La retribuzione non è una variabile indipendente del sistema: lo standard minimo universale è utile se determinato con precisione nella misura corretta, che non è la stessa in ogni parte d’Italia
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Intervista a cura di Serena Riformato pubblicata su La Stampa e Il Secolo XIX il 20 agosto 2023 – In argomento v. anche l’intervista pubblicata su Italia Oggi il 27 luglio
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Professor Pietro Ichino, Lei è favorevole all’introduzione di un salario minimo legale?
Sì, a condizione che sia determinato secondo criteri corretti, sulla base dei dati disponibili su domanda e offerta di lavoro. Perché la retribuzione non è una variabile indipendente del sistema.
Che cosa intende dire?
Intendo dire che se lo si stabilisce a un livello troppo basso non serve a niente o addirittura fa danni, avendo un effetto depressivo sui livelli retributivi effettivi; se lo si stabilisce a un livello troppo alto produce disoccupazione o lavoro nero. Lo standard retributivo minimo universale non può essere stabilito “a occhio”, secondo l’opinione personale di questo o quel politico, di questo o quel magistrato.
Si riferisce a qualcuno in particolare?
Beh, quando leggo che nel “caso Esselunga” il Pubblico Ministero del Tribunale di Milano, minaccia il commissariamento dell’azienda se essa non fa aumentare a 1.400 euro al mese i salari dei dipendenti dei propri appaltatori, vorrei chiedergli quali criteri abbia applicato per arrivare a determinare a questo livello la “giusta retribuzione”. A meno che – appunto – il P.M. milanese ritenga che la retribuzione sia una variabile indipendente, il cui aumento per decreto non abbia effetti sulla domanda di lavoro e sulla disoccupazione.
Ma lo stesso chiarimento non andrebbe chiesto allora anche ai partiti di opposizione che propongono di determinare il salario minimo orario a 9 euro?
Certo, anche i firmatari di quella proposta devono chiarire criteri e dati su cui si sono basati. E non possono limitarsi a rispondere che hanno fatto riferimento ai contratti collettivi nazionali dei maggiori settori dell’industria.
Perché no?
Perché i contratti dei principali settori manifatturieri sono stipulati guardando soprattutto al centro-nord del Paese, dove la manifattura è fiorente e diffusa. Ma quello che va bene per il centro-nord non va bene al sud, dove oltretutto il costo della vita è mediamente più basso ed è mediamente più bassa pure la produttività del lavoro, anche a causa di gravi difetti delle infrastrutture. Uno standard minimo universale non può non tenere conto di squilibri interregionali forti come quelli che si registrano in Italia.
Come potrebbe tenerne conto, senza che si torni alle “gabbie salariali”?
Basterebbe stabilire il salario minimo in termini di potere d’acquisto della moneta. Si tratterebbe di affidare all’Istat il calcolo e l’aggiornamento periodico di un indice del costo della vita medio regionale o provinciale, in base al quale il salario minimo possa essere modulato. Per esempio, se il minimo orario è 9 euro come dato medio nazionale, il minimo salariale potrebbe risultare del 20 per cento più alto a Milano e del 10 per cento più basso a Cosenza. Altrimenti il rischio è di stabilire uno standard troppo basso per la Lombardia e troppo alto per la Calabria.
Ma questo non significa appunto tornare alle “gabbie salariali”?
No: le “gabbie” stabilivano un rapporto immutabile tra i livelli retributivi di 14 zone rigidamente fissate. Qui, invece, il rapporto tra i territori varierebbe in relazione alle variazioni effettive del costo della vita in ciascuna provincia, calcolate periodicamente dall’Istat. Un po’ come accade in Germania.
L’obiezione più frequente della maggioranza e della Cisl è che le retribuzioni medie rischierebbero di precipitare verso il basso. C’è questo rischio?
In qualche misura questo rischio può esserci al nord, in riferimento a uno standard minimo tarato sulla media nazionale, dunque relativamente basso per la pianura padana. Ma il rischio maggiore, in questo caso, lo vedo al sud, dove lo standard medio sarà inevitabilmente più alto del dovuto; produrrà dunque un aumento della disoccupazione o del lavoro irregolare.
Secondo il segretario della Cisl Luigi Sbarra “slegare il salario orario dalla contrattazione imponendolo per legge smantellerebbe il sistema di relazioni industriali, assegnando la funzione regolatoria ai partiti e alla maggioranza di turno”. Insomma sarebbe un’entrata a gamba tesa della politica sulle competenze dei sindacati?
Su questo punto mi sembra che Sbarra sbagli: uno standard minimo universale ben tarato e modulato produce molti più vantaggi che danni per il sistema delle relazioni industriali.
Lei ha detto che una norma sul salario minimo era presente anche nella legge delega del Jobs Act. Allora il presidente del Consiglio Matteo Renzi era d’accordo?
Sì, la legge-delega prevedeva l’emanazione di una norma che stabilisse lo standard minimo applicabile in tutti i casi in cui non fosse applicabile un contratto collettivo nazionale stipulato dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative. Senonché poi la delega non venne esercitata dal Governo Gentiloni, soprattutto a causa dell’opposizione di Cgil e Cisl. Non mi è chiaro il motivo per cui oggi Renzi non riproponga almeno quella soluzione.
Cosa pensa della decisione del governo di affidarsi al Cnel?
Visto che col referendum del 2016 abbiamo deciso di mantenerlo in vita, mi sembra del tutto logico e opportuno che gli si affidi il compito di promuovere gli studi necessari per una corretta determinazione dello standard minimo, anche eventualmente in via sperimentale e/o limitata ai settori nei quali ce n’è più bisogno. Anche perché nel Cnel sono rappresentate le associazioni maggiori sia di parte imprenditoriale, sia di parte sindacale.
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