Bene condizionare il sostegno del reddito alla frequenza di corsi di formazione da parte degli “occupabili”; ma questa nozione resta indefinita e manca il monitoraggio sulla qualità dei corsi – Sul contratto a termine il Governo ripropone la tecnica legislativa del “causalone”, che ha il solo effetto di un gonfiamento del contenzioso giudiziale
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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi, pubblicata su Italia Oggi il 3 maggio 2023 – In argomento v. anche Il decreto-lavoro: un po’ poco per far festa .
Un decreto poco chiaro. Che reintroduce una causale generica per il ricorso ai contratti a tempo determinato, il che «significa lasciare una immensa prateria aperta alla discrezionalità dei giudici, quindi ai ricorsi degli avvocati, che sono i veri beneficiari di questa tecnica legislativa». Pietro Ichino, giuslavorista della Statale di Milano, ex parlamentare Pd, considerato il padre del Jobs act che mandò in soffitta l’Articolo 18 dello Statuto, analizza il decreto di riforma del lavoro approvato il primo maggio dal governo Meloni. Positivo, dice Ichino, aver condizionato il reddito di cittadinanza alla partecipazione a corsi di formazione, ma per rendere occupabile chi non lavora occorrerebbe un monitoraggio rigoroso sulla qualità della formazione impartita: «oggi 1,2 milioni di posti di lavoro in Italia restano scoperti, a tutti i livelli, per mancanza di chi possa ricoprirli». E a Susanna Camusso, la quale sostiene che riformare l’Articolo 18 è stato un errore, risponde: «Le riforme del 2012 e 2015 hanno semplicemente allineato l’Italia al resto d’Europa». In quanto alla linea sul lavoro della nuova segreteria di Elly Schlein, «spero che riuscirà a mettere a fuoco i veri problemi del lavoro nel nostro Paese senza mettersi a rincorrere i fantasmi del passato».
Domanda. Il primo maggio, tra molte contestazioni della sinistra e del sindacato, il governo ha approvato il decreto lavoro. Come valuta il provvedimento?
Risposta. Male sotto il profilo della chiarezza e della leggibilità del testo legislativo. Quanto ai contenuti pratici, li trovo molto modesti. C’è qualche cosa di positivo e qualche cosa di negativo, ma in entrambi i casi in piccole dosi: la quantità del cambiamento effettivo è limitata.
Andiamo per ordine: incominciamo dalla riforma del reddito di cittadinanza, con il taglio di circa un miliardo di spesa. Secondo la Cgil è «una follia». Lei pensa che il RdC fosse da tenere o da cambiare?
R. Tutti i Paesi civili hanno un programma pubblico di assistenza contro la povertà. Anche l’Italia lo aveva prima del 2018: si chiamava Reddito di Inclusione. Al di là della ridda dei nomi, è ovvio a tutti che questo programma vada migliorato, non certo soppresso. Migliorarlo significa innanzitutto individuare in modo chiaro chi può, realisticamente, essere reinserito nel tessuto produttivo, da chi non può; inoltre condizionare, in questo caso, il sostegno del reddito alla partecipazione a iniziative efficaci per il reinserimento.
D. Il decreto del primo maggio non fa proprio questo?
R. Vedrei molto positivamente il fatto che il godimento del beneficio da parte degli «occupabili» viene condizionato alla frequenza di un corso di formazione, se non fosse che nel decreto la nozione di «occupabile» resta avvolta nella nebbia e che esso non dedica una parola al controllo circa la qualità ed efficacia dei corsi di formazione che i beneficiari dovrebbero frequentare.
D. Altri aspetti critici?
R. Il governo avrebbe dovuto abbandonare il riferimento all’«offerta congrua di lavoro», che in Italia non è mai esistita: non può essere su quella che si impernia la «condizionalità» del sostegno del reddito degli «occupabili».
D. Su che cosa, invece?
R. Sull’obbligo di frequentare un corso di formazione mirato a uno dei 1,2 milioni di posti di lavoro che ancora oggi, secondo Unioncamere, restano scoperti per la difficoltà che le imprese incontrano nella ricerca delle persone in grado di ricoprirli. Ma perché questo meccanismo funzioni, come dicevo, sarebbe indispensabile un controllo capillare e rigoroso della qualità dei corsi disponibili e la chiusura dei molti del tutto inutili.
D. Come?
R. Imponendo alle Regioni l’attuazione dell’anagrafe della formazione professionale, con incrocio dei suoi dati con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro, delle liste di disoccupazione, degli albi ed elenchi professionali, dell’Agenzia delle Entrate, in modo da rilevare per ciascun corso il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi. Come sarebbe già previsto dagli articoli da 13 a 16 del decreto legislativo n. 150/2015, che però sono rimasti lettera morta.
D. Perché non lo si fa?
R. Perché in Italia la scelta bi-partisan che prevale è sempre quella di privilegiare gli interessi degli addetti al servizio rispetto a quelli degli utenti: così, come nella Scuola e nell’Università, anche nel sistema della formazione professionale si preferisce sacrificare l’interesse di lavoratori, disoccupati e imprese, piuttosto che rischiare di dover chiudere un servizio non produttivo di risultati utili. Oltretutto, attivare la condizionalità giusta nell’erogazione del sussidio agli «occupabili» consentirebbe di riportarlo a 500 euro; che mi sembra il minimo, se vuol essere una cosa seria.
D. I servizi per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro da noi non hanno mai funzionato. Ha senso continuare a puntare sui centri per l’impiego?
R. Avrebbe senso nell’ambito di un progetto di ampio respiro, con un investimento incentrato soprattutto sulla formazione di un centinaio di nuovi dirigenti del servizio che preveda degli stage presso i servizi omologhi che funzionano meglio nel centro e nord-Europa e l’importazione dei migliori modelli di organizzazione. Ma un progetto di questo genere richiede, per dare i suoi frutti, un tempo troppo lungo rispetto ai tempi della politica italiana, che ha il fiato corto e ha sempre bisogno di risultati immediati o quasi.
D. Veniamo al secondo capitolo importante del decreto: la semplificazione dei contratti a termine.
R. Qui, francamente, non vedo né una semplificazione né un cambiamento sostanziale. Viene conservata la disciplina attuale, che consente l’assunzione a termine senza «causale» per un massimo di 12 mesi; si prevede che la determinazione delle “causali” per una maggiore durata del rapporto a termine sia affidata ai contratti collettivi, i quali dovranno provvedere entro la fine del 2024; in attesa che questi vengano stipulati, si ripropone il vincolo delle «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva», cioè il cosiddetto «causalone» del decreto n. 368/del 2001, che allora servì soltanto a gonfiare il contenzioso giudiziale.
D. Può spiegare meglio?
R. Dire che il contratto può essere stipulato a termine soltanto per «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva» significa lasciare una immensa prateria aperta alla discrezionalità dei giudici, quindi ai ricorsi degli avvocati: sono questi i veri beneficiari della norma. Per lavoratori e imprese, certezze zero. Le norme varate su questa materia nel 2012 e nel 2014-15, basate su una tecnica protettiva diversa, hanno dimezzato il contenzioso giudiziale; ciononostante la quota dei contratti a termine sul totale degli occupati in Italia è rimasta al livello della media UE.
D. Poi c’è il taglio del cuneo fiscale e contributivo sulle buste-paga, che l’opposizione giudica insufficiente perché per ora è finanziato solo fino a fine anno.
R. Certo, questo suo carattere “ a termine”, non strutturale, rischia di ridurre molto l’impatto positivo della misura sull’occupazione e in particolare su quella stabile. Però il taglio è importante, va nella direzione giusta dell’allineamento del cuneo italiano a quello francese e – chissà – domani anche a quello tedesco. Per questo occorre sperare che nella Finanziaria di fine anno si trovino i fondi per rendere la misura strutturale.
D. Susanna Camusso, ex segretaria della Cgil e oggi senatrice del Pd, ha detto che riformare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è stato un errore. Così la pensa anche tutta la sinistra. Lei che ne pensa?
R. L’articolo 18, nella sua formulazione originaria, sostanzialmente istituiva nelle imprese private un regime di job property simile a quello vigente nel settore pubblico. Era ovvio che quel regime non potesse applicarsi neppure a una metà dei lavoratori del settore privato: ne erano coperti 5,5 milioni in tutto. E in nessun altro Paese al mondo vigeva un regime analogo, nel settore privato. Le riforme del 2012 e del 2015 hanno semplicemente allineato l’Italia al resto d’Europa, per questo aspetto. Non credo davvero cha avrebbe alcun senso tornare indietro.
D. Ma allora qual è la linea del Pd per il lavoro?
R. C’è molta attesa per le prime mosse su questo terreno di Cecilia Guerra, cui compete la responsabilità per questa materia nella nuova Segreteria del Pd. Poiché ne ho grande stima, pur avendo su molte cose idee diverse dalle sue, spero che riuscirà a mettere a fuoco i veri problemi del lavoro nel nostro Paese senza mettersi a rincorrere i fantasmi del passato.
Nell’abbraccio con i 5stelle non c’è il rischio che aumenti il tasso di massimalismo del Pd?
R. Negare l’esistenza di questo rischio sarebbe azzardato. Però mi sembra che, almeno per ora, Elly Schlein sia stata molto attenta a marcare le differenze essenziali rispetto al M5S e a non cadere nel massimalismo e nel populismo.
D. Lei ritrova ancora nel partito di Elly Schlein l’impronta riformista che caratterizzò gli anni del suo impegno per il Jobs Act?
R. No, non si può dire che quell’impronta sia rimasta nitida nella linea del Pd di oggi. Ma il tessuto politico del Pd è ancora sano e vitale. Per altro verso, molti fatti sono lì a confermare che la battaglia contro il populismo e il massimalismo, per una sinistra europeista e non demagogica, non la si combatte efficacemente se non dando il proprio contributo dentro questo grande partito, l’unico che abbia ancora radici profonde e diffuse nel tessuto civile del nostro Paese. Anche accettando di restare per un po’ in minoranza.
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