterali accettino di sottoporsi a un monitoraggio sistematico dell’efficacia della loro azione: una rilevazione capillare degli esiti occupazionali della formazione impartita a inoccupati e disoccupati, uno screening continuativo e penetrante degli effetti della “formazione continua” fornita al personale già occupato. Altrimenti, è sempre in agguato il rischio della autoreferenzialità, del dare per scontata la propria ragion d’essere.
Il volume nel quale è stato pubblicato il capitolo in commento risale al 2020, in piena emergenza pandemica. In quel contesto veniva auspicato lo sviluppo di relazioni industriali collaborative e capaci di adattarsi ai diversi contesti produttivi e territoriali, per rispondere alla crisi in atto in modo rapido e incisivo. Ne sono stati un esempio i numerosi protocolli anti-contagio sottoscritti dalle parti sociali. Negli anni successivi, sembra invece tornata in auge negli ambienti politico-sindacali un’impostazione più conflittuale e rivendicativa, anche attraverso la riproposizione della tesi di uno strutturale antagonismo tra capitale e lavoro. Ritieni che questo fenomeno possa essere un ostacolo per la realizzazione di quel «mercato dell’intrapresa» di cui scrivi, o al contrario possa essere utile per ridare forza e riconoscibilità all’agire sindacale?
L’idea dell’antagonismo insuperabile tra capitale e lavoro è molto radicata nel nostro Paese; e non mi sembra che gli accordi sindacali stipulati durante la pandemia per fronteggiare la diffusione del contagio, pur sicuramente utilissimi, possano considerarsi come manifestazioni di una cultura sindacale diversa, più moderna. Mi sembra invece che una novità significativa vada ravvisata nell’attenzione che diversi sindacati di settore incominciano a manifestare nei confronti della possibilità di attirare in Italia imprese straniere: per esempio, La Repubblica del 30 dicembre 2023 riportava la notizia secondo cui i sindacati confederali del settore auto si stanno attivando per attirare in Italia un’impresa cinese produttrice di auto elettriche. Ecco: qui emerge proprio quell’attivarsi collettivo dei lavoratori per “ingaggiare” l’imprenditore, di cui parlo ne L’intelligenza del lavoro. Di più: qui emerge la capacità del sindacato di mettere a frutto la globalizzazione a proprio vantaggio, sfruttando la concorrenza tra imprenditori in un “mercato dell’intrapresa” che si estende all’intero pianeta. Se questa capacità del sindacato si sviluppa, con essa si svilupperà necessariamente anche la consapevolezza che non può esserci buon lavoro senza un buon imprenditore; che dunque anche il buon imprenditore è necessario, svolge un ruolo socialmente utile che gli deve essere riconosciuto.
In apertura del libro del 2020 scrivi che «dobbiamo smettere di pensare che le risposte ai problemi posti dalla globalizzazione, dall’automazione, dall’intelligenza artificiale possano consistere nell’ennesima sostituzione di questo o quel comma tra i milioni che riempiono le annate della Gazzetta Ufficiale. È una sfida alla quale dobbiamo rispondere soprattutto con un adeguamento della nostra cultura delle relazioni industriali». A quattro anni di distanza, c’è qualche cosa che aggiungeresti a questo proposito?
In questi quattro anni si è verificato un fenomeno che i media hanno presentato come del tutto nuovo, senza precedenti: la c.d. Great Resignation, ovvero un brusco aumento della mobilità spontanea dei lavoratori, alla ricerca di condizioni di vita e di lavoro migliori. In realtà, la sola novità sta nel picco di dimissioni che si è registrato nel 2021; ma la mobilità spontanea dei lavoratori era un fenomeno noto e studiato da almeno un quarto di secolo (penso soprattutto, qui da noi, agli studi di Bruno Contini e di Ugo Trivellato). Quella mobilità è espressione diretta della capacità di una parte sempre più ampia di persone di “usare” il mercato del lavoro, di esercitare una scelta tra le imprese disponibili, per andare a lavorare in quella più capace di valorizzare il loro lavoro. Questo fenomeno, cui sono dedicati i primi due capitoli del mio libro del 2020, impone di considerare il mercato del lavoro non più soltanto come il luogo dove è l’imprenditore a scegliere la persona da assumere, ma anche come il luogo dove è la singola persona a scegliere l’imprenditore migliore dal suo punto di vista. Questo mutamento del paradigma impone un mutamento analogo nell’intera strategia di protezione del lavoro dipendente: alla strategia fondata sull’imposizione di standard di trattamento minimi inderogabili deve affiancarsi, e in parte gradualmente sostituirsi, una strategia mirata a estendere a tutte le persone la capacità di “usare il mercato” e ad ampliare il più possibile la capacità di farlo di ciascuna persona. Il che implica un grande investimento mirato a innervare tutto il mercato del lavoro di servizi di orientamento, informazione, formazione mirata agli sbocchi effettivamente esistenti, assistenza alla mobilità geografica e professionale. Questa indicazione strategica vale per lo Stato, ma vale anche per il sindacato, che deve caratterizzarsi sempre di più per l’assistenza efficace offerta ai lavoratori anche nella ricerca dell’impresa migliore.
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