“Per ora tutto questo non è peccato, ma quando sarai maggiorenne…”
.
Intervento al convegno svoltosi a Milano, Palazzo Reale, il 26 settembre 2023 – In argomento v. anche la mia ampia intervista pubblicata ai primi di ottobre su Giustizia Insieme, Un bilancio del dibattito sull’eredità di Don Lorenzo Milani
Dopo tante riflessioni tanto profonde e strutturate, vere e proprie lezioni, posso solo aggiungere la testimonianza dell’incontro personale con don Lorenzo Milani, senza la pretesa di aggiungere molto, salvo una piccola riflessione che vi proporrò a conclusione di questo intervento.
Verso la fine degli anni ’30 Lorenzo Milani, prima di diventare sacerdote, era legato da una amicizia affettuosa con una cugina prima di mia madre, Carla Sborgi. All’epoca non si usava ancora “avere la ragazza” o “il ragazzo”; ma loro, che studiavano entrambi disegno e pittura a Brera si volevano bene. Lui poi le rimase legato da una amicizia profonda fino agli ultimi giorni della sua vita e la volle accanto a sé anche poco prima della morte, dicendo ai suoi ragazzi che erano lì con lui: “lei è l’unica persona al mondo a cui ho fatto del male”. Perché sapeva bene che lei aveva sofferto molto al momento del distacco, quando lui era entrato in seminario.
Mia madre, dunque, l’aveva conosciuto nell’adolescenza, poi dal 1942 l’aveva perso di vista. Lei sfollata e nascosta, in quanto di famiglia ebrea, per sfuggire alla persecuzione razziale; lui in seminario; fatto sta che si persero completamente di vista. Lui poi però mantenne una corrispondenza abbastanza frequente con quella che per me è la zia Carla, questa cugina di mia madre. Purtroppo lei volle distruggere le lettere che aveva ricevuto da lui.
Quando uscì Esperienze pastorali, nel 1958, don Lorenzo mandò una copia del libro a Carla. Lei lo passò subito ai miei genitori, che lo lessero e se ne entusiasmarono. Poiché facevano parte di diversi gruppi di spiritualità e di impegno sociale, come la Corsia dei Servi, il gruppo del Gallo che operava tra Genova e Milano, il gruppo di Adesso, poi Momento, che faceva capo a don Primo Mazzolari, acquistarono direttamente dall’Editore 250 copie del libro, per farlo conoscere in tutti questi gruppi. L’Editore segnalò la cosa a don Lorenzo: “c’è questa lettrice milanese che ha acquistato 250 copie”; lui volle saperne il nome e l’indirizzo; così, dopo 15 anni di silenzio e distanza, si ristabilì tra di loro la comunicazione e l’amicizia. Mia madre gli chiese “dove sei, cosa fai?”; e lui raccontò che era stato cacciato dalla sua precedente esperienza parrocchiale in pianura ed esiliato a Barbiana, dove ora aveva messo in piedi una scuola. Mia madre gli chiese che cosa potesse fare per sostenere la sua scuola e lui, oltre a fare un elenco di dizionari e vocabolari di francese tedesco e inglese di cui avevano bisogno, disse che voleva far conoscere la grande metropoli ai ragazzi: “se ci ospiti, veniamo”. Così vennero nell’aprile del ’59, ospiti in casa nostra: materassi dappertutto per terra e le mie sorelle spedite dai nonni per una settimana. Insieme a lui c’erano i primi sei allievi della scuola di Barbiana: Michele Gesualdi, Agostino Burberi, Aldo Bozzolini, Giancarlo Carotti, Silvano Salimbeni e Giancarlo Tagliaferri. Io per quella settimana non andai a scuola e visitai la città, la Pirelli e la Siemens con loro.
Da lì nacque un rapporto fortemente coinvolgente, non solo per i miei genitori, ma anche per me. Per dare un’idea di questo coinvolgimento, racconto solo due episodi della predicazione di don Milani di cui fui diretto testimone, che mi colpirono lasciando profondamente il segno.
Anche negli anni successivi, ogni volta che veniva a Milano, ovviamente i miei genitori ci tenevano molto ad averlo ospite a pranzo, a cena, qualche volta anche a dormire. In occasione di una di quelle visite invitarono a cena con lui anche l’amica carissima Sofia Rovighi, che insegnava filosofia teoretica alla Cattolica. Io avevo 12 o 13 anni; coglievo uno straordinario interesse di Sofia Rovighi verso questo prete e la sua scelta di fondo che ben poteva dirsi “comunista”; ma non comunista nel senso politico corrente del termine e come lo si intendeva soprattutto a metà del ‘900, bensì nel senso di un comunismo fondamentalmente etico. Fatto sta che di fronte a questa sua posizione, che lui esprimeva in modo molto incisivo e senza fare sconti a nessuno, senza neppure alcuna attenuazione per cortesia verso i suoi ospiti, Sofia Rovighi gli obiettò: “il diritto di proprietà è riconosciuto anche da San Tommaso; fa parte della dottrina sociale della Chiesa cattolica”. La sua risposta fu per me folgorante: “Sì, certo. Ma San Tommaso dice che in extremis omnia sunt communia: nelle situazioni estreme il diritto di proprietà cede di fronte all’esigenza di soccorrere chi ha bisogno o è in pericolo; in quelle situazioni ogni cosa è a disposizione di tutti”. E aggiunse: “tutto sta nello stabilire dove è il limite dell’extremum. E il dovere del cristiano, di chi segue il Vangelo, è di stabilire dove sia l’extremum mettendosi nei panni di chi sta male”. Cioè, non guardando la situazione dal di fuori, ma dal di dentro. “Se vi mettete nei panni …” – e lì raccontava delle miserie, delle sofferenze dei poveri, che allora erano assai più poveri di quanto non lo siano i poveri in Italia oggi – “vi rendete conto che qui oggi non c’è gran spazio per la proprietà privata”.
Questo suo messaggio mi colpì profondamente. Lui, del resto, non fece nulla per attutire l’impatto: in un’altra occasione, ancora nel salotto della nostra casa, questa volta a pranzo, accennando alle pareti tappezzate di libri e all’agio che trasudava da quell’ambiente, mi disse: “Pietro, per ora tutto questo non è peccato. Ma appena diventi maggiorenne, se non restituisci tutto diventa peccato”. E questo lo diceva davanti ai mei genitori, che maggiorenni erano già da parecchio tempo.
Questo per dire quanto urticante, abrasiva era la sua predicazione, il suo modo di rapportarsi a persone a cui pure voleva bene, alle quali era legato da un solido rapporto di amicizia.
Poi, il corollario era: “Se vuoi davvero restituire, o fai l’insegnante, restituisci la cultura, o fai il sindacalista e la metti direttamente al servizio degli operai”. Queste erano le sue indicazioni operative. Anche perché in questo è il nucleo più straordinariamente attuale, di straordinario valore, della sua idea politica: l’emancipazione dei poveri, di chi non ha nulla, non nasce dal riuscire ad appropriarsi dei mezzi di produzione – come predicavano i partiti marxisti a quell’epoca – ma nasce dall’appropriarsi della lingua, della parola, della cultura. In quello lui indicava ciò che occorreva restituire ai poveri: restituire la capacità di conoscere, capire e comunicare. Lì è il passaggio decisivo per l’emancipazione.
Ora Scotto di Luzio nel suo ultimo libro – che è durissimo nei confronti di don Lorenzo Milani, ma è anche il libro più profondo, più corposo nella sua critica corrosiva – lo accusa di teorizzare la necessità che la scuola pubblica trasmetta una “cultura del popolo”, degli operai e dei contadini, cosa molto diversa dalla cultura universale che deve essere oggetto dell’insegnamento impartito da una scuola pubblica. Ora, secondo me Scotto Di Luzio non ha capito bene che cos’era la scuola di Barbiana. Era, sì, una scuola popolare; se la cultura è la risposta di una comunità ai problemi ai problemi della vita in una data situazione, in una data circostanza, la circostanza, lì, consisteva in un contesto di povertà, nel quale era difficile sollevare lo sguardo da terra. Ma in quel contesto don Milani insegnava ad alzarlo, lo sguardo, da terra. Insegnava tutto: l’astronomia, le lingue, le arti figurative, la musica. Non c’era alcuna limitazione nella nozione di “cultura” a cui la scuola di Barbiana dava accesso: in questo la critica di Scotto Di Luzio mi lascia un po’ perplesso, mi sembra che non colga proprio nel segno.
Per altro verso, Scotto Di Luzio non considera ciò che in quegli stessi anni era la scuola media statale. Posso darne testimonianza diretta: entrai nella prima media ancora non riformata con altri 31 miei coetanei; terminai quel ciclo, la terza media, con 12 soli di loro, perché tutti gli altri erano stati persi per strada. E li si era voluti perdere, era stata una scelta deliberata. La mia professoressa di lettere considerava come sua missione quella di scremare, selezionare, e portare al liceo soltanto i più bravi, che poi erano quelli che avevano i libri a casa, avevano i genitori che li aiutavano a fare i compiti; mentre quelli che venivano scartati erano il figlio dell’operaio, il figlio della portinaia e così via.
Chiudo con una ultima notazione, sempre riportando ciò che mi ha personalmente, profondamente colpito e segnato dell’incontro con don Milani.
Io avevo una nonna ebrea, che con mia madre ha dovuto nascondersi durante la persecuzione razziale. Attingendo alla cultura ereditata dalla sua famiglia, la nonna usava dire a noi nipoti: “Quando ti capita qualcosa che tu non avresti voluto, che consideri un guaio, una sconfitta, una perdita, non ti lamentare; perché non puoi sapere se quanto ti è accaduto è per il tuo bene o per il tuo male”; poi aggiungeva: “anche perché, se sarà per il tuo bene o per il tuo male, dipende quasi del tutto da te”. Cioè, da come vivrai la nuova situazione in cui ti trovi in conseguenza di quanto ti è accaduto. Questo precetto noi lo sentivamo come un po’ astratto; non ci credevamo granché. Ma dovemmo ricrederci. Poco dopo il primo incontro con don Milani, che avvenne nell’aprile del ’59, più o meno a maggio andammo a trovarlo a Barbiana, come poi avrei fatto molte altre volte. In quella prima nostra visita alla pieve di Sant’Andrea lui ci portò a vedere il posto dove aveva deciso che sarebbe stato seppellito. Voleva chiarire che lui, lì a Barbiana, non si sentiva come in un esilio di cui sperava che la durata fosse la più breve possibile, come in un posto dove lui dovesse scontare una pena dalla quale liberarsi il più presto possibile. Lui, invece, lì collocava la sua esistenza e lì si era impegnato a costruire il senso della sua esistenza. Ricordo che nel viaggio di ritorno a Milano mia madre diceva “Peccato, una persona così spiritualmente ricca, così intelligente, così santa, relegata in un posto, un non luogo come Barbiana, e che decide di restare lì, di non andarsene”. Poi però, negli anni successivi, assistemmo al miracolo. Quell’esilio, quel luogo di pena si era trasformato in una scuola conosciuto da tutti, a tutte le longitudini e le latitudini; il luogo nel quale una vita straordinariamente ricca e capace di produrre del bene si era espressa al massimo grado.
Ecco, questo miracolo, cioè l’aver saputo fare di quell’apparente sconfitta il bene della sua vita, noi l’abbiamo visto realizzarsi nel modo più straordinario. Abbiamo assistito al verificarsi in concreto di quello che ci diceva la nonna. Credo che, se mai don Lorenzo potesse essere canonizzato, il “miracolo” da lui compiuto dovrebbe essere indicato nella straordinaria metamorfosi che è riuscito a imprimere – con la sua fede, la sua speranza e l’amore per la sua gente – a quello che poteva apparire destinato a essere soltanto un momento buio della sua esistenza.
.